La fissazione del cognome coincide con la perdita di significato descrittivo: i nomi di famiglia diventano etichette moderne, ma vuote, trasmesse ma immutabili. A volte trasparenti nel loro significato originario, a volte comprensibili soltanto al linguista o al dialettologo e altre volte del tutto incomprensibili. Quelli trasparenti possono essere fonte di equivoci e di... risate, se a occuparsi di onomastica è il grande Totò. «Questo nome non mi è nuovo» soleva ripetere. Da dove nasceva la sua comicità onomastica? Dal fatto, di per sé banalissimo, che l’attore negava la perdita di significato del cognome: questo manteneva ai suoi occhi e alle sue orecchie un valore preciso, quello dei dizionari.
Alla presentazione di una paziente – «Ada Barbalunga, vedova Barbieri» – Totò nei panni di un medico (il film è Totò, Vittorio e la dottoressa del 1957) replicava: «Per forza». «Come per forza?». «Morto il barbiere, la barba si allunga!». Notissima è la scenetta nel vagone-letto (Totò a colori, 1952) con l’onorevole Cosimo Trombetta, appellato da Totò Tromba, Trombone, Contrabbasso, Violoncello e infine presentato come suonatore di clarino.
Il tormentone delle variazioni sul tema si ripete in Destinazione Piovarolo (1955), in cui il protagonista La Quaglia è chiamato La Fagiana, L’Allodola, Lo Merlo. Nel film La cambiale (1959), protagonisti i cugini Posalaquaglia, la prostituta Lola Capponi è ribattezzata Cappona, Gallina, Pollanca e Picciona. Nel film I ladri (1959), il malcapitato di turno è La Nocella, il cui cognome diventa via via La Noce, La Nocchia, La Finocchia, La Peretta, La Melona, la Nocciolina, Lo Fico Secco e Ortolani. Non senza metafore maliziose: peretta ‘clistere’, finocchio ‘omosessuale’ ecc.
Confusione coi nomi propri
In altre occasioni la confusione avviene tra un nome (o un sintagma) comune, appartenente al lessico, e un nome di persona o di luogo. In Totò, Peppino e la... malafemmina (1956) lo spagnolo adelante viene inteso come Adelaide, e la “laurea” diventa Laura, nella celebre lettera dei fratelli Caponi alla “malafemmina”.
In Chi si ferma è perduto (1960), lo scambio di parole entra in campo paremiologico: «Rita bene chi rita l’ultimo». In Totò contro Maciste (1962) il divino Totokamen consiglia a Nefertiti di riguardarsi a letto, «perché con la nefrite sono castighi, sono...». Lo smemorato di Collegno, nell’eponimo film del 1962, alla ricerca di «un nome e cagnomo», sostiene di essersi chiuso non solo per sfizio in un «Walter e Closet», aggiungendo: «Lei lo chiama gabinetto, per me è un Walter, chiaro?» (forse qui richiamando il noto attore brillante Walter Chiari). In Totò e Peppino divisi a Berlino (1962) l’invito della cameriera tedesca che indica un barista – «...fragen Sie ohn!» – diventa per Totò il nome dell’interlocutore: «Signor Fraghensì, excuse-me, questa strass dove trovass?».
E i giochi di parole possono essere anche più raffinati: in Totò sceicco (1950), passando in rassegna la truppa, davanti a un soldato di nome Omar Totò improvvisa «Mir o’ marë quann’è bellë!», citando un verso della canzone Torna a Surriento. In Guardie e ladri, con il brigadiere Bottoni (l’attore Aldo Fabrizi) e la sua famiglia, a un certo punto Antonio Esposito esclama: «Ne ho piene le tasche di questi Bottoni».
Pioniere onomastico
Totò sembra anticipare quella sorta di onomastica scherzosa e allusiva, giocata su nomi e cognomi stranieri d’invenzione ma trasparenti – come quando compare il potente signore del Kuwait El Buzùr il cui nome allude a buzzurro ‘rozzo, zotico’ – di cui gli italiani negli anni ’70 del ’900 furono maestri coniando col medesimo meccanismo, e con sfumature dialettali, centinaia di nomi fintamente stranieri e parlanti: insomma, il tipo Ndokoyokoyo per il lanciatore di coltelli (e Son Tutan Tayo per la partner), il falegname russo Andreiperiboski con la moglie cuoca Cocimelova, i motorizzati cinesi Chancamioncin e Chanchao, la ballerina cecoslovacca Ciolanka Sbilenka, il sarto giapponese Sumi Sura, il saltatore arabo Daquì Allah, il carcerato romeno Mocumescu e l’evaso Ciaoescu, il terrorista africano Mobutu Labomba ecc.
Cognomi parlanti
Nella filmografia complessiva di Totò possono cogliersi alcune caratteristiche ricorrenti. La prima è costituita dalle formazioni composte: Pappalardo (Totò e i re di Roma, 1952), Scannagatti (Totò a colori, 1952) e Posalaquaglia anche marchio dell’agenzia di “consulenze testimoniali” dei due omonimi cugini (La cambiale, 1959).
Altre forme composte (verbo+avverbio, nome+nome, aggettivo+nome) sono Cantachiaro (Totò di notte n. 1, 1962 e Totòsexy, 1966), Barbacane (Totò, Peppino e... la dolce vita, 1961) e Mezzacapa (Totò, Peppino e la... malafemmina, 1956). Talvolta i cognomi sono posti in contrasto: Mezzacapa è appunto l’odiato vicino dei fratelli Caponi. E lo stesso Caponi è cognome parlante, allusivo a ‘testoni, cocciuti, ignoranti’.
Allusioni gastronomiche
Un’altra caratteristica della cognominazione in Totò – spesso nei panni del poveraccio affamato – concerne le allusioni alla sfera alimentare: La Trippa (Gli onorevoli, 1963), Cicciacalda (Il monaco di Monza, 1963), il già ricordato Pappalardo, Frittelli (Totò terzo uomo, 1951), Piselli (Totò cerca pace, 1954), Sapore (Totò sceicco, 1950); e alla sfera scatologica: Cacace nell’episodio Il vigile ignoto dalle Motorizzate (1963), oltre a Capece, in Fifa e arena (1948), cognome che è la contrazione di cacapece; e poi La Puzza (Totò e Peppino divisi a Berlino, 1962). In un duetto dei Tartassati (1959) con Aldo Fabrizi, le famiglie di Giulietta e Romeo, Capuleti e Montecchi, finiscono per trasformarsi in Cappelletti e Agnolotti.
Si registra poi il largo ricorso a cognomi del tipo Lo/a + nome o aggettivo: Lo Turco (interpretato da Peppino De Filippo), chiamato da Totò nella Banda degli onesti (1956) anche Lo Curto, Lo Tripoli, Lo Turzo, Lo Truzzo, Lo Struzzo, Lo Crucco, Gianturco, Turchesi, Turchetti e Turco in uno di quei tipici tormentoni con i quali l’attore, perfido e insinuante come una mosca cavallina, amava angariare le sue “spalle”.
Colabona e Guardalavecchia
Si pensi anche a letture volutamente trasparenti sul piano dialogico, perlopiù offensive, in Chi si ferma è perduto (1960), che offrono spesso spunti per la meccanica narrativa della pellicola, indicando un ulteriore processo di utilizzo del cognome che fa riferimento all’azione. Totò veste i panni dell’impiegato Guardalavecchia, riferito ambiguamente alla moglie assai poco avvenente del così cognominato, e dunque fraintesa in Guardalaracchia; mentre quello dell’antagonista, l’attore Peppino De Filippo, Colabona, da un lato è spregiativamente rietimologizzato in Cocacola e in Scolabrodo, dall’altro si offre a doppi sensi legati a prosperose figure femminili («Colabona ha mandato la bona?», «Venga in ufficio con la bona» ecc.). Cola- (diminutivo di Nicola) offre ulteriori spunti: «Lei è un traditore, un Giuda. Lei di cognome fa Colabona, ma dovrebbe chiamarsi Colagiuda». Si colga la finezza di questo dialogo:
Totò: Signor Colabona...
Peppino: Dica, Guardalavecchia.
Totò: Io guardo chi mi pare.
Peppino: Io sto dicendo il suo cognome: Guardalavecchia.
Totò: No, lei ci mette una punta di ironia sulla vecchia...
Peppino: E lei ce l’ha messa sulla bona...
Totò: Io sulla bona non ci metto niente...
Peppino: E io sulla vecchia neanche...
Totò: Sono una persona seria e integerrima!
Peppino: Anch’io sono integerrimo!
Immagine: Nino Marchetti, Nino Taranto e Totò in una scena del film Totò contro Maciste (1962) di F. Cerchio, via Wikimedia Commons
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