Il Collins Dictionary dichiara permacrisis la parola del 2022. Che vi piaccia o no, questo lungo periodo di instabilità e insicurezza racconta il movimento di una crisi che non riusciamo ancora a identificare del tutto. Il motivo? La sovrapposizione di più dinamiche ed episodi che non lascia spazio alla presa di coscienza né tantomeno alla riabilitazione del suo significato più profondo. Vediamo perché.

Oltre la crisi c’è di più

Permacrisi. Dall’inglese permacrisis, con questa parola, come riporta la medesima voce nella sezione “Neologismi” di Treccani.it, si fa riferimento «a una condizione di crisi permanente, caratterizzata dal susseguirsi e sovrapporsi di situazioni d’emergenza». Una vera e propria centrifuga fuori controllo che ci ha fatto percepire la sospensione come una condizione di normalità. In effetti, nel 2021, le parole utilizzate da Hans Kluge, direttore dell'Oms Europa, lasciavano intendere che le basi per un’evoluzione della crisi fossero già presenti: nel suo discorso a Gastein utilizzò proprio permacrisi per descrivere lo stato di emergenza permanente attuale legato non solo ai cambiamenti climatici, ma anche alle guerre e alla diffusione delle malattie infettive, «dal Covid al vaiolo, sino alla ricomparsa della poliomielite». Ma forse è con il monito di Christine Lagarde, Presidente della Banca centrale europea, che il termine acquista un peso maggiore: lo scorso aprile, intervenendo alla sesta conferenza annuale dello Europen Systemic risk board, Lagarde ha affermato infatti che la permacrisi descrive perfettamente lo stato generale di insicurezza in cui vive da anni il Vecchio Continente: «Ci muoviamo continuamente da un’emergenza all’altra. Solo 10 anni fa abbiamo fronteggiato la peggiore crisi finanziaria dagli anni ’30, poi la peggiore pandemia dal 1919 e ora la più grave crisi geopolitica in Europa dalla fine della guerra fredda» (Corriere della Sera, 1° novembre 2022).

C’è anche la policrisi

Sembrerebbe una parola nuova, ma così non è. Questo anglo-greco-latinismo, che nasce dal greco krisis, in origine «scelta, giudizio», e dal prefisso perma-, da permanent in inglese, «che rimane a lungo», è attestato nella nostra lingua già dagli anni Settanta del secolo scorso. E condivide lo spazio della crisi con un altro termine che racconta bene questo susseguirsi di episodi dai quali la nostra azione sembra momentaneamente congelata. Sto parlando di policrisi, lemma amatissimo da politici ed economisti, ripreso lo scorso novembre dallo scrittore David Quammen in una puntata de Il cavallo e la torre (Rai 3). A differenza di permacrisi, che pone l’accento sulla durata, policrisi si focalizza sulla compresenza di più fattori alla base dello stato di crisi. «Ci sono tre battaglie che stiamo combattendo contro tre grandi crisi, tutte causate dagli esseri umani, con conseguenze per loro e per il resto del pianeta: cambiamento climatico, perdita della biodiversità e il rischio di nuove malattie. Tutte e tre sono legate non perché una sia la causa delle altre due, ma perché tutte e tre sono causate dagli stessi fattori». Per Quammen il fatto che stiamo vivendo un’epoca di «crisi concatenate» ci pone di fronte a una tensione senza soluzione. Le crisi, in questo particolare intreccio, creano alla società più problemi rispetto a quanto le singole crisi farebbero individualmente.

Se ne può uscire?

Sorge spontaneo chiedersi: in quale punto della crisi ci troviamo? Stando ai significati di permacrisi e policrisi sembra che alla fine del labirinto un’uscita, di fatto, non sia affatto prevista. E tutto questo è curioso, perché tra le origini semantiche della parola, soprattutto in campo medico, da Galeno in poi, la crisi, in riferimento alla malattia, indica una fase che si caratterizza comunque per avviare una svolta: o verso la guarigione o verso la morte. C’è insomma crisi quando un organismo al limite è costretto a passare a un nuovo stato. Sembrerebbe non contemplata neppure una riformulazione interna alla crisi, ma solo un’uscita. Peccato che la forma di questa rete ci renda impossibile prevedere e costruire una fuga, qualunque essa sia. Resta in ogni caso la creazione, che è soprattutto un atto interpretativo, la prima tappa da raggiungere. Michel Serres, in un’intervista del 2010 a «Vita» dichiarava che «la questione è capire che cosa significhi “guarire”», che «significa oltrepassare, andare oltre, superare, inventarsi una nuova condizione». Ma senza semplificare gli intrecci che caratterizzano il contemporaneo. Anzi, con l’impegno di adottare nuove lenti per districare i fili della complessità. Per non cadere in errore, per non appiattire le tante dimensioni in cui oggi siamo coinvolti in prima persona.

Beatrice Cristalli cura e scrive il ciclo di interventi Parole del presente, parole del futuro. Qui sotto gli articoli già pubblicati:

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