Comunque vada a finire la storia matrimoniale che, a tutt’oggi, tiene legalmente uniti da 19 anni Veronica Lario e Silvio Berlusconi, è da notare l’aurea proporzione che della vita di quest’ultimo sembra scandire il senso e il destino: il personaggio politico che ha vissuto, vive e vivrà le sue fortune facendo leva sul principio e sul metodo della pubblicizzazione del privato, vive e vivrà le sue sfortune a partire dal medesimo metodo e principio. Lo spettacolo televisivo e lo spettacolo politico messi in scena in questi anni da Berlusconi si fondano su quel principio e su quel metodo, finora redditizi. Ora, però, di fronte alla telenovela del probabile matrimonio finito (il secondo), della eventuale separazione non consensuale, del possibile divorzio in contenzioso, il rischio è che la pubblicizzazione del privato non faccia più gioco, anzi, si riveli controproducente per l’immagine pubblica e la popolarità del leader del PdL. Barzellette, veline, aneddoti, bandane, ministre o figliolette adottive e lolite adoranti, debitamente e volutamente esposti all’amplificazione dei media, sembrano d’improvviso oscurarsi sul palcoscenico del theatrum mundi, mentre, da dietro la scenografia scintillante dell’identità seduttiva e narcisistica fa capolino la maschera cupa e tetra dell’uomo di potere – comunque uomo –, che sente passare sul cerone l’alito della morte, la morte del sé indiscusso, unitario perché unico. Una parte intima della costruzione cede. Un inquilino importante del condominio personale e autarchico si contrappone al padrone – anzi, gli manda a dire: tu non sei più un padrone. Il principio aggregativo e centripeto si sfalda. Qui sì che accade un nuovo terremoto, terribile per l’unico terremotato. Qui sì che il presenzialismo mostrerà la corda, ridotto a ripicca, smentita, contrattacco cattivo. Perché cattivo è l’uomo, secondo la stessa filosofia berlusconiana, se offende e colpisce una bella donna che è pure una madre (di figli avuti insieme). E l’uomo cattivo non è bello da vedere ed è meno facile da votare.

Affare di famiglia, d’impresa, di società

Colpisce il viluppo di relazioni e di interessi implicati nel matrimonio pericolante: figli dirigenti d’impresa alleati del padre; figli non proprietari, ma pur sempre eredi, dalla parte della madre; pezzi di azienda da ipotizzare come alimenti per i figli; cospicue quantità di denaro da stornare e riassegnare – e, dietro, tanta servitù a temere per la propria sorte (insieme con quello della famiglia, c’è da decidere il destino dei famigli).

Un intero sistema viene messo in discussione, come accadeva quando, nel Medioevo e agli inizi dell’età moderna, fatte le debite ragioni sulla dote portata dalla fanciulla, il matrimonio concordato dal padre della sposa con il futuro marito e, soprattutto, con la famiglia di lui, accettato e comprovato dai parenti più stretti dell’uno e dell’altro mediante impalmamento (stretta di mano) o, a Roma, tramite abboccamento (bacio reciproco), saltava per un ravisement dell’ultima ora, con conseguente carico di disonore e danno economico famigliare e collettivo. Sostanzialmente sottratto alla volontà della coppia, il lungo percorso contrattuale che portava al matrimonio era soprattutto subìto dalla donna. Non è difficile pensare che la storia del matrimonio per le donne, una volta passate dalla patria potestà alla potestà maritale, potesse spesso trasformarsi in un calvario (si leggano, per esempio, la storia della vita e le lettere di Margherita Datini al marito, Francesco di Marco Datini, ricco e potente mercante pratese vissuto nel XIV secolo; http://datini.archiviodistato.prato.it/margherita/index.htm). Nota Daniela Lombardi nel suo studio Storia del matrimonio – Dal Medioevo a oggi (Il Mulino, Bologna 2008, p. 31): «Ruoli maschili e ruoli femminili erano segnati da differenze profonde e dalle radici antichissime, come ci conferma l’analisi linguistica. Non esiste difatti un termine indoeuropeo per matrimonio […] Si trattava di un affare tra uomini. Manca […] un verbo che denoti l’azione di lei di sposarsi. La donna non si sposa, è sposata (“menata”, si diceva in Toscana; “sposata” o “spoxata” in Veneto); non compie un atto, cambia solo di condizione. Il termine latino matrimonium vale solo per la donna e significa appunto l’accesso della fanciulla alla condizione legale di sposa e mater, non l’unione legale di un uomo con una donna. Quindi, per lei, matrimonio vuol dire diventare madre in casa di un uomo diverso da suo padre. È il passaggio da una casa all’altra, da un uomo all’altro, a contraddistinguere il nuovo status di moglie e madre».

La parola matrimonio, attestata per la prima volta nell’italiano scritto in ser Brunetto Latini (siamo sul finire del Duecento), risale effettivamente al latino matrimoniu(m), a sua volta derivato di matre(m) ‘madre’, proprio in quanto indicava, originariamente, la maternità legale. Nel DELI, s.v. matrimonio, si riporta l’illuminante chiosa del frate vallombrosano Giovanni dalle Celle (circa 1390), che, a quanto si dice, almeno una donna ebbe a conoscere bene, anche se oltre i limiti statuiti per un religioso: «E perché nel matrimonio apparisce più l’ufficio d’esso nella madre che nel padre, perciò è denominato più dalla madre che dal padre».

Dov’è il matrimonio d’amore?

È curioso notare come la Chiesa, per sottrarre il matrimonio ai poteri di controllo di famiglie, clan, signori feudali, favorì la teoria consensualista, secondo la quale, perché il matrimonio fosse valido, bastava il libero consenso degli sposi. Tant’è che, prima della svolta controriformistica, non era necessaria alcuna forma pubblica e solenne per validare il matrimonio, né tanto meno la presenza di un sacerdote o di testimoni. Si pensi, per contrasto, alla pressione esercitata in tempi moderni e contemporanei dalla Chiesa e da certa cultura cattolica nel sottolineare la sacralità del matrimonio, inclusi gli attributi della monogamia e dell’indissolubilità, ignoti all’antichità. Indissolubilità che, per essere messa in discussione da una civile legge sul divorzio (nella quale, peraltro, per prudenza, la parola divorzio non compare mai: si parla eufemisticamente di scioglimento del matrimonio), ha dovuto attendere, in Italia, la legge Fortuna-Baslini del 1970 e il no della maggioranza dei votanti (59,1% contro 40,9%) all’abrogazione della medesima legge nel referendum del 12 maggio 1974.

Negli ultimi 40 anni il numero delle separazioni e dei divorzi è cresciuto enormemente. Ma l’abbastanza diffusa – almeno a parole – nostalgia per una mitica, “tradizionale” solidità della vita matrimoniale lascia il tempo che trova. In realtà, come racconta Daniela Lombardi nel suo saggio, per morte, emigrazione, struttura famigliare non coesa e mobile, nei secoli e per secoli il matrimonio è stato instabile e precario, pur se agognato come “affare” vantaggioso, scelta razionale per una migliore sopravvivenza di due singoli consorziati (propagazione dinastica e di azienda famigliare nei ceti dominanti e alti; consolidamento dell’esistenza attraverso la prole, nei ceti bassi). Il mito del matrimonio d’amore è recente. Corrisponde a un processo di generale miglioramento delle condizioni di vita nelle società occidentali industrializzate e di massa, avviato a cavaliere tra l’Ottocento e il Novecento. Ora «la scelta del partner si autorappresenta come esclusiva scelta d’amore, al punto di offuscare quegli elementi di calcolo e razionalità sempre presenti nel momento della scelta» (Lombardi, p. 243). Ma è un mito che, pur potente, in quanto propagato dai mass media per sostenere l’autoglorificazione della società borghese fondata sul solido matrimonio produttivistico-sessista (l’uomo al lavoro per sostentare la famigliola, alla quale si dedica in tutto e per tutto la fedele moglie e madre casalinga), riguarda un lasso di tempo relativamente breve: «Dopodiché le contraddizioni esplodono, il conflitto generazionale si radicalizza, il movimento delle donne mette in crisi la gerarchia tra i sessi, la formazione della coppia si chiude nel privato, mostrando tutta la difficoltà di tenere insieme amore e matrimonio, di conciliare “l’imprevedibilità perturbatrice dell’amore” con “la stabilità della coppia costituita”. I matrimoni non durano, le separazioni e i divorzi aumentano incessantemente» (p. 243, citazioni interne da J.C. Kaufmann, La vita a due. Sociologia della coppia, Il Mulino, Bologna 1996; vedi anche Irene Ferro, Silvana Salvini, Separazione e divorzio in Italia: Le tendenze e le differenze regionali [versione provvisoria] www.ds.unifi.it).

Aumenta il numero dei single, aumentano altre forme di convivenza non sancite dal vincolo giuridico del matrimonio. Perciò va riconosciuto che, con i loro attuali 19 anni di matrimonio, Berlusconi e Lario hanno fatto comunque un bel pezzo di strada insieme. Ora, se l’eventuale separazione tra i due fosse consensuale, l’iter procedurale potrebbe durare (dice la media calcolata dall’Istat nel 2005) 150 giorni, prima dei 3 anni di separazione, al termine dei quali si può avviare la pratica per il divorzio. Se la separazione fosse giudiziale, l’iter procedurale potrebbe durare perfino 886 giorni. E se poi, davanti al giudice, i coniugi separati in disaccordo dovessero affrontare il rito contenzioso? I tempi di scioglimento del matrimonio potrebbero slittare fino a 634 giorni. I Democratici di Sinistra (DS), nel 2003, raccogliendo adesioni trasversali in Parlamento, provarono a far passare una proposta di legge, detta “divorzio breve” (o “veloce”), che prevedeva la riduzione del tempo minimo di separazione da 3 anni a uno (per le coppie senza figli e separate consensualmente). Niente da fare, i franchi tiratori impallinarono la proposta in aula (218 contrari, 202 favorevoli).

La famiglia del divorzio

Insomma, alla latina, ci vuole ancora parecchio tempo, in Italia, per ‘volgere (vertere) verso un’altra parte (dis-)’, cioè divertere, da cui divortiu(m), con la coppia che si separa e i due componenti che fanno prendere differenti direzioni alla propria esistenza. Da noi, divorzio è parola antichissima (XIV secolo nella lingua scritta), divorziare rispettabile (1796, dal francese divorcer), divorziato vecchiotto (1869), divorzismo precoce (1933), se pensiamo che le battaglie della Lega italiana per l’introduzione del divorzio (la LID di Mellini e Pannella), portabandiera del divorzismo, risalgono agli anni Sessanta (e divorzista? Ancor più precoce: attestato a partire dal 1893). Recenti, invece, sono divorziando ‘chi è prossimo al divorzio’ (1957) e, ancor di più, il tecnicismo demografico divorzialità ‘frequenza generica di divorzi’ (1991), coniato per analogia con nuzialità, natalità, mortalità. Ed è chiaro che con le parole della statistica siamo alla vanificazione di ogni residua aura di mito aleggiante attorno al matrimonio d’amore. Siamo, viceversa, alle dure e pure tecnicalità, come le chiamerebbe Silvio Berlusconi.

Immagine: Stefania Sandrelli e Marcello Mastroianni. Crediti: fotogramma tratto dal film Divorzio all'italiana del 1961.

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