parkour ‹parkùr› s. m., fr. [da parcours (du combatant) «percorso (di guerra)», con mutamento di c in k per influenza dell’ingl. park «parco», ma anche per contaminazione dal linguaggio giovanile]. – Pratica ludico-sportiva inventata nel 1998 in Francia da David Belle, e diffusasi nei centri urbani; consiste nell’affrontare un determinato percorso superando gli ostacoli che via via si presentano (muretti, scale, fossi, ecc.) con salti, capriole, arrampicate e varie altre acrobazie.
Questa parola rappresenta bene quali dilatati limiti possa oggi raggiungere la velocità di trasmissione di mode, costumi, stili di vita e annesse parole che li definiscono. Nel giro di pochi anni, da quando cioè si è diffuso – si badi bene – come pratica interclassista in Francia, dove nacque nelle periferie di Parigi verso la fine degli anni Ottanta, le parkour (con la tipica k giovanilistica di Kikka ti voglio, kiamami tu ecc., nota in Francia come in Italia, seppure influenzata, in questo caso, dalla k dell’inglese park; ma la denominazione è successiva agli anni dell’effettiva nascita della pratica), cioè le parcours ‘il percorso della gara, del circuito’, il correre, saltare, arrampicarsi, volteggiare per strada lungo un percorso metropolitano, cercando di toccare terra coi piedi il meno possibile e usando gli ostacoli come trampolini e catapulte per rilanciarsi oltre e in avanti, subito si diffonde oltremanica, poi oltreoceano e infine in tutto il mondo, laddove esistano teen ager compressi negli spazi cementizi delle grandi metropoli – da Helsinki a Singapore, insomma.
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