La lettera firmata da cento donne per chiedere che una voce della Treccani venga modificata merita tutto il rispetto e un’attenta lettura. Per evitare che la questione venga banalizzata e travisata, con prese di posizione appassionate e preconcette da una parte e dall’altra, dovrò chiarire preliminarmente alcuni punti che le lettrici e i lettori dei dizionari in genere non conoscono. Prima di tutto, si tendono a confondere tipi diversi di dizionari. In questo caso, voglio ricordare che un dizionario dei sinonimi è cosa molto diversa da un dizionario dell’uso della lingua italiana. Nei dizionari dell’uso (o generali) della nostra lingua si danno prima di tutte le altre informazioni, le definizioni delle parole. Avendo io lavorato al Vocabolario della lingua italiana Treccani in cinque volumi (1986-1994) fin dalla prima edizione, posso portare la testimonianza personale del cambiamento avvenuto proprio nella definizione della voce “donna”, nel passato sempre definita come “femmina dell’uomo” e in quell’edizione diventata finalmente, grazie al lavoro delle giovani ma agguerrite redattrici dell’opera “Nella specie umana, individuo di sesso femminile, soprattutto dal momento in cui abbia raggiunto la maturità anatomica e quindi l’età adulta”. Questo non vuol dire che nei dizionari della lingua italiana non siano ancora presenti pregiudizi e stereotipi. Il lavoro dei lessicografi e delle lessicografe consiste anche nel tentativo di liberare le pagine dei dizionari da tutto ciò che non corrisponde più, culturalmente e civilmente, all’epoca in cui l’opera viene pubblicata. Ma anche in questo caso non voglio fare dichiarazioni teoriche, bensì portare esempi pratici. Negli anni ’70, quando come ho appena ricordato ero una giovane redattrice del Vocabolario Treccani, oltre a impegnarmi nelle nuove definizioni di voci come “donna” e “femminismo”, per citare solo le due che mi stanno più a cuore, eliminai con grande soddisfazione l’espressione “angelo del focolare”. Me ne sono pentita, e ho fatto in modo che la locuzione, anni dopo, tornasse al suo posto. Eliminandola, avevo commesso un grave errore, perché quell’espressione, presente nell’uso parlato, in romanzi e articoli giornalistici, e oggi usata ormai solo scherzosamente e ironicamente, non deve essere cancellata, ma spiegata, premettendo che si tratta di un uso figurato, oggi solo ironico, tanto più se si va progressivamente perdendo la memoria del suo significato di “donna di casa che si dedica esclusivamente alla famiglia e alle faccende domestiche”.
Ma veniamo ai dizionari dei sinonimi, che non si basano sulle definizioni delle parole, perché destinati ad altro tipo di ricerca e di consultazione. I dizionari dei sinonimi servono a suggerire parole ed espressioni che hanno approssimativamente lo stesso significato, dato che la sinonimia assoluta è inesistente o rarissima. In questi dizionari è possibile trovare (come in quelli analogici), più che i sinonimi, le parole legate da un rapporto lessicale o semantico con la voce principale, in modo da individuare velocemente tutto il possibile bagaglio di corrispondenze, frasi, modi di dire che possono essere utili soprattutto a chi scrive o a chi cerca la locuzione che non ricorda. Anche espressioni ingiuriose, volgari, spregiative.
Pur apprezzando le ragioni di principio che hanno spinto cento donne a firmare la lettera, vorrei condividere una riflessione con loro. Siamo sicure che eliminando “puttana”, “cagna”, “zoccola” e “bagascia” dal vocabolario dei sinonimi contribuiremmo a migliorare l’immagine della donna? Al contempo, allora, sempre nel “Dizionario dei sinonimi”, in una visione bipartisan dovremmo fare piazza pulita, alla voce “uomo”, di “uomo delle caverne”, che in senso figurato, scherzoso o spregiativo può indicare chi è (cito) barbaro, cafone, incivile, maleducato, primitivo, screanzato, selvaggio, tanghero, troglodita, zotico. Su una cosa siamo d’accordo: c’è una sproporzione tra gli epiteti offensivi presenti accanto a “donna” e quelli che possono essere riferiti a un uomo. I primi hanno a che fare soprattutto con offese scagliate contro la donna riferite alla sua vita sessuale, di donna che vende il proprio corpo dietro pagamento. Ma è la nostra storia, non solo quella italiana, a mancare di parole a proposito dell’uomo, corrispondenti a quelle usate per indicare un costume al quale è stata obbligata per secoli solo la donna. Anche per l’uomo abbiamo insulti che alludono alle sue abitudini sessuali, e certamente in misura non paragonabile, ma qui entriamo in questioni che non hanno a che fare con la rappresentazione linguistica, bensì con la copertura eufemistica di tabù millenari. E allora? Nel 1980 una studiosa francese, Marina Yaguello, intitolò un capitolo di un suo libro “Bisogna bruciare i dizionari?”, per segnalare i fenomeni di stereotipia sulle donne perpetuati dalla tradizione lessicografica. Sono convinta che non sarà invocando un falò (non solo simbolico) per bruciare le parole che ci offendono che riusciremo a difendere la nostra immagine e il nostro ruolo. Anzi, vorrei che le espressioni più detestabili e superate continuassero ad avere spazio nei dizionari, naturalmente precedute dal doveroso avvertimento che segnala al lettore quando le espressioni o le frasi proverbiali citate corrispondono a un pregiudizio o a un luogo comune tramandato dal passato ma non più condivisibile. Secondo qualcuno i dizionari sono “cimiteri di parole”: lo sarebbero se si limitassero a registrare una lingua plastificata, politicamente corretta, che rappresenti una realtà come la vorremmo. Credo, al contrario, che il nostro sforzo comune debba essere quello di fare in modo che la lingua del disprezzo esaurisca il suo corso, rimanendo però come testimonianza sociale, storica, letteraria, del passato. Con la speranza, questo è il mio augurio non solo da lessicografa, che la realtà (e poi la lingua) cambi, perché le parole non siano più solo femmine, i fatti non più solo maschi.