Questo mese la rubrica “Per modo di dire…” ha per oggetto i numeri.

Si apre con il pezzo a quattro mani di Paolo Rondinelli e Antonio Vinciguerra (Chi fa da sé fa per tre) che ci mostrerà, a cavallo fra lingua e dialetti, come anche i proverbi diano i numeri e come essi siano espressione non solo di saggezza, ma anche di ambiguità e pregiudizi.

Al di là delle palesi differenze che li separano, numeri e proverbi condividono un quid ermetico tradizionalmente ritenuto sede di una delle possibili chiavi d’accesso ai segreti dell’universo. A dispetto del loro carattere bonario e popolare, i proverbi non sono bagattelle ma strumenti esoterici di cui l’uomo, da millenni, si serve per tentare di indagare l’ordine delle cose e le leggi del cosmo. Lo stesso vale per i numeri, ognuno dei quali, com’è noto, ha una simbologia (e, non a caso, si parla di numerologia in riferimento alla cabala ebraica). Si prenda ad esempio il ventotto, ricorrente in un detto didattico calendariale famosissimo, di ventotto ce n’è uno, riferito a febbraio, il ‘mese della purificazione’. Fin dai filosofi pitagorici il ventotto è perfetto per il fatto di essere un dieci mascherato, risultato della somma di decina e unità, ma anche ‘quattro volte sette’ con riferimento alle fasi lunari; e somma dei primi sette numeri. Multiplo di sette, esso possiede gli stessi significati di perfezione propri di quello che, nella Bibbia, è considerato il numero della creazione, simbolo di globalità, universalità ed equilibrio. Eppure, proprio perché multiplo (e come tutti i multipli), ha un’energia inferiore rispetto alla forma pura, non diversamente dal nove rispetto al tre, che a sua volta è il nucleo per così dire soprannaturale della perfezione del sette, inteso come somma del ternario divino e del quaternario terrestre.

Quel tre è una spia

La funzione ordinatrice del numero tre è universalmente riconosciuta a livello interculturale e interreligioso. Basti pensare, per limitarsi alla fede cristiana, alla Santa Trinità, ai regni ultramondani, alle croci del Golgota e ai molti altri segni ternari presenti nelle Sacre Scritture. Al di là del cristianesimo, in Oriente si ricordino almeno la trinità induista (Brahma, Shiva, Vishnu) e la totalità cosmica, formata da cielo, terra e uomo, nell’antica cultura cinese. Il tre è pressoché unanimemente visto come un numero dotato di completezza, mistero e bellezza.

Limite perfetto, numero di volte perfetto, simbolo del tempo opportuno che sfugge (kairòs), il tre indica un «insieme canonico, che rende un’operazione in qualche modo rituale e indiscutibile». Così osserva Lapucci (2006, p. 1184), commentando il modo di dire Il tre è il numero perfetto, usato comunemente per accreditare «come valida, sufficiente e completa una serie di tre cose, tre persone, tre prove; quindi migliore di un’altra composta da altri numeri». Ciò che conta non è l’aspetto quantitativo, ma il valore ideale e simbolico di un «numero tondo che indica una quantità indeterminata» (Lurati 2001, p. 926): tre sono le cotte (ma anche sette) che fanno sì che lo zucchero sia sopraffino e l’uomo furbo; i furfanti devono essere tre per fare una forca e, così, servono tre indizi per fare una prova; ancora tre sono i dì oltre i quali il fattore non è buono (Fattor buono, tre dì buono) e ogni meraviglia non dura (Ogni gran meraviglia non dura più che tre dì).

Ne segue una funzione di spia numerologica che di solito anticipa gli eventi: se prendiamo detti – oggi ormai in disuso – come Si d__à tempo tre dì a uno che s’abbia a impiccare o Alle tre si dà il cavallo, ai quali si può aggiungere il napoletano A le tre vence lo rre (citato in quella vera e propria miniera paremiologica che è Lo cunto de li cunti del Basile), notiamo che si tratta di frasi in cui il numero indica le volte oltre le quali non si può soprassedere. Scadute quelle, accade qualcosa: un tale viene impiccato; il cavallo viene donato; chi non è riuscito in qualche cosa per due volte, ci riesce alla terza.

Va detto che la presenza così frequente del numero tre nelle espressioni idiomatiche si deve anche al fatto che «l’uso dei numeri nelle formule risulta mnemonicamente utile ai bisogni delle culture orali» (Lurati 2001, p. 926); e il tre ha da sempre svolto un ruolo particolare anche in questo senso.

Proverbi trimembri

Merita poi attenzione la struttura tripartita dei cosiddetti proverbi-indovinelli, alcuni dei quali sono talmente diffusi da costituire vere e proprie serie proverbiali: da Dio mi guardi da tre cose... a Di tre cose non ti fidare..., da Tre D rovinano l’uomo: diavolo, danaro e donna (uno dei tanti proverbi “misogini”) a Tre P vuole chi va a Roma: pane, panni e pazienza. Questa tipologia aveva attirato l’attenzione di un giovanissimo Benedetto Croce, che nel 1883 pubblicò una lista di proverbi trimembri napoletani, raccolti da uno zibaldone manoscritto di tal Luca Auriemma, «curiosi [...] perché hanno il carattere comune di contenere, non già ciascun proverbio un’idea, ma ciascuno tre idee che vanno a braccetto e s’incontrano poi in una sola» (Croce 1883); del tipo: Tre cose a li viecchie fanno guerra: catarro, caduta, cacarella; Tre P so’ patrone de lo munno: pazze, presentuse, pressarule; Tre cose non se dèvono ’mprestare: libbre, mogliere, danare.

Per non dire dei proverbi concatenati, in forma di filastrocca, come Tre anni dura un sieve, tre sieve dura un cane, tre cani dura un cavallo, tre cavalli dura un huomo, tre huomini dura un corvo, tre corvi dura un cervo, tre cervi dura un mondo, nel quale abbiamo una struttura complessa, composta da sette elementi congiunti dal tre, vero motore della catena concettuale che va da sieve (‘siepe di vimini o sterpi secchi’) a mondo. Quest’ultimo esempio è riportato nella monumentale raccolta paremiografica di Francesco Serdonati, poligrafo toscano vissuto tra il XVI e il XVII secolo. E tanto per dare un’idea quantitativa della presenza del numero tre nel repertorio serdonatiano, diciamo che questo numero è attestato oltre trecento volte su un totale di 26.018 espressioni idiomatiche e proverbiali.

Giochi di carte e di dadi

Chiaramente la galassia è tanto varia che non tutti i proverbi trimembri contengono il numero tre. I casi sopra citati sono interessanti poiché, in essi, troviamo sia il tre sia la struttura trimembre.

Tra gli ambiti d’uso prediletti troviamo quello dei giochi di carte e di dadi, a cui rimandano espressioni come Trar diciotto, per dire ‘fare un bel colpo’ (perché diciotto è il punto massimo raggiungibile con tre dadi). Andando molto indietro nel tempo, possiamo ricordare gli aliossi o astragali, che erano dadi, ricavati dal malleolo degli animali, dotati di quattro facce, ognuna delle quali associata a un valore numerico (1, 3, 4, 6). Il gioco degli aliossi era molto diffuso nella Firenze del Trecento, come prova la metafora oscena, Farla in tre pace, di cui Boccaccio si serve per commentare l’atto venereo nella novella di Paganino (II 10, 39). Come si legge nel commento di Vittore Branca, «facendo il gioco al terzo colpo non si vinceva né perdeva. Oppure si può intendere che anche dopo tre partite non si ottiene nulla, perché si rimane pari» (Boccaccio 1992, p. 313, nota 2). Il modo di dire infatti significa ‘fare patta’, cioè ‘non fare nulla’. Quest’esempio illustra bene come modi di dire e proverbi fungano spesso da collegamento tra lingua dell’uso e lingua letteraria; un rapporto che affonda le proprie radici lontano nel tempo, dalla latinità classica all’età moderna, e che riguarda anche un altro gigante della nostra storia letteraria: Dante, i cui versi sono in certi casi divenuti autentiche espressioni proverbiali.

La Commedia e la gematria

Ma è nota anche l’importanza del significato dei numeri nella Commedia dantesca, che è stata oggetto di letture numerologiche, come quelle di Massimo Arcangeli e Sandro Mariani, incentrate sulla valenza simbolica del numero tre presente un po’ ovunque a livello strutturale nella Commedia: dal numero delle cantiche, al numero dei canti, al numero dei gironi infernali. Non è del resto una novità il legame tra la Commedia e la gematria, lo studio dei numeri che si annidano nella Tanàkh, acronimo con cui s’intende l’insieme degli scritti sacri dell’ebraismo (in altre parole la Torah scritta, distinta dal Talmud che raccoglie testi orali trasmessi di generazione in generazione tramite l’insegnamento ispirato).

Dal sacro al profano

Passando dal sacro al profano, va notato che la celebre Smorfia napoletana, o “libro dei sogni” – che al numero tre fa corrispondere un animale, la gatta, uno dei più fortunati nei proverbi e nelle frasi idiomatiche – è da sempre fonte di espressioni scaturite dai suoi significati numerologici, come Stare a quattordece che vale: «Essere ubbriaco, tale essendo il numero che all’ubbriaco è assegnato nel libro dei sogni» (Rocco 1891, s.v. quattuordece), Fare trentanove, ‘finire impiccato’, perché il trentanove indica la ‘forca’ (ivi, s.v. trentanove), La paura fa novanta.

Numeri ed espressioni idiomatiche scorrono insomma come rivoli tra le culture, a livello dotto e popolare; ed è questo un dato da tenere presente in chiave paremiologico-comparativa, quando si voglia studiare la circolazione europea di proverbi, spesso a base latina, come Tre fanno un collegio (da Tres faciunt collegium) diffusosi in varie lingue non solo romanze: dal francese (Trois font chapitre) al tedesco (Drei machen ein Collegium) all’olandese (Drie maken een collegie).

Un discorso analogo si può fare per la circolazione interna ai dialetti. Se ad esempio prendiamo uno dei proverbi sopra citati, tra quelli di Benedetto Croce, Tre cose a li viecchie fanno guerra: catarro, caduta, cacarella, possiamo notare usi analoghi, in forme più o meno simili, in regioni lontane da Napoli come l’Istria (I tre Ce per i veci: caduta, cacarela e cataro), il Veneto, l’Emilia, la Toscana, oltre che in tutta l’Italia meridionale (cfr. Schwamenthal-Straniero 1991, pp. 507-508).

Ancora si pensi alla fortuna dialettale e gergale di locuzioni furbesche come la napoletana Taverna de trellegna con cui si era soliti alludere alla ‘forca’, formata da tre legni (Rocco 1891, s.vv. taverna e trellegna); quindi l’espressione ioquare a lo tre per ‘essere impiccato’, menzionata nel «trattenemiento secunno de la iornata quarta» del Cunto in cui Parmiero, uno dei due fratelli protagonisti della novella, viene portato davanti al giudice e condannato, appunto, a «ioquare a lo tre». Per sua fortuna, Parmiero viene poi scagionato e liberato proprio quando è sul punto di «cantare no matrecale a tre sotto a le piede de lo boia» («cantare un madrigale a tre sotto i piedi del boia»), con allusione nuovamente alle tre assi della forca (Basile 2013, II, pp. 686-689).

La morale pratica dei proverbi

Guardarsi da una condotta dissoluta, come quella di Parmiero, è uno dei moniti più insistentemente ricorrenti nella morale pratica dei proverbi. Quest’ultima è rappresentata dall’altro fratello, Marcuccio, che poco sopra mette in guardia Parmiero facendo riferimento per ben due volte in altrettante righe al numero tre: «Sta’ zitto, ca non canusce la sciorte toia, perché senza dubbio tu, ch’a la primma prova hai trovato na catenella de tre parme, ne trovarrai a sta seconna quarc’autra de tre passe. Va’ puro allegramente, ca le forche te songo sore carnale e dove l’autre nce devacano la vita tu nce inchie la vorza!» («Sta’ zitto, che non conosci la tua sorte, perché senza dubbio tu, che alla prima prova hai trovato una catenella di tre palmi, ne troverai a questa seconda un’altra di tre passi. Va’ pure allegramente, che le forche ti sono sorelle carnali, e dove gli altri vi svuotano la vita tu ne riempi la borsa!»: ivi, p. 688-689). Il riferimento è alle antiche unità di misura dei parme e dei passe: la prima, il palmo, corrispondente a circa 26 cm; la seconda, il passo, più ampia (sette volte il palmo), con allusione alla corda dell’impiccato (tre passe de funa in I 7, 12) come prova il riferimento alle forche immediatamente successivo.

Come spesso avviene, la morale dei proverbi passa per la burla e per i rimandi alla cultura materiale, chiamati a conferire realismo e veridicità all’ironia del monito. I numeri, in tal senso, sono alleati fondamentali poiché favoriscono la memorizzazione e consentono l’aggancio a un dato quantitativo in realtà simbolico. Dire le cose allusivamente, per scherzo e di taglio, è la forza tradizionale dei proverbi, micro-fatti poetici deputati a velare il messaggio attraverso una serie di esatti accorgimenti stilistico-formali. In questi casi nessun numero meglio del tre si sarebbe potuto inserire nella formazione dell’ottonario catenella de tre parme (o passe), verso – non a caso – tipico della cantilena e della filastrocca. La magia della formula è efficace grazie al numero, che completa le potenzialità espressive di un dispositivo linguistico e retorico dalle molteplici implicazioni, non più confinabile nell’angustia di una generica saggezza popolare.

Bibliografia

Arcangeli-Mariani 2015 = Massimo Arcangeli - Sandro Mariani, Dante Alighieri e la sua ossessione per i numeri, in Il Fatto Quotidiano, 10 agosto 2015 (parte I) e 15 agosto 2015 (parte II).

Basile 2013 = Giambattista Basile, Lo cunto de li cunti overo lo trattenemiento de’ peccerille, a cura di Carolina Stromboli, Roma, Salerno.

Boccaccio 1992 = Giovanni Boccaccio, Decameron, a cura di Vittore Branca, Torino, Einaudi.

Croce 1883 = Benedetto Croce, Proverbi trimembri napoletani, in «Giambattista Basile», I, 9, pp. 66-67.

Lapucci 2006 = Carlo Lapucci, Dizionario dei proverbi italiani: con un saggio introduttivo sul proverbio e la sua storia, Firenze, Le Monnier.

Lurati 2001 = Ottavio Lurati, Dizionario dei modi di dire, Milano, Garzanti.

Rocco 2018 = Emmanuele Rocco, Vocabolario del dialetto napolitano [1891], a cura di Antonio Vinciguerra, Firenze, Accademia della Crusca.

Schwamenthal-Straniero 1991 = Riccardo Schwamenthal - Michele Straniero, Dizionario dei proverbi italiani: 6.000 voci e 10.000 varianti dialettali, Milano, Rizzoli.

Il ciclo Per modo di dire. Un anno di frasi fatte è curato da Alessandro Aresti, Debora de Fazio, Antonio Montinaro, Rocco Luigi Nichil, Rosa Piro, Lucilla Pizzoli. Di seguito, l’elenco degli articoli già pubblicati.

Per iniziare

Lucilla Pizzoli, Colorare i discorsi

Alessandro Aresti, Attaccare (un) bottone

Antonio Montinaro, Rompere il ghiaccio

Citazioni d’autore

Debora de Fazio, Elementare, Watson!

Lucilla Pizzoli, Essere un carneade

Echi danteschi

Pierluigi Ortolano, Stai fresco!

Antonio Montinaro, Galeotto fu il libro

Fiabe e favole

Lucilla Pizzoli, Brutto anatroccolo

Giulio Vaccaro, Avere la coda di paglia

Rocco Luigi Nichil, La volpe e l’uva

Animali

Alessandro Aresti, Menare il can per l’aia

Antonio Montinaro, Salto della quaglia

Colori

Lucilla Pizzoli, Essere al verde

Alessandro Aresti, Avere una fifa blu

Immagine: Santissima Trinità, di Hendrick van Balen (anni 20 del XVII secolo), Sint-Jacobskerk, Anversa

Crediti immagine: Hendrick van Balen the Elder, Public domain, via Wikimedia Commons

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