Confesso di non averla mai sentita prima, l'espressione immunità di gregge (o immunità del gregge, o immunizzazione del gregge). O meglio so - per sentito dire - che ricorre nelle discussioni tra no-vax e pro-vax, ma non ricordo di averla mai personalmente incontrata né tantomeno usata. Eppure leggo i giornali regolarmente, cerco di tenermi aggiornato, sfoglio libri di medicina e di scienze perché da linguista mi interesso anche agli aspetti biologici del linguaggio, al corpo umano, e alle metafore che lo riguardano.
Così, quando alcuni giorni fa l’ho trovata (l’abbiamo trovata) in tutti o quasi i giornali e notiziari, mi sono chiesto (ci siamo chiesti) che cosa diavolo fosse. Scoprendo che si tratta di un calco semantico dell’inglese herd immunity, e che a scatenare l’infodemia – la diffusione virale di notizie vere, parziali, o non verificate – su questa espressione è stato il Primo Ministro del paese in cui lavoro e vivo, Boris Johnson.
Ad essere precisi, non è stato proprio Jonhson a diffondere l’espressione, ma il suo consulente scientifico Sir Patrick Vallance, dal marzo 2018 consigliere scientifico capo del governo britannico. Nella ormai nota conferenza stampa di venerdì 13 marzo, durante la quale tanto il Primo Ministro quanto i suoi consiglieri hanno spiegato che cosa (non) avrebbero fatto per rispondere all’emergenza causata dalla diffusione del Coronavirus, Vallance ha infatti previsto che circa quaranta milioni di inglesi avrebbero contratto l’infezione, e quindi sviluppato una «herd immunity» (una immunità di gregge, appunto), utile a prevenire nuove infezioni nel futuro.
Quaranta milioni di persone
Difendendo la decisione di Johnson di non seguire l’esempio di altri paesi europei chiudendo scuole o ricorrendo a un più drastico lockdown («isolamento», altra parola entrata prepotentemente in circolo, anche in italiano come prestito non adattato: «Il monitoraggio del lockdown», «La Repubblica», 15 marzo 2020), Vallance ha anche sostenuto che l’obiettivo del governo sarebbe stato quello di «ridurre il picco dell’epidemia, abbassarlo e allargarlo» («reduce the peak of the epidemic, pull it down and broaden it») e allo stesso tempo di proteggere i più anziani e le persone più vulnerabili. Aggiungendo però in seguito – ai microfoni di Sky News – che per far questo, per arrivare all’immunità di gregge, circa il 60% della popolazione britannica (ovvero circa quaranta milioni di persone) avrebbe dovuto contrarre il virus («About 60 per cent is the sort of figure you need to get herd immunity»).
A distanza di poche ore da queste dichiarazioni non c’è stata testata giornalistica, in Italia, che non abbia rilanciato l’espressione, facendola diventare immediatamente una sorta di cliché linguistico. Riferendola puntualmente al contesto britannico, e alle strategie del governo guidato da Johnson, ma spesso, poco puntualmente, senza fornirne una definizione chiara, né una spiegazione che potesse aiutare a comprenderne meglio il significato e l’origine. Al punto che un quotidiano di approfondimento come «Il Post», già sabato 14 – il giorno dopo le dichiarazioni di Vallance – ha ritenuto utile pubblicare un articolo sul «Perché discutiamo dell’immunità di gregge». Anche per invitare a riflettere sul come ne discutiamo.
Topi e uomini
Come raccontano Paul Fine, Ken Eames e David L. Heymann («Herd Immunity»: A Rough Guide, «Clinical Infectious Diseases», Volume 52, Issue 7, 1 April 2011, Pages 911–916), l’inglese herd immunity fu usato per la prima volta negli anni Venti del Novecento, nelle ricerche sulla mortalità di popolazioni di topi interessate diversi livelli di immunizzazione, e venne riconosciuta come un fenomeno naturale negli anni Trenta, quando Arthur W. Hedrich, immunologo della Johns Hopkins University, scoprì che avendo il 55% della popolazione di Baltimora contratto il morbillo (e risultandone in seguito immune), il resto della popolazione della città, o «gregge», aveva più probabilità di non esserne contagiato: al crescere degli immunizzati, infatti, le nuove infezioni diminuivano drasticamente. Sulla scia di queste scoperte, l’espressione cominciò a circolare negli ambienti medici e immunologici, che proprio negli anni Trenta ebbero grande impulso grazie agli studi sui gruppi sanguigni del Premio Nobel Karl Landsteiner, e arrivò anche in Italia, dove venne utilizzata negli studi sulla malaria (alcune occorrenze si trovano infatti nella «Rivista di malariologia» tra gli anni Trenta e gli anni Quaranta).
La herd community negli anni Sessanta
Fu tuttavia solo negli anni Sessanta che si capì meglio se e come l’immunità di gregge avrebbe potuto essere efficace, ovvero solo contestualmente a una massiccia campagna di vaccinazione (J.L. Black, Measles endemicity in insular populations: critical community size and its implications, «Journal of Theoretical Biology, vol. 11, 1966, pp. 207-11). E fu solo grazie ai cosiddetti teoremi di Smith e Dietz (illustrati rispettivamente nei loro articoli Prospects of the control of disease, del 1970, e Transmission and control of arbovirus diseases, del 1975) che si riuscì a calcolare le soglie di vaccinazioni sopra le quali la curva di crescita del virus avrebbe potuto essere invertita. Vennero così sperimentate nuove tecniche di herd immunity, da quella della somministrazione «random» (a un numero casuale di persone che altrettanto casualmente si sarebbero mescolate con altre persone) a quella della «ring vaccination» («vaccinazioni ad anello»), secondo la quale invece doveva essere immunizzata ogni singola persona entro una determinata circonferenza di cui l’individuo infettato era il centro.
Tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta herd community conobbe così nuovo lustro, e ri-entrò in italiano – tradotta come «immunità di gregge» o «immunità di branco» - prima nel linguaggio veterinario, poi a proposito di malattie infettive come la rosolia e il morbillo, che proprio in quegli anni si stavano manifestando massicciamente lungo la Penisola. Dagli anni Settanta in poi, nel linguaggio medico anche italiano, l’espressione si acclimatò. Ma questo non impedì agli epidemiologi di confrontarsi, anche aspramente, sulle definizioni e sui concetti che ne erano sottesi. Per non parlare dell’efficacia dei metodi che ne portavano il nome.
Trasmissibilità
Oggi, tra le definizioni, la più accreditata resta quella dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (o OMS, un acronimo anch’esso diventato improvvisamente familiare, corrispondente all’inglese WHO), secondo cui «l'immunità di gregge descrive l'immunità che si ottiene quando la vaccinazione di una porzione della popolazione (il «branco») offre una protezione agli individui non protetti. La teoria dell'immunità di gregge propone che nelle malattie trasmissibili da un individuo ad un altro è difficile mantenere una catena di infezione quando un gran numero della popolazione è immune. Quindi, maggiore è la percentuale di individui immuni in una popolazione, più si riduce la probabilità che una persona suscettibile entrerà in contatto con un agente infettivo». Sia nella teoria che nella pratica – prosegue la definizione – la malattia scompare di solito già prima del raggiungimento di una copertura vaccinale del 100%, Ma la «soglia dell’immunità di gregge» – la percentuale di individui immuni in una popolazione sopra la quale una malattia non può più diffondersi – varia «con la virulenza e la trasmissibilità di un determinato agento infettivo, l'efficacia e la copertura complessiva del vaccino, la copertura vaccinale della popolazione a rischio e il parametro di contatto nella popolazione» (WHO, Global manual on surveillance of adverse events following immunization).
E quindi? E quindi – per quanto ci è dato sapere – gli studi sull’immunità di gregge non mancano, come neppure i dati a loro sostegno. Soltanto – e le discussioni tra gli scienziati britannici di questi ultimi giorni ne sono una prova – non è possibile prevedere l’efficacia del metodo in mancanza di calcoli affidabili sulla trasmissibilità di un virus, e dell’impiego contestuale di un vaccino. Se infatti sappiamo che la soglia di immunità è del 50% per un vaccino a bassa trasmissibilità come l’ebola (ovvero, per fermare la diffusione del virus dovrebbe essere vaccinato più del 50% della popolazione) e del 95% per un virus come il morbillo – virus invece ad alta trasmissibilità poiché ogni malato può generare da 12 a 18 nuovi casi, se introdotto in una comunità con zero immuni – poco sappiamo, ancora, sul COVID-19. Né, soprattutto, possiamo azzardare calcoli in assenza di un vaccino.
Attenzione a parlare di eugenetica
Ecco, forse qualche spiegazione in più – pur semplificata - non avrebbe guastato. Avremmo avuto da subito, forse, una reazione più razionale a questa inconsueta (ma di colpo pervasiva) locuzione, immunità di gregge. E avremmo capito comunque che si riferiva a una strategia discutibile, senza bisogno di vederla accostata – frettolosamente – ad espressioni come eugenetica di stato o darwinismo sociale («sorta di eugenetica liberale, di darwinismo programmato che fa il paio con il darwinismo sociale proprio del turbocapitalismo, in cui gli animal spirits non trovano argine alcuno nel potere pubblico»: così il senatore Gianni Pittella sull’«Huffington Post» del 16 marzo). Perché qui il discorso si fa non solo scivoloso (e ansiogeno, almeno per quelli come me che vivono in Gran Bretagna, a cui l’idea di uno sterminio programmato di massa mette addosso qualche brivido...), ma anche impreciso sul piano dell’informazione. E della conoscenza, non solo delle vicende attuali, ma anche storica e medica. Intendiamoci: nessuna personale simpatia per Boris Jonhson. Anzi. Johnson è un politico conservatore estremamente avverso allo stato sociale, e ai diritti dei lavoratori: che grazie a Brexit ridisegnerà, in peggio, la fisionomia del Regno Unito e della sua democrazia. Una democrazia già provata da decenni di tagli ai servizi essenziali e fortissime ineguaglianze, di concentrazioni di poteri (anche nel settore dei media), di mantra come il thatcheriano «there is not such thing as society». Ma da qui a evocare un nuovo nazismo – a cui stereotipicamente, istintivamente associamo l’eugenetica di stato – ce ne passa.
Anche perché a voler discorrere seriamente di eugenetica occorrerebbe saperne un po’ di più di storia della scienza, e dei processi e delle costruzioni discorsive che hanno portato alla «genealogia immaginaria» tra Darwin e Hitler, a un «ricorso ossessivo all’analogia nazificante», e a una (fuorviante, ma comoda) definizione di eugenetica come «pseudoscienza reazionaria, sessista, razzista e antisemita», come spiega lo storico Francesco Cassata nel suo prezioso pamphlet Eugenetica senza tabù. Usi e abusi di un concetto (Einaudi, 2015). Perché se è vero, come sostiene Cassata, che «nel dibattito pubblico italiano, tutto l’apparato simbolico del discorso ostile alla biomedicina e alla genetica contemporanee scaturisce dall’impiego polemico e strumentale di accezioni fortemente negative della parola eugenetica», è altrettanto vero che a discettare (approssimativamente) di eugenetica oggi, e a farci prendere la mano da roboanti quanto facili accostamenti, non rendiamo un buon servizio né alla storiografia, né alla scienza medica – a cui chiediamo il miracolo – che deve proprio alle terapie geniche, tanto per fare un esempio di eugenetica oggi utilmente praticata, alcune delle più importanti conquiste degli ultimi decenni. Per non parlare del dibattito politico, che di tutto fuorché di cliché (neo-nazisti vs virtuosi) ha bisogno, e del linguaggio dell’informazione, che più che di frasi di sicuro effetto necessita – forse – di uno sforzo supplementare di precisione e accuratezza. Ne necessita oggi più che mai, intendo: per offrirci quell’appiglio – solido, razionale, linguistico – di cui, in questi giorni di spiazzante incertezza, abbiamo un disperato bisogno.
Immagine: Gregge al pascolo
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