Tra fine marzo e i primi di aprile è entrato prepotentemente nel linguaggio politico un nuovo anglismo, revenge porn: riprendendo liberamente le definizioni dei vocabolari inglesi, possiamo spiegarne così il significato: ‘diffusione online di immagini o di video sessualmente espliciti di una persona, in genere da parte di un ex partner sessuale, senza il consenso del soggetto, con lo scopo di causargli angoscia o imbarazzo e come forma di vendetta o molestia’.
La legge senza l’anglismo
La norma che inserisce questa pratica tra i reati (approvata all’unanimità alla Camera dei deputati il 2 aprile, dopo una precedente bocciatura da parte della maggioranza di governo di un emendamento sullo stesso tema, proposto dalle opposizioni) non utilizza l’espressione inglese. La legge, infatti, nel testo approvato dalla Camera, dice che commette reato «chiunque invii, consegni, ceda, pubblichi o diffonda immagini o video di organi sessuali o a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate». Oltre all’anglismo, manca ogni riferimento alla vendetta: qualsiasi sia il motivo per cui una persona diffonde filmati di contenuto sessuale esplicito senza il consenso delle persone implicate («al fine di recare loro nocumento» si legge in un altro punto), questa persona commette reato.
Pornovendetta, senza vendetta
Non tutti i mezzi di comunicazione di massa hanno usato l’anglismo. In particolare, «Repubblica», almeno a partire dal commento di Michela Marzano a p. 28 del giornale del 3 aprile 2019, ha optato per un corrispondente italiano (non una traduzione), identificato in pornovendetta (come il francese ha porno-vengeance, lo spagnolo porno venganza, il portoghese pornô vingança). La soluzione italiana è stata appoggiata dal gruppo Incipit, attivo presso l’Accademia della Crusca, ed è stata criticata da chi vi vede una traduzione sbagliata dell’anglismo da sostituire o da chi sottolinea che il riferimento alla vendetta non è incluso nella norma approvata.
In questa sede non ci interessa discutere la possibilità di affiancare all’anglismo un efficace sostituto italiano. Quello che ci preme osservare è che, anche questa volta, viene ad avere un’improvvisa notorietà una parola già in uso, sia pure sotterraneamente, nei testi italiani; e soprattutto che, anche qui non per la prima volta, nel linguaggio politico è stato inserito un anglismo, non del tutto trasparente per una buona parte degli elettori, e per giunta anche impreciso (per la presenza nella denominazione della componente della vendetta, che è assente dalla norma).
Almeno dal 2013
Per il primo punto, dobbiamo ricordare che revenge porn si riscontra nei giornali italiani almeno dal 2013: «L'hanno battezzato, forse con troppa leggerezza, "revenge porn" (…). Si tratta di ex mariti e fidanzati che pubblicano su portali dedicati foto intime, se non del tutto senza veli, delle proprie ex mogli, ex partner o di vecchie compagne», si legge nel sito di «Repubblica», in un articolo del 25 settembre 2013; a sua volta l’espressione è utilizzata in una nota di Anna Momigliano apparsa nella «Lettura» del 20 luglio 2014, nella quale si parla di «alcuni suicidi di persone umiliate in Rete con foto private pubblicate da ex fidanzati (il «revenge porn», porno vendicativo)» (e si noti la forma della glossa italiana, con l’aggettivo vendicativo). Porno-vendetta ha addirittura una storia più lunga, dal momento che la troviamo nel titolo di un articolo di «Repubblica» del 19 novembre 1991: «La porno-vendetta del prof. bocciato» (naturalmente, visti i tempi, in riferimento a un più banale fotomontaggio). Più recente il suo uso a proposito del crimine informatico ora preso in considerazione dal Parlamento: «In Svizzera niente reato di “porno-vendetta”. Se in Francia il "revenge porn" è stato definito un crimine specifico, il Consiglio federale ha spiegato che l'apparato giuridico attuale è sufficiente per tutelare le vittime», ha titolato il 19 maggio 2016 lo svizzero «Corriere del Ticino».
L’anglismo e la neopolitica
Sul secondo punto, ribadisco ciò che ho già sostenuto in diverse occasioni: nella politica degli ultimi anni è risultato frequente l’utilizzo degli anglismi per designare concetti scabrosi o fortemente controversi (come stepchild adoption) o comunque da attenuare e da non dichiarare esplicitamente (in economia bail in, voluntary disclosure, quantitative easing, nelle politiche per il lavoro jobs act, e via dicendo). Il ricorso agli anglismi è diventato una componente fondamentale del nuovo politichese, del quale si servono i politici che, in tutte le epoche, appaiono inconsciamente e tenacemente restii a farsi capire con immediatezza da tutto l’elettorato e visceralmente inclini alla manomissione delle parole.
Le parole (o locuzioni) già trattate: menevadismo, contratto di governo, manina, palle, sovranismo, cambiamento, pacchia, mangiatoia, umanità, pigranza, buonista
Immagine: Interno della Camera dei deputati a Palazzo Montecitorio, Roma
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