1. Si possono misurare le emozioni che proviamo quando leggiamo una poesia? Oggi, con le moderne neuroscienze, è possibile. Qualche anno fa un gruppo di studiosi ha provato a farlo calcolando lo “sforzo cognitivo cerebrale” e l’“indice emotivo” di venti studenti e dottorandi della Sapienza, divisi in Humanist e Not Humanist, mentre ascoltavano alcuni brani celebri della Commedia, tra i quali i versi finali del canto di Paolo e Francesca: da «Noi leggiavamo un giorno per diletto / di Lanciallotto come amor lo strinse; / soli eravamo e sanza alcun sospetto» fino a «E caddi come corpo morto cade» (Inf., V 127-29 e 142). Gli studiosi si erano chiesti, avviando l’esperimento, se la conoscenza del testo poetico genera maggiore emozione e interesse cerebrale; e se chi conosce la Commedia si emoziona di più rispetto a chi non la conosce o la conosce meno (qui c’è la descrizione dell’esperimento; qui si trova invece il paper). Le risposte ottenute con i dati quantitativi confermano quello che era facile intuire. In primo luogo, che gli umanisti provano più emozione e interesse rispetto ai non umanisti; e poi che l’emozione generata dai versi di Dante è superiore rispetto a quella provata ascoltando una parafrasi. Infine, che l’emozione aumenta quando il brano ascoltato è più famoso, come appunto accade con il canto di Paolo e Francesca. In altre parole: la qualità e il grado delle emozioni che proviamo leggendo o ascoltando una poesia – emozioni che tutti possiamo provare per natura – dipendono strettamente dalla cultura.

2. Mi è capitato di ascoltare dei bravi insegnanti – di quelli che cercano innanzitutto di spiegare agli studenti in quanti modi il passato è diverso dal presente – dire che l’amore di cui parla Dante è una cosa completamente differente da quello che s’intende oggi. Ora, non c’è dubbio che la concezione dell’amore di Dante sia difficile da comprendere e quindi da descrivere. Ma se per amore intendiamo le emozioni e il racconto che ne fa la poesia, l’amore della Commedia e delle poesie liriche dantesche è lo stesso amore di cui parliamo oggi semplicemente perché i nostri vecchi cervelli provano istintivamente ancora le stesse emozioni di quelle degli uomini del Paleolitico. Se si dice agli studenti che quell’amore è completamente diverso si rischia di non far più capire loro il motivo per cui possono commuoversi leggendo Saffo, Ovidio, i trovatori, Dante, Petrarca e Boccaccio. Si deve invece spiegare che è diverso il modo in cui Dante inserisce l’amore in un codice letterario e soprattutto in un sistema ideologico, in un ragionamento sul mondo, in un quadro teologico e religioso rigidamente strutturato. Detto in un altro modo: non è l’amore in sé a essere diverso, è diverso il discorso sull’amore. Questa distinzione, per la Commedia, è particolarmente utile perché spiega sia uno dei motivi per cui ci emoziona ancora sia perché è così lontana da noi nella sua architettura complessiva. Dante, infatti, ci entusiasma perché la rappresentazione delle passioni, specie nell’Inferno, tocca corde profondissime proprio nel momento in cui descrive le stesse passioni che tutti proviamo ancora oggi con più forza: la gelosia, l’ira, l’invidia, l’amore. Dante, tuttavia, inserisce la rappresentazione delle passioni, e dell’amore in particolare, in un quadro teorico che non è più il nostro. E anche per questo può giudicare e condannare quell’amore, quell’invidia, quell’ira, quella gelosia. Solo in questo senso l’amore di Dante è completamente diverso dall’amore come lo intendiamo oggi. E in ogni caso, come dimostrano le neuroscienze, per poter fruire più intensamente delle emozioni che Dante descrive, abbiamo bisogno di educazione. E lo strumento più importante per comprendere l’amore (e le altre passioni della Commedia) è il commento, quel commento che ha accompagnato il poema fin dall’inizio della sua diffusione e dal quale il testo è di fatto inseparabile.

3. Ma che cos’è l’amore per Dante? E che cosa dovrebbe dire un commento? Per rispondere a questa domanda bisogna partire da lontano. Nella prima lettera ai Corinzi, san Paolo spiega che cos’è l’amore, la caritas: «La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (13 4-7). Questa idea di caritas non è lontana dalla concezione dell’amore profano che ritroviamo già nella Vita nova, il libro giovanile di Dante: l’amante deve essere paziente, l’amata benigna, nemica dell’invidia, rispettosa dell’amante; gli innamorati non devono cedere all’ira; l’amante deve sopportare le sofferenze e deve sempre continuare a sperare. È questa l’idea di amore perfetto cui Dante tende nella poesia lirica. Più in generale, i poeti del Medioevo descrivono l’amore in molti modi, talvolta utilizzando un vocabolario simile a quello della letteratura religiosa e di quei pensatori che si interrogano sulla morale e sul peccato. Dal Cantico dei cantici ai mistici, l’amore per Dio e l’amore terreno parlano una lingua comune e la lussuria è spesso al centro delle riflessioni dei filosofi e dei moralisti (sebbene per gli uomini del Medioevo non sia il più grave dei peccati). Nel Medioevo volgare, accanto a una lirica che canta d’amore e tende a rappresentare i desideri e le passioni del poeta, esiste infatti un discorso “sull’amore” nel quale i lirici, dai trovatori ai Siciliani fino agli stilnovisti e oltre, utilizzano normalmente il vocabolario e i concetti della filosofia e della scienza del loro tempo, della fisica e della medicina. Ma le corrispondenze con la lettera ai Corinzi sono particolarmente importanti poiché dimostrano che per Dante tra l’amore sacro e l’amore profano – tra una certa idea di amore profano – può non esserci frattura. Se non c’è frattura, se anche nell’amore terreno c’è un ricordo della caritas di san Paolo, si spiegano meglio gli elementi sacri presenti nella lirica dantesca, soprattutto nella canzone Amor, che movi tua virtù dal cielo: la donna – la cui esistenza contribuisce a rafforzare la fede – è creata perfetta da Dio, è simile a un angelo, combatte i vizi, induce alla virtù, diffonde la sua bellezza nel mondo come lo Spirito Santo ed è quindi assimilabile alla Vergine Maria. E soprattutto si capisce perché la Commedia possa essere fondata sull’idea che l’amore per una donna mortale che occupa un posto speciale in Paradiso sia perfettamente congruente con l’amore inteso come forza universale che dà vita e movimento a tutto ciò che esiste.

4. Ma i commenti sono davvero indispensabili? Ricordo bene il mio esame di maturità. Era il 1998, eravamo in un liceo scientifico e quello sarebbe stato l’ultimo anno del 60 come punteggio massimo. La professoressa di italiano aveva dato a tutti voti altissimi e il commissario esterno (si chiamava Danzica, non lo dimenticherò mai) si era convinto che nessuno di noi li meritava. Quando arrivò il mio turno mi chiese di parlare di un argomento a piacere. Avevo studiato poco, ma c’erano alcune cose che pensavo di conoscere. E scelsi Dante, l’ultimo del Paradiso. Danzica mi fissò sornione e disse: «Perché, pensi di averlo capito?». Da quel momento in poi l’interrogazione non poteva andare bene, e infatti andò abbastanza male. Il voto finale non fu memorabile. Ma la cosa più importante è che il canto XXXIII del Paradiso io davvero non l’avevo capito. E non perché non mi piacesse la Commedia (che avevo letto per intero già qualche anno prima, e da solo) e non perché la professoressa di italiano non fosse in grado di spiegarla. Ma perché ero giovane e superbo e mi ostinavo a leggerla senza commento, per di più nell’edizione Sapegno (che ritenevo migliore) e non su quella che aveva suggerito la docente e sulla quale interrogava. E le mie sottolineature di allora (su quell’edizione che conservo ancora) erano tutte “estetiche”: nel canto XXXIII, per esempio, avevo evidenziato solo le similitudini. Avevo letto Dante con amore, ma lo avevo letto senza studio.

Negli ultimi anni la mia occupazione principale è stata commentare le Rime di Dante. È quindi del tutto scontato che io giudichi utili i commenti alle opere letterarie, specie quelle molto distanti da noi. Dico di più: mi sembra un dato di fatto, inutile da dimostrare. Per questo motivo mi ha colpito molto scoprire negli ultimi giorni del 2020, sui due principali quotidiani italiani, che l’opinione di alcuni autorevoli studiosi è completamente diversa. Sul Corriere della Sera del 28 dicembre 2020 (Dante, la Divina Commedia resta un mistero), Paolo Di Stefano intervista Federico Sanguineti, che insegna filologia italiana a Salerno e che nel 2001 ha curato un’importante edizione critica della Commedia. Quando l’intervistatore gli chiede «Come consiglierebbe di leggere la Commedia a scuola?», Sanguineti risponde: «Consiglierei di leggere senza commento, che era il consiglio di De Sanctis. Bisogna togliere il mito del capire tutto a ogni costo, presumendo che si sappia già tutto». Due giorni dopo, su Repubblica, uno dei più acuti critici letterari italiani, Filippo La Porta, parla dell’attualità e dell’inattualità di Dante (Dante, eterno maestro, 30 dicembre 2020) e verso la fine si chiede anche lui Come leggere la Commedia? La risposta è simile a quella di Sanguineti: «Suggerisco di trascurare almeno una volta il battiscopa a volte ingombrante delle note a piè di pagina e di leggere il testo accettando di non capire tutto».

Ora, se è vero che leggere la Commedia senza commento può essere un’esperienza diversa e straordinaria, quello che ci insegna l’esperimento che ho ricordato all’inizio è che tutti, umanisti e non umanisti, possiamo emozionarci leggendo il canto di Paolo e Francesca o l’ultimo del Paradiso, ma che quelle emozioni sono più intense se siamo stati educati (e se leggiamo e facciamo leggere la Commedia col commento).

5. Qualche giorno fa un bravo dantista, Giuseppe Alvino, ha postato su Facebook un’immagine di un manoscritto della Commedia della fine del Trecento. Arrivato al termine della trascrizione, un lavoro molto lungo e impegnativo, il copista, fiorentino, invece di copiare il verso finale come lo conosciamo tutti – e come Dante l’aveva pensato – scrive: «l’amor che muove il sole e l’altre cose». È ovviamente un errore clamoroso – perché cose non è la rima giusta e perché tutti sappiamo che l’amore muove il sole e le altre «stelle» – e il povero copista ha giustamente suscitato il riso degli umanisti che hanno letto il post. Ma da un errore così palese si può trarre un insegnamento importante. Nella trasmissione della cultura non c’è nulla di scontato, nessuna emozione è solamente un dato di natura. Tutto si può perdere, e persino chi ha trascritto tutti i 14233 versi della Commedia può non accorgersi (o non ricordare o non ritenere importante al punto da correggersi) che stelle, assieme ad amore, è la parola più importante del poema.

Immagine: Paolo and Francesca

Crediti immagine: Mosè Bianchi, Public domain, via Wikimedia Commons

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