Sembra una parola di qualche secolo fa, welfare. L'attuale ministro a capo di quello che, a partire dal 2° Governo Berlusconi, nel 2001, si chiamò informalmente ministero del Welfare, Elsa Fornero, in tempi di welfare difficile da conciliare con tagli e esodati si attiene al formale “Ministro del Lavoro e delle politiche sociali con delega alle Pari opportunità”.Qualche anno fa, nel settembre del 2007, a proposito del referendum tra i lavoratori sull’accordo raggiunto tra Governo e sindacati circa una serie di misure di non lieve incidenza sull'insieme dei rapporti economico-sociali tra Stato e mondo del lavoro, si è detto e scritto con tipica giornalistica insistenza di «referendum sul welfare», notevole locuzione che di italiano ha soltanto la preposizione articolata. Il «Corriere della sera» commentò così l'esito delle consultazioni: «Le grandi fabbriche del Nord – a partire dalle ex officine meccaniche di Mirafiori – bocciano l'accordo sul welfare. Ma la grande maggioranza dei lavoratori, chiamati alla consultazione sull'accordo del 23 luglio scorso, ha votato sì. Secondo i dati diffusi dai sindacati, la prevalenza del sì al referendum sul welfare sarebbe netta: tra il 70 e l'80% (il 73% tra i pensionati)». Allora i sindacati stavano dalla parte del Governo, il 2° Governo Prodi.

Latini, greci e inglesi

Trovare oggi la parola welfare citata su qualche giornale è difficile, ma forse è utile ridestarla dall'oblio, anche sotto il profilo linguistico. Si tratta di un anglicismo che ha contenuti molto forti. Vale la pena fare qualche considerazione sulla consistenza dell'influsso di altre lingue sulla nostra, per quanto riguarda la consistenza del lessico.

Quando si parla di presenza e influssi di altre lingue sulla nostra, bisogna distinguere, sempre. Il corpo del lessico italiano è latino quasi al 70%; segue il greco (antico) con circa l'11% delle parole, quasi tutte di ambito scientifico e medico in particolare; tra le lingue moderne, il francese si colloca intorno all'8% e l'inglese a circa il 2%, anche se è in crescita negli ultimi anni. Per quanto riguarda il latino, poi, c'è da distinguere tra parole che continuano una base latina, evolvendosi nel significato e nella forma, e altre che vengono riprese dai libri antichi specialmente nel periodo umanistico-rinascimentale e perciò sono più simili nella forma e nel significato alla base latina. Talvolta, succede che una base latina dia due parole in italiano: una per continuazione diretta, parlata, attraverso i secoli; l'altra scritta, per prelievo dotto. Per esempio, DESCUM (il tavolo, la mensa, di forma rotonda) ha dato in italiano sia disco per via popolare, sia desco per via culta.

Sfortunato referendo

Insomma, noi siamo molto... latini nel lessico e dunque l'ingresso di parole latine (magari coniate attraverso i secoli per arricchire la nomenclatura scientifica, botanica, medica) normalmente non ha suscitato grandi reazioni di rigetto, salvo la fiammata puristica ottocentesca.

Il latinismo referendum (alla lettera: 'cosa che va registrata') del resto è tranquillamente attestato come termine giuridico nella nostra lingua a partire dalla fine del XIX secolo; e va precisato che ci arriva in realtà dalla Svizzera, Paese storicamente padre del moderno istituto del referendum. Però, a ben guardare, ci fu chi, come il grande storico della lingua italiana Bruno Migliorini, avrebbe comunque preferito una forma più consona alle strutture fonologiche e morfologiche dell'italiano e, quando si presentò l'occasione, nel 1946, cercò udienza in alto loco. Ecco che cosa racconta lui stesso: «Al tempo del referendum istituzionale, mi rivolsi a uno dei costituenti perché suggerisse all'assemblea di chiamarlo referendo (visto che il più corretto termine di plebiscito portava ormai con sé una connotazione totalitaria): ma egli mi rispose che era ormai troppo tardi, e che, comunque, referendo assomigliava troppo a reverendo per non rischiare di favorire un partito rispetto agli altri».

Un ibrido anglico

Naturalmente diverso il caso delle parole e delle espressioni prese in prestito dall'inglese, specialmente l'angloamericano. C'è poco da fare: quando una lingua è forte lo è perché è di prestigio; ed è di prestigio perché sono forti e propulsive l'economia, la politica, la cultura (oggi specialmente - se non esclusivamente - quella di massa, veicolata dai vecchi e nuovi media) del Paese che quella lingua ha come lingua madre.

C'è poi chi vede la catastrofe alle porte e l'italiano trasformato in un ibrido anglico; c'è chi ne fa solo una questione di stile e spera che comunque gli italiani almeno imparino un po' di parole inglesi; c'è chi invita ad occuparsi di altri fenomeni come la postalfabetizzazione dovuta alla precarietà dei sistemi formativi e al predominio della civiltà non logico-sequenziale dell'immagine su quella scritta. Però, inutile negarlo, la reazione di tipo puristico è presente in molti parlanti e, talvolta, con qualche ragione.

Sociale o assistenziale?

Pensiamo proprio al caso di welfare 'benessere', che, in realtà, è forma scorciata, ellittica, di Welfare State, espressione e concetto arrivati dagli Stati Uniti e ben noti nell'italiano a partire dagli inizi degli anni Cinquanta del Novecento. Welfare State designava un preciso modello di Stato sociale: anzi, Stato sociale è divenuto spesso traduzione sinonimica di Welfare State. Denotata in modo neutro o addirittura connotata positivamente da parte di uno schieramento piuttosto ampio di forze politiche, l'espressione Stato sociale si è vista però ad un certo punto accostare la variante polemica Stato assistenziale, designante, come dire, la degenerazione viziosa del modello originario. Da qualche anno a questa parte, molti ambienti del liberismo italiano di centro-destra parlano di Stato assistenziale tout court; viceversa, in ampi settori del centro-sinistra, pur con notevoli sfumature di interpretazione, si rimane attestati, almeno a parole, su una difesa «di ciò che di buono c'è nello Stato sociale» (così si espresse Francesco Rutelli).

Ministero misterioso

Da qualche anno, carta stampata e tv scrivono e parlano sempre più spesso di welfare e basta, in forza della tendenza sempre più spiccata del giornalismo a prediligere velocità di esposizione e sintesi sloganistiche con parole di forte presa. Ma l'uso insistito di Welfare finisce con lo sfrangiarne il significato, tanto che la parola viene pian piano a indicare un generico 'insieme di misure, strumenti, idee ispirate alla dottrina del Welfare State'.

All'incremento della presenza di Welfare rispetto a Welfare State - per non parlare di Stato sociale e Stato assistenziale, evitati anche perché connotati in senso l'uno positivo, l'altro negativo - può certamente aver contribuito la scelta da parte del governo Berlusconi insediatosi nel giugno 2001 di accettare e avallare l'uso di Ministero (e Ministro) per il Welfare in luogo della pur statuita denominazione ufficiale Ministero del lavoro e politiche sociali (il sito ministeriale era all'indirizzo www.welfare.gov.it). Ed è molto probabile che per la popolazione il fatto di doversi confrontare, sulla stampa e in tv, con un termine straniero, poco trasparente per il significato e di pronuncia non ovvia, non sia stato di aiuto alla comprensione.

Benessere sociale

Due linguisti, Claudio Giovanardi e Riccardo Gualdo, proposero nel 2003 di sostituire, nelle future denominazioni ministeriali, Welfare con benessere sociale, formula chiara e sintetica, sperando magari di influire anche sull'uso giornalistico straripante di welfare come concetto socio-politico ed economico. Il Governo Prodi, invece, preferì scorporare l'area del Welfare in due ministeri, con denominazioni peraltro italiane: Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale e Ministero della solidarietà sociale. E il successo di Welfare in tv e sulla stampa, per qualche anno, è continuato. Oggi, welfare sembra quasi da sussurrare con timore. Il benessere sociale non viene più propagandato come parola d'ordine dai politici e viene maneggiato con difficoltà da chi dovrebbe difenderne le ragioni. Un decreto salva-welfare non è alle viste.

Il lemma

welfare sostantivo inglese [dalla locuzione verbale to fare well “passarsela bene, andare bene”], usato in italiano al maschile. - Espressione equivalente all’italiano benessere, nota soprattutto nelle due locuzioni welfare economics “economia del benessere” e welfare state (propriamente “stato del benessere”), tradotta di solito in italiano con stato assistenziale (che ha però sfumatura negativa) o stato sociale (più neutro).

Elaborato dalla redazione di “Lingua italiana” del Portale Treccani

Esempi d’uso

Non si ribella, non protesta, non è animato da nessuna particolare solidarietà interna, di classe; non forma una classe: ognuno per sé Dio per tutti; ma una “sottoclasse”, sì, un sottoproletariato, un “lumpenproletariat”, nel senso marxiano (forse) del termine. A volte vive nelle frange dell’assistenza, del “welfare”, ma il “welfare” non lo soddisfa: cosa può soddisfare chi non ha lavoro?

Beniamino Placido, «La Repubblica», 13 maggio 1984, p. 6, Commenti

Il 47% degli europei (ed il 68% degli italiani) non ha fiducia nel welfare del proprio paese.

Rapporto Censis 1992

Lo slogan «lavorare meno lavorare tutti» lanciato dal ministro del Welfare Maurizio Sacconi per interpretare l’apertura di Silvio Berlusconi alla proposta del cancelliere tedesco Angela Merkel di introdurre la settimana corta di 3-4 giorni, viene guardato con interesse dai sindacati e dagli stessi lavoratori.

Roberto Bagnoli, «Corriere della sera», 24 dicembre 2008, p. 8

«In Italia pratichiamo la sussidiarietà, ma alla rovescia, cioè un welfare al contrario»: lo ha detto il ministro per la Cooperazione e Integrazione, Andrea Riccardi, al convegno sulla famiglia a Roma: «Sono le famiglie, infatti, a sostituirsi ad un welfare carente o inesistente».

Ansa.it, 15 maggio 2012

Si è svolto un incontro tra i Presidenti dell’Anci, Salvatore Perugini, e di Legautonomie Calabria,Mario Maiolo, con i Segretari Generali di CGIL, CISL e UIL Calabria Iannello, Tramonti e Castagna per la sottoscrizione di un Protocollo Regionale sui temi della Contrattazione e della Promozione di pratiche e di scelte condivise in materia di Sviluppo, Welfare e Fiscalità locale.

Asca.it, 13 giugno 2012, Regioni

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