Certe parole nuove magari non attecchiranno nell’uso comune dei parlanti; rappresenteranno la moda di un periodo, l’istantanea di un momento, la posa di un personaggio, la fulmineità di un evento sensazionale o sensazionalistico; finiranno poi per sciogliersi nel lutulento e infinito flusso della lingua, dimenticate dalla generazione successiva o persino dalla stessa generazione appena un po’ più avanti negli anni, nei mesi… però, però, ci sarà qualcuno che, acchiappatele con la retina, le inchioderà – senza sadismo – alla parete della memoria, ammesso che la memoria possa trasformarsi in ricordo attivo, che sia capace di illuminare a sprazzi passato e presente e sia in grado di sollecitare, forse, il ragionamento su quel che le parole significano in quanto documenti di storicità sociale.

Per farla breve, con un esempio: ma che qualcuno verrà mai a dirci che una parola come leadercrazia non esprime con sagacia ironica una componente dominante dello spirito dei tempi moderni? A quanto pare, conosciamo pure l’inventore (l’onomaturgo, avrebbe detto Bruno Migliorini) di questo composto in cui si mobilita l’attivissimo confisso (https://www.treccani.it/Vocabolario_online/C.xml) -crazia, da sempre (partendo dall’antico greco) generatore di parole. Ma se anche fosse rimasto anonimo, il creatore dell’onoma, del nome? Nessuno ha messo la firma papiracea certificata, ovvero il copyright, sotto la parola democrazia, ma vogliamo dire che per questo la parola stessa non sta facendo da secoli un lungo viaggio sostanzioso? L’anima cinica o realista dirà: grazie a -crazia, si può contare su parole durature, perché “crazia” è ‘potere’, ‘facoltà di dominio’ (dal suffisso greco antico -kratía, che rimanda al verbo kratéo ‘io ordino, comando, domino’) e al mondo non mancherà mai chi domina sugli altri o, più neutramente, li governa. Mentre su demo-, cioè sul ‘popolo’ (dal greco dêmos), si può sperare, ma col rischio di aver puntato su una presenza, per quanto notevole, più formale che sostanziale, se non persino di facciata e, in ogni caso, semanticamente complicata, a seconda di chi della democrazia, dall’alto della propria crazia, si faccia banditore e si dichiari unico interprete autorizzato.

Dal francese e dall’inglese

Ora, la nostra leadercrazia è palesemente una voce connotata da una forte carica ironica e polemica. È così per la stragrande maggioranza delle parole composte con -crazia. Quante saranno mai quelle che denotano le caratteristiche di un ‘potere di comando’ neutro? Viene in mente burocrazia (dal francese burocratie; in italiano dal 1781), viene in mente tecnocrazia (dall’inglese technocracy; in italiano dal 1931). Ma come ti muovi, ti fulmina l’uso ilare o dissacratorio, ironico o sprezzante dei composti con -crazia. Insomma, il potere di creare parole con il ‘potere’ (-crazia) di norma è spesso nelle mani di chi critica il potere (o un certo tipo di potere) – tanto il potere (vero) cerca sempre di fregarsene, del potere (della critica); e anche di fregarlo, avendo certi coltelloni dalla parte del manico.

Asini, falli e meretrici

Vogliamo fare soltanto pochi esempi? Ecco pornocrazia (con porno- dal greco pòrnē ‘meretrice’), attestato per la prima volta nella nostra lingua scritta non – dico per dire – su un numero del 2009 del quotidiano «La Repubblica», ma nell’anno del Signore 1877, su un giornale che si chiama «Il Progressista» e in cui la parola vale «forma di governo caratterizzato dalla forte influenza esercitata dalle cortigiane, dalle favorite degli uomini di potere» (s. v., Vocabolario Treccani on line); ecco partitocrazia, attestato già occasionalmente nel 1946, ma diffusosi soprattutto a partire dagli anni Settanta sotto la spinta della polemica politica dei Radicali («l’eccessivo potere dei partiti che tendono a sostituirsi alle istituzioni rappresentative nella direzione e nella determinazione della vita politica democratica dello Stato», s. v., Vocabolario Treccani on line); oppure, per passare dalla politica alla società, ecco fallocrazia (con recupero moderno e dotto di phallós ‘fallo, organo sessuale maschile visto come principio generatore’), che negli anni Settanta del Novecento, «dal milieu delle femministe» si diffonde rapidamente «come termine per designare drasticamente l’oppressione del sesso maschile sul femminile» (Pietro Janni, Il nostro greco quotidiano, Laterza, 1994). E, infine, volendo chiudere con una chicca registrata dai dizionari per la pregnanza culturale e la vis polemica, più che per l’effettivo radicamento e uso nella lingua comune (anzi, diciamolo chiaramente: è un omaggio dei lessicografi, persone che hanno fatto il militare a Cuneo, a un intellettuale che ha segnato il Novecento italiano), ecco onagrocrazia, che il Battaglia definisce nel modo seguente: «situazione politica caratterizzata dalla concentrazione del potere nelle mani di persone ignoranti, rozze e arroganti». La parola, attestata per la prima volta nel 1925, significa letteralmente ‘potere, governo degli asini (perdipiù asinelli selvatici, onagri, di mezza tacca e in via di sparizione)’ e compare negli scritti di Benedetto Croce: «L’altro pericolo, quello degli ignoranti che teorizzano, giudicano, sentenziano, che fanno scorrere fiumi di spropositi, che mettono in giro formule senza senso, che credono di possedere nella loro ignoranza stessa una miracolosa sapienza, lo conosciamo perché lo abbiamo sperimentato bene. Si è chiamato, nella sua forma più recente, ‘fascismo’. Io ho preferito denominarlo ‘onagrocrazia’».

Comandano solo i leader

Stabilito che l’uso polemico è predominante nelle coniazioni, vecchie e nuove, che si generano a partire dal confisso -crazia e che il tipo -crazia è un europeismo (per esempio, parole scherzose in -cracy si diffondono in Inghilterra fin dal Settecento), cioè un mattoncino di quel lessico intellettuale europeo che fa meglio dialogare tra loro tante lingue del continente, arriviamo finalmente a leadercrazia. La parola è figlia della creatività linguistica di Alfredo Biondi, liberale vecchio stampo, toscano senza peli sulla lingua, senatore berlusconiano fino al 2008 (poi non ricandidato). Nel 2002 dichiara: «C’è, nell’odierna fase di transizione della politica italiana (e non solo italiana), una tentazione alla leadercrazia che rifiuta, o ritiene fastidiosi, gli impacci del metodo liberale del confronto e del “conoscere per deliberare”» (s. v. leadercrazia, in Giovanni Adamo-Valeria Della Valle, Il Vocabolario Treccani. Neologismi – Parole nuove dai giornali, 2008). Intervistato nel 2005 da Claudio Sabelli Fioretti, Biondi dimostra di essersi affezionato alla propria creatura lessicale: «[Biondi] “In Forza Italia manca dialettica interna. A causa di una visione che io definisco leadercratica”. [Sabelli Fioretti] Un bel neologismo. [Biondi] “Leadercrazia: comandano solo i leader. Berlusconi sarebbe più forte se si confrontasse nelle sedi previste dallo statuto. A me il teatrino della politica piace”» (dalla banca dati Neologismi della Treccani https://www.treccani.it/lingua_italiana/neologismi/).

Se sui doppiopetti di Silvio Berlusconi qualcuno ricucì le parole del potere mediatico (telecrazia, attestato dal 1965, e videocrazia, dal 1990), va detto che oggi, pur essendo l’attuale Presidente del Consiglio la più significativa espressione della leadercrazia, la parola creata da Biondi si attaglia agli atteggiamenti e alle propensioni di molti politici anche distanti da Berlusconi. E l’onnicrazia (col primo elemento latino omnis ‘tutto, ognuno’), vale a dire la ‘partecipazione di tutti al governo dello Stato’, sembra ben più lontana da questo mondo di quanto lontana appaia Assisi a chi si mette in marcia ogni anno da Perugia in nome della pace, secondo quanto volle e fu capace di organizzare il filosofo nonviolento, educatore e politico Aldo Capitini (1899-1968), che la parola onnicrazia creò negli anni Sessanta (http://books.google.it/).

Image by danymena88 on Pixabay, Pixabay License, Libera per usi commerciali, Attribuzione non richiesta.