I dialetti sono, con le loro coloriture lessicali, una grande risorsa espressiva per la lingua italiana, che oggi è ricca, variegata, forte e consolidata su tutto il territorio nazionale. Che la lingua italiana sia ben salda, ce lo dice anche l'ultimo rilevamento Istat: per la prima volta dall'unità d'Italia, più del 50% degli italiani (il 53,1%) tra i 18 e i 74 anni, cioè 23 milioni e 351mila persone, parla in prevalenza italiano in famiglia (tra i giovani di 18-24 anni la percentuale sale al 60,7%). Proprio per questo, il dialetto non è più sentito come un simbolo o riflesso di svilimento socioculturale, un segnale di arretratezza. Anzi. È vissuto come libertà di registro (meno formale, più colloquiale e famigliare dell'italiano standard), porta spalancata sui sentimenti immediati, grimaldello ludico. Gioco e sentimento: come accade nella letteratura (basti pensare a Camilleri, e non solo), come succede, da anni, nella musica pop e nel rap.

Pino Daniele ha scritto e cantato molto nel suo grande dialetto napoletano, fonte di ricchezza per la letteratura e la canzone che da regionali, tante volte, si sono sapute fare patrimonio della nazione. E ci ha restituito, sovrimpresse di venature che in lingua sarebbero state opache, parole che, pur non essendo nuove, nuove suonavano all'orecchio, per via di una potenza evocatrice che soltanto il dialetto era in grado di sprigionare. Come nel caso di appocundria, interfaccia dialettale dell'italiano ipocondria, nel senso semanticamente vago di 'profonda malinconia', che tanto sembra addirsi (come hanno scritto Patricia Bianchi e Nicola De Biasi nel 2007, in Totò, parole di attore e di poeta) alla condizione della «napoletanità».

È questa appocundria, nutrita di fatalistica accettazione delle sorti della vita, segnata da una noia esistenziale e venata di scettico ma malinconico distacco per qualcosa di indefinibile che non è, non è stato e non è potuto essere, che si fa cifra di un sentire tutto napoletano nella canzone omonima di Pino Daniele (in Nero a metà, EMI, 1980):  «Appocundria me scoppia / ogne minuto 'mpietto /peccè passanno forte / haje sconcecato 'o lietto /appocundria 'e chi è sazio / e dice ca è diuno /appocundria 'e nisciuno… / Appocundria 'e nisciuno».

Ha scritto Carmine Saviano su repubblica.it: «Pino Daniele, da autentico bluesman, è stato anche un magnifico autore di versi. Parole sempre autentiche, semplici, potenti. Sempre velate dall'appocundria: quel distacco malinconico che gli ha permesso di stabilire un rapporto empatico innanzi tutto con Napoli e con tutto il cosmo di simboli e personaggi racchiuso nella città».

Immagine: Pino Daniele. Fonte: https://www.flickr.com/photos/10022299@N08/2489102105. Crediti: Elena Torre [CC by 2.0 (https://creativecommons.org/licenses/by/2.0/deed.it)]. Fonte: https://www.flickr.com/people/32038338@N02, attraverso Wikimedia Commons.

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