25 maggio 2020

Nuovo lessico famigliare: le cento parole della pandemia

 

Preambolo: distanze da ricucire

 

Il mondo comincia dal lessico per dirlo e perciò le parole sono importanti, sono tutto ciò che abbiamo, scriveva Raymond Carver.

Tra le attività didattiche escogitate per colmare in parte alcuni vuoti della didattica in presenza, insieme agli studenti del corso di laurea binazionale LIDIT dell’Università di Salerno abbiamo allestito un glossario dei tempi della pandemia, non un elenco esaustivo, ma le parole più rappresentative e frequenti, una sorta di nuovo lessico famigliare (speriamo solo temporaneo), quello con cui si è raccontato come è cambiato il mondo in questo periodo.

 

Quando i tecnicismi diventano di tutti

 

Sono soprattutto tecnicismi della medicina i ‘nuovi’ ingressi nel lessico quotidiano, sprovvisti di aura e di mistero: molti sono diventati termini prêt-à-porter, tanto nelle nuove accezioni mediche (tampone, casco), quanto quelli già ben acclimatati e ora semplicemente sulla bocca di tutti (sintomo, vaccino, anticorpi, anche più colti: pandemia, incubazione). Alcune parole registrano restrizioni a designazioni più specifiche: i guanti dall’indumento di protezione dal freddo, proprio del periodo in cui scoppiava l’epidemia a Codogno, sono ormai nell’immaginario collettivo, senza bisogno di specificazioni, quelli di gomma o chirurgici; per ventilatore ha preso il sopravvento l’apparecchiatura medica rispetto all’attrezzo a cui eravamo abituati per trovare refrigerio; altre parole disegnano nuove abitudini di controllo igienico-sanitario: il termoscanner e il (gel) disinfettante o igienizzante. Né mancano i termini ben noti delle patologie mentali come psicosi che rappresentano fenomeni di paura collettiva per il contagio il cui pericolo si intravede anche nel respiro del dirimpettaio.

Accanto ai molti termini tecnici, si alternano parole di ben nota tradizione letteraria (l’untore e il lazzaretto di ascendenza manzoniana), altre, di uso comune, riadattate o specializzate o risemantizzate con slittamenti di segno contrario: trasmissione dalla accezione più comune si connota ora negativamente in riferimento al virus; una persona positiva è guardata con paura, tenuta a debita distanza; la mascherina ha smesso di essere quella del carnevale terminato a metà febbraio (nelle varie tipologie ben note a tutti: m. chirurgica, ffp2, ecc.). Si impone di alcuni termini la variante tecnica come focolaio (il focolare richiama ben altre atmosfere), mentre vecchie parole familiari hanno costruito nuovi immaginari suggerendo reti altre di comunicazione: il balcone di Romeo e Giulietta ha lasciato il posto a quello da cui gruppi familiari chiusi in un interno si sono connessi in canto via etere; ci sono parole animalesche per nomi collettivi (il gregge immune, non gregge belante, si spera), quelle degli affetti – anche instabili, precari, provvisori, in declino e financo illusori – che misurano lo spazio e il tempo che abbiamo vissuto (isolamento, distanziamento); ci sono le parole della speranza (ripartenza, riapertura, calo della curva) e le parole della morte, che non sono quelle spettacolarizzate dalla tv del dolore, ma riguardano molto da vicino più di 32.000 famiglie (urna, decesso, terapia intensiva).

Prevedibile di alcune parole l’alta frequenza: è così per isolamento, ma anche per quella correlata, solitudine, meno pronunciata ma sempre sottintesa, non solo nel privato delle case e durante la quarantena dei malati, ma anche nella condizione frequentissima del morire senza la vicinanza di qualche familiare, di un congedo che solo in rari casi fortunati ha avuto la consolazione di un’ultima videochiamata.

 

Le parole in pubblico: l’antilingua sempreverde

 

La comunicazione pubblica e istituzionale in qualche caso (pochi) ha trovato le parole efficaci per parlare ai cittadini: un colore proibito, zona rossa, ha indicato in modo chiaro alcune aree focolaio da isolare (in Italia l’espressione è registrata almeno dal luglio 2001 con riferimento ai quartieri di Genova ad accesso ristretto durante il G8).

Nel profluvio incessante di informazioni e fake news (infodemia) anche per bocca dei nuovi guru dei media (i virologi), in generale la comunicazione politica e istituzionale non ha per nulla brillato (con l’eccezione della scelta di alcuni titoli semplici e rassicuranti come il decreto del 17 marzo 2020, n. 18, Cura Italia). A parte la vicenda della autocertificazione – mai testo è stato più cangiante nel volgere di poche settimane (sei versioni finora) – nei vari decreti del governo, lunghissimi e in perfetta antilingua di calviniana memoria, si sono letti anche termini ambigui, talvolta legati a una parziale visione della società: da congiunto, riferito a parentela fino al sesto grado, agli affetti stabili, altra formula infelice che non considera che di stabile spesso c’è poco in molti rapporti familiari (ricordiamo il record di femminicidi e di violenze domestiche) a tutto discapito dei veri affetti che non sono per forza solo di sangue; insomma un termine mal azzeccato specie in Italia in cui di stabile c’è poco (né i governi né le alleanze di governo e neppure i ponti e i soffitti delle scuole).

 

Anglicismi, sigle e vari mostriciattoli

 

Non potevano mancare gli anglicismi, nuovi, meno nuovi e in qualche caso inutili (eurobond, lockdown, task force, smart working) e le varie sigle e acronimi sempre più familiari (OMS, MES) come Covid-19, acronimo dell’inglese Corona Virus Disease 19, che non contiene, in linea con le indicazioni internazionali per le denominazioni, riferimenti etnici e geografici per evitare stigmatizzazioni e discriminazioni, ma che è stato da subito associato al paese in cui il virus è nato (e atti di intolleranza e offesa verso i cittadini cinesi residenti in Italia non sono mancati).

Anche altre sigle e anglicismi son diventati fin troppo familiari, come quelli marziani degli ambienti formativi (dad, fad, call, webinar, teams, zoom): su tutti la DaD (Didattica a distanza) che è entrata con prepotenza nelle case degli italiani, per salvare il salvabile dei mesi di lezione perduti, ma lasciando fuori gli ultimi, i senza tablet, i senza connessione, i senza genitori in grado di aiutare i piccoli ancora da alfabetizzare o non esperti digitali; sarà bene quindi, di là da slogan di circostanza, misurare e capire chi e ciò che si è perso e ripartire da lì prima possibile, perché quello all’istruzione è un diritto sancito dalla nostra Costituzione.

 

"Siamo in guerra": la forza delle metafore

 

Il dramma della pandemia ha esercitato ovviamente allargamenti e usi figurati, soprattutto attraverso i racconti di cronaca dei media; spicca il costante uso metaforico di ambito bellico e militare (siamo in guerra, in prima linea, il nemico), anche con un pizzico di prosopopea (gli eroi). E così nell’immaginario collettivo si è costruito il nemico numero uno, la minaccia globale da espugnare, il coronavirus, il nemico invisibile che si combatte in una guerra invisibile. E a combattere in prima linea sono medici, infermieri e personale sanitario, soldati in trincea, che spesso sono caduti al fronte, usando le armi della medicina e della scienza.

 

Multilinguismo pandemico: varietà e idioletti

 

Ci sono anche termini che sono stati storpiati sulla bocca dei meno colti (assemblamento per assembramento) e ancora molti altri che allargherebbero il primo gruppo delle 100 parole più frequenti, per es. gergalismi e neologismi che indicano attività ora abituali (tra gli utenti della didattica a distanza mutare / smutare ‘spegnere il microfono’, anche mutarsi/smutarsi), regionalismi (il panaro solidale per le strade del cuore storico di Napoli), gli stessi idioletti dei cittadini che scrivono sui social. In questa dimensione, la mia, che non è privata perché ho condiviso in pubblico il mio Diario minimo di questo periodo, segnalo “la mia parola” (su cui mi sono soffermato il 21 aprile): “isolitudine, che rievoca l’immagine solitaria dell’isola e il confine netto tracciato dal mare, e che pure richiama, in absentia, lembi deserti di spiagge da cui l’unica morte osservabile è per fortuna quella del sole al tramonto dietro la linea lontana dell’orizzonte”.

 

Epilogo. Ipotesi per un possibile futuro

 

Ripartiamo dal buon uso delle parole, da quelle giuste, da quelle che non creano psicosi e che sanno comunicare meglio di quanto non abbiano fatto la politica, la Protezione civile e molti opinionisti del web. La ripartenza inizia non solo dalle attività commerciali: proprio ora che le comunità della scuola e dell’università sono ferme come presenza fisica e tangibile, si rende ancora di più necessaria la (ri)costruzione attenta della polis, dei rapporti sociali, anche a partire da nuovi alfabeti comunicativi, visto il dilagare non solo sui social, ma anche in Parlamento, di scontri poco urbani che ricorrono non di rado al cosiddetto hate speech.

Le parole giuste possono accorciare le distanze, quelle che ci hanno isolato, possono allargare gli spazi, quelli in cui siamo stati confinati, possono ricucire e inventare trame sociali nuove perché “Adesso lo sappiamo quanto è triste / stare lontani un metro” (Mariangela Gualtieri).


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