Siamo arrivati al quinto appuntamento della “caccia alle parole nuove”, che ha per protagonisti i nostri lettori. Come abbiamo scritto in occasione della puntata di apertura (qui, invece, trovate la seconda,la terza e la quarta), il lavoro volontario dei cacciatori di parole viene tenuto in gran conto dalla redazione del Vocabolario Treccani.it. Tanto che alcuni vocaboli individuati dai lettori sono entrati nel Vocabolario (per esempio, parbuckling). Spesso arrivano qui in redazione creazioni elaborate dagli utenti stessi, i quali ritengono che la lingua si gioverebbe di qualche prodotto integratore di laboratorio. A questo manipolo creativo appartengono lavoroziare, aburbio e settimanare. Talvolta chi scrive compila vere e proprie voci di tenore enciclopedico, mostrando approfondite conoscenze in qualche settore specialistico (è il caso del musicale dubstep).

Insomma, la caccia alla parola nuova diventa perfino qualcosa di diverso e di più vario che una mera ricerca da entomologi della lingua, svelando l'innegabile felicità di chi si addentra nell'universo del nostro lessico con lo spirito di un esploratore alla ricerca di avventure dell'intelletto e dell'immaginazione. Uno spirito che ci piace, a prescindere dal fatto che, nella dimensione concreta e circoscritta della lessicografia, saremo costretti a valutare secondo parametri precisi e restrittivi la possibilità d'includere nel grande repertorio on line la “parola nuova” di volta in volta recapitataci tramite posta elettronica. Comunque, nei casi controversi, le parole pervenute saranno collocate in una speciale quarantena, tenute sotto controllo e monitorate. Non è detto che quanto oggi sembra occasionale o effimero non possa, nel corso del tempo, imporsi nell'uso ed essere perfino promosso come neologismo vero e proprio, per poi approdare agli onori dell'opera lessicografica.

Aburbio

P. T. conia dottamente aburbio. Dentro c'è urbs, urbis 'città' e c'è l'eco dell'italiano suburbio. P. T. “lancia” aburbio per significare – cito - «tentativo abortito di riqualificazione o innovazione urbanistica», là dove quell'ab-, suppongo, sarebbe da leggere come prefisso indicante allontanamento figurato, connotato in senso negativo.

Interessante, ma, torno a ripetere, perché una parola nuova entri in un dizionario, prima deve circolare nella lingua viva, dare prove di esistenza nella lingua scritta (per esempio, negli articoli giornalistici), deve dimostrare di avere stoffa e durata: insomma, per fregiarsi del titolo di neologismo deve diventare un po' più vecchia, mi si passi il gioco di parole.

Dubstep

G. M. dedica molte parole a una parola che designa un genere musicale. Va precisato che è difficile, per un dizionario di lingua, stare dietro alle svariate etichette che la critica specializzata conia per definire stili e generi che nascono nell'ambito della musica di consumo contemporanea. Reggae, dark, punk, punk-rock: spesso si resta nel giro dei soliti noti, già metabolizzati dalla cultura (anche linguistica) ufficiale; ma come la mettiamo con garage, jungle, breakbeat, 2step, drum'n'bass, dub, grime, RockStep, chillstep - e qui ci si ferma per non esagerare -? Diciamo che il lessicografo cerca di far decantare un poco le acque, per capire quale parola lascerà sedimenti significativi.

Intanto, ecco dubstep, secondo G. M., in un articolo più da enciclopedia (cioè sulle cose) che da dizionario (cioè sulle parole); preciserei: da enciclopedia specializzata: «Dubstep" (ingl. /ˈdʌbstɛp/; in it., sost. f. e m.: es. "il (genere) dubstep", "la (musica) dubstep"), genere di musica elettronica, per lo più strumentale, nato nella zona sud di Londra nei primi anni Duemila, caratterizzato dall'impiego di timbriche cupe, linee di basso sintetizzato molto profonde e ritmica spezzata e sincopata. Come suggerisce il nome, si tratta di una forma musicale che trae origine dalla rilettura in chiave dub (genere nato in Giamaica, basato sulla manipolazione elettronica delle basi strumentali del reggae) di elementi della musica 2-step (sottogenere della UK garage, la declinazione inglese della house americana, e in particolare della garage newyorkese). Le prime attestazioni del termine paiono risalire alla fine degli anni Novanta (se ne trovano esempi, all'interno del database discografico "Discogs", relativi già almeno al 1999), ma l'uso viene fissato, nei discorsi degli addetti ai lavori e del fandom, in seguito alla pubblicazione del primo importante articolo giornalistico dedicato alla "scena", sul n. 60 della rivista "XLR8R", luglio-agosto 2002. Negli anni Duemiladieci, il genere, che a partire dal 2004 è stato protagonista di un forte processo di differenziazione stilistica (con artisti quali El-B, Zed Bias, Oris Jay, Digital Mysticz, Loefah, Benga, Skream, Artwork, Plastician, Kode9, Burial), divenendo uno dei settori seguiti con maggiore attenzione da parte della critica di settore, ha ottenuto un enorme successo di pubblico e ha guadagnato ampia attenzione anche da parte dei media non specializzati, grazie alla corrente denominata "brostep", connotata da elementi mutuati dall'heavy metal e dal rave, ben rappresentata dalla figura del dj e produttore statunitense Skrillex».

Detto che, alla lettera, dubstep si compone dei nomi dub ('suono di tamburo') e step ('passo, misura, tempo'), consiglio per ora una dimora in quarantena, nonostante il fascino delle timbriche cupe.

Lavoroziare

G. R. sta per pubblicare un libro di aforismi e, in uno di questi, inviato in anteprima a Treccani.it,compare una parola nuova che G. R. ha creato pensando a un grande del passato: «Proust diceva: "Il lavoro e l'ozio sono due momenti della creazione". Se ora mi chiedono cosa faccio, dico che lavorozio». La parola macedonia lavoroziare nasce dal tamponamento verbale tra due parole distinte. Come in cantautore (cantante + autore), la prima parola perde la parte finale “tamponando” la parte anteriore della parola con la quale si combina per formare una nuova unità lessicale.

Interessante come creatura nata ad hoc per sposare un pensiero proustiano, se allontanata dall'occasione contingente che la motiva lavoroziare sembra perdere in perspicuità o, quanto meno, in determinatezza semantica, connotandosi quasi comicamente come ossimorico sposalizio del lavoro con l'ozio.

Settimanare

Un attento appassionato di lingua italiana, F. R., si fa onomaturgo con «settimanare (trascorrere una settimana). Luigi, il prossimo inverno, andrà a settimanare a Cortina». Il verbo è chiaro per significato e forma. Analogamente, immagino, potrebbero formarsi mesare ('soggiornare per un mese'), estatare ('passare l'estate'), annare ('trascorrere un anno') e via datando.

Tellinaro

Dopo aver dato un'occhiata di sfuggita al testo della mail inviata da A. T., ho lanciato una ricerca volante su Google: immediatamente ne emerge che tellinaro designa un tipo di rete rinforzata per la pesca delle gustose telline, molluschi bivalvi comuni nei sabbiosi fondi marini costieri. Il vocabolo non è censito nei dizionari, forse anche perché il suffisso -aro ci parla di una lingua italiana dell'Italia centrale non toscana e dunque senza i crismi dell'istituzionalità (in Toscana il suffisso tradizionale è -aio;si pensi invece, per esempio, a vivaro 'vivaio', conservatosi nella toponomastica laziale: Pratoni del Vivaro, nei pressi di Nemi)e, spesso, di soggiacente dialettalità romana o “alla romana”, soprattutto quando -aro è suffisso formativo di nomina agentis di mestiere, che il neorealismo e la commedia all'italiana hanno diffuso in tutt'Italia (cinematografaro, pizzettaro, palazzinaro, cravattaro), tanto che il suffisso -aro, contenente sfumatura ironico-spregiativa, è ormai un marchio di fabbrica espressivo, soprattutto nella lingua giornalistica che vuol pigiare sul pedale della colloquialità informale (_panchinaro '_giocatore che resta quasi sempre in panchina', velinaro 'giornalista che non basa i suoi articoli su fatti comprovati, ma riporta acriticamente le notizie che riceve, tramite veline, dai centri di potere', internettaro 'chi utilizza Internet abitualmente e con grande disinvoltura').

In effetti, tellinaro, nel significato di'pescatore di telline', ha qualche attestazione nella lingua scritta contemporanea. Per esempio – non a caso riportandoci nell'area linguistica laziale – Grazia Balducci, nel suo manuale culinario La pastasciutta (Tecniche Nuove, 2003, p. 91) ricorda: «Le telline sono dei molluschi tipici delle coste sabbiose. Nel Lazio sono particolarmente apprezzate e, un tempo, il “tellinaro” era un personaggio fisso su tutte le spiagge del litorale».

Da questo tellinaro “umano” e non “attrezzo” bisogna ripartire per accogliere con un sorriso la proposta di A. T., che invita anche a visitare una pagina di Facebook dedicata all'irrisione goliardica, tramite prove fotografiche, di uno stile di vestire considerato sciatto, consistente, secondo la descrizione fornita dallo stesso A. T., nel calzare «mocassini e pantaloni molto attillati con vistose pieghe che mostrano le caviglie proprio come farebbe un "tellinaro"».

Con simpatia, mettiamo le telline a mollo per purgarle dalla sabbia, in attesa di decidere se, della parola tellinaro, accogliere anzitutto i significati propri ('attrezzo per la pesca delle telline' e 'pescatore di telline').

Whatsappare, whatsappite

Le due strane creature (la prima segnalata da R. P.; la seconda rinvenuta da L. G. sul «Corriere della sera», che titolava: Risponde agli sms per sei ore di fila Poi il dolore ai polsi: «Whatsappite») prendono vita dal sistema di messaggistica mobile istantanea multipiattaforma WhatsApp®, di grande successo prima tra i giovani e poi tra tutte le generazioni di fruitori di messaggini. Il nome-marchio suona come What's up, che, nella lingua inglese, è una formula di attivazione fatica colloquiale e informale, un 'che succede' o 'come va?' (se vogliamo fare i giovani a tutti i costi: 'come butta?') gettato lì quando ci si presenti in un gruppo che sta già chiacchierando per conto suo. Il verbo whatsappare, come già altri (penso a downloadare 'scaricare un contenuto dalla rete' da (to) download), è un semiadattamento formale dell'originaria locuzione: per quanto riguarda le categorie grammaticali, da una frase si passa a un verbo; del verbo si assume la terminazione morfologica tutta italiana della coniugazione più ampia e diffusa, la prima, in –are, l’unica produttiva; della lingua originale si mantiene intatta la grafia della prima parte, whats (con eliminazione dell'apostrofo). Lo stesso tipo di adattamento, in sostanza, si verifica nella “malattia” whatsappite, neoformazione scherzosa (come poltronite o cretinite) che ricalca la struttura lessicale dei sostantivi designanti processi patologici di tipo infiammatorio, caratterizzati dal suffisso -ite.