29 aprile 2020

Non è distanza sociale!

Parole nel turbine vasto

 

A circa tre mesi dalla prima attestazione sulla stampa italiana del termine coronavirus, c’è un concetto attorno al quale sembra ruotare gran parte del discorso sull’emergenza da Covid-19, quello della “distanza”: la distanza che le goccioline respiratorie riescono a percorrere diffondendo il virus, la distanza tra i carrelli della spesa in fila indiana davanti ai supermercati, la distanza alla quale dobbiamo tenerci dai nostri cari per proteggere loro e noi stessi… È quindi proprio alla “distanza” nelle sue diverse declinazioni lessicali e semantiche che sono dedicate le riflessioni che seguono.

 

Il distanziamento sociale

 

Il discorso sul coronavirus, balzato repentinamente dall’ambito scientifico a quello mediatico e quotidiano, è permeato di termini della medicina e della biologia filtrati con accezioni più o meno precise nell’uso comune. È in questo senso che può essere inteso anche distanziamento sociale, neologismo attestato per la prima volta sulla stampa italiana all’indomani dell’individuazione del “paziente uno” di Codogno sulle pagine de Il Resto del Carlino nelle parole di Gianni Rezza, direttore del dipartimento malattie infettive dell’Istituto Superiore di Sanità, a proposito delle misure necessarie per contrastare la diffusione del virus: “Le misure adottate dal ministero, oltre all’isolamento ospedaliero dei casi accertati, e la quarantena dei contatti sospetti, prevedono il distanziamento sociale nelle zone colpite” (“È solo l’inizio, altri focolai in Italia”, 22 febbraio 2020, Il Resto del Carlino). Anche nelle settimane immediatamente successive l’uso del termine resta appannaggio degli esperti di salute pubblica: il 2 marzo Repubblica riporta le affermazioni di Silvio Brusaferro, presidente dell’ISS: “dove c’è una circolazione locale sostenuta del coronavirus bisogna creare misure di distanziamento sociale”. Ancora su Repubblica l’8 marzo a occuparsi di distanziamento sociale è Cowling, epidemiologo di Hong Kong: “Cowling ha appena firmato, insieme a colleghi della sua università, uno studio che passa in rassegna le misure di «distanziamento sociale» che si usano per contrastare le epidemie di influenza”.

Il presidente del Consiglio italiano Giuseppe Conte userà invece distanziamento sociale per la prima volta solo il 25 marzo nella sua informativa alla Camera in merito all’emergenza Covid-19: “Una volta verificato che la circolazione del virus superava ambiti geografici facilmente e chiaramente isolabili, le misure di contenimento geografico hanno perso rilievo, mentre hanno assunto ancor più rilevanza quelle di distanziamento sociale”. Alcuni giorni prima della comunicazione di Conte, il termine ricorre nel linguaggio istituzionale nella dichiarazione del ministro della salute Roberto Speranza: “Garantire un efficace distanziamento sociale è fondamentale per combattere la diffusione del virus.” (Comunicato stampa n. 119 del Ministero della Salute, 20 marzo 2020). Nonostante l’Italia sia il primo paese europeo ad adottare provvedimenti restrittivi per bloccare i momenti di aggregazione della popolazione nel tentativo di rallentare la diffusione dell’epidemia, il termine epidemiologico distanziamento sociale viene adottato con una certa reticenza per lo meno dalle istituzioni, che gli preferiscono largamente, nei propri comunicati, la perifrasi ben più lunga e articolata di “misure per il contenimento e la gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19”. La portata referenziale delle due espressioni – distanziamento sociale e “misure per il/di contenimento…” – è la stessa, come si evince dal comunicato stampa pubblicato il 4 marzo 2020 sul sito dell’Istituto Superiore di Sanità: distanziamento sociale è un termine dell’epidemiologia che indica nel loro insieme i diversi tipi di intervento utili per evitare una grande ondata epidemica, “l’isolamento dei pazienti, l’individuazione e la sorveglianza dei contatti, la quarantena per le persone esposte, la chiusura delle scuole e dei luoghi di lavoro o l’adozione di metodi per lezioni scolastiche/universitarie e lavoro a distanza. Inoltre vanno anche considerati i provvedimenti che limitano l’assembramento di persone, come le manifestazioni sportive, fino ad arrivare alla restrizione dei viaggi internazionali.” (“A cosa servono le misure di distanziamento sociale?”, ISS; link).

 

Le debite distanze

 

Ma allora come si spiega la reticenza dei politici italiani a ricorrere a distanziamento sociale come formula comprensiva di tutti i provvedimenti adottati preferendole invece una perifrasi vaga e di difficile memorizzazione quale “misure per il/di contenimento ecc.”? Nonostante la sua apparente trasparenza, distanziamento sociale è un’espressione problematica sotto vari punti di vista.

Calco dall’angloamericano, distanziamento sociale è già attestato sulla stampa italiana nella sua forma originale – e virgolettata – social distancing a proposito dell’influenza A (detta popolarmente “influenza/febbre suina”): “La cosa migliore da fare, forse, è quella di vivere normalmente. Niente «feste dell’influenza», ma anche niente misure di «social distancing», già studiate negli Stati Uniti in funzione antipandemica, riedizione moderna dell’antica quarantena.” (“Influenza: ammaliamoci per abbatterla”, 15 luglio 2009, La Stampa).

Dietro la diffusione di distanziamento sociale nel linguaggio giornalistico odierno è lecito ipotizzare l’influenza dell’anglismo, notando tra l’altro come sui giornali la versione italiana conviva con il forestierismo social distancing, utilizzato però dalla stampa solo per riferirsi alle misure di contenimento adottate in un paese straniero (es.: “San Francisco ha deciso di essere la prima città americana a compiere una «scelta all’italiana», imponendo la «social distancing» con la forza”, 17 marzo 2020, Repubblica).

A giustificare il riserbo nei confronti dell’espressione distanziamento sociale non basta una certa insofferenza verso l’ennesimo anglismo, ma concorrono soprattutto osservazioni di tipo semantico: l’accostamento del nome d’azione “distanziamento”, deverbale da “distanziare” (“distanziamento: 1892, (raro) il distanziare”, Zingarelli 2020) all’attributo “sociale” evoca l’immagine generalizzata del distacco da ogni tipo di contatto sociale se non addirittura fondato sulla disparità sociale senza focalizzarsi sulla distanza nel senso fisico di “spazio che intercorre tra due cose, luoghi o persone”. Dall’esigenza di accentuare l’aspetto della mera distanza fisica rispetto a quello della sospensione dei contatti sociali nasce la confusione con espressioni e concetti solo apparentemente simili quali distanza sociale, distanza interpersonale, distanza di sicurezza, distanza (di) droplet. Nel caso di distanza sociale si tratta di un “falso amico”: se talvolta la stampa usa distanza sociale come sinonimo di distanziamento sociale (“È il videoappello diffuso dall’assessore al Welfare della Lombardia Giulio Gallera, che attraverso un filmato sui social ha invitato i cittadini della regione a rispettare le prescrizioni dei medici sulla distanza sociale”, 7 marzo 2020, Il Fatto Quotidiano), distanza sociale è in realtà un concetto classico della sociologia che indica la “chiusura relazionale di un soggetto nei confronti di altri percepiti come differenti sulla base della loro riconducibilità a categorie sociali”(Vincenzo Cesareo 2007, La distanza sociale). La prossemica (lo studio dell’uso che gli individui fanno dello spazio sociale e personale, v. Edward Hall) impiega invece il termine distanza sociale per definire una delle quattro dimensioni della distanza interpersonale, quella riservata alle relazioni formali e impersonali in cui si negozia o contratta, di solito variabile tra i 120 e i 360 cm. Nel contesto dell’emergenza sanitaria da coronavirus il riferimento alla distanza tra gli individui intesa in senso meramente spaziale si traduce inoltre in un appello a rispettare la distanza di sicurezza, espressione anch’essa preesistente al coronavirus, ma finora impiegata soprattutto per indicare la distanza da mantenere tra un veicolo e l’altro per evitare collisioni in caso di frenate, e adesso risemantizzata nel senso della distanza (almeno un metro) oltre la quale si considera escluso il rischio di contagio attraverso le goccioline respiratorie responsabili di trasportare il virus (cosiddette droplet, da cui la locuzione di stampo giornalistico distanza (di) droplet).

 

Le distanze degli altri

 

La propagazione dell’epidemia a livello mondiale porta con sé la diffusione di un lessico globalizzato o almeno la necessità di denominare in lingue diverse referenti identici o analoghi. Al distanziamento sociale degli italiani (e al social distancing che, almeno dal punto di vista lessicale, lo precede) fa da pendant la distanciation sociale del francese, concetto definito “ripugnante” dal primo ministro francese Édouard Philippe in una dichiarazione in diretta televisiva del 14 marzo 2020: Non vi dico che si tratta di un bel termine. È un concetto che a noi francesi ripugna perché siamo un popolo che ama riunirsi, un popolo gioioso, felice di vivere insieme, forse ancora un po’ di più quando la paura comincia a impadronirsi degli animi (“Je ne vous dis pas que c’est un joli terme. Je sais que c’est un concept qui nous rebute, nous, Français, parce que nous sommes un peuple qui aime se rassembler, un peuple joyeux, heureux de vivre ensemble, peut-être même encore un peu plus quand la peur commence à gagner les esprits”). Non mancano infatti le critiche all’uso dell’espressione distanciation sociale e le proposte di sostituire al distanziamento sociale la distanciation spatiale “distanziamento spaziale” per ribadire i limiti fisici e non sociali del distacco. Se le locuzioni francesi usate per definire le misure per il contenimento dell’emergenza da Covid-19 corrispondono almeno in parte alle espressioni italiane (oltre a distanciation sociale – distanziamento sociale si pensi anche a confinement, equivalente di confinamento, spesso anche nella forma confinement à l’italienne), il francese dispone anche di un termine specifico assente nelle altre lingue considerate in questo contributo, il composto gestes barrières (“gesti-barriera”) per quei gesti/comportamenti in grado di costituire una sorta di barriera alla penetrazione del virus, cioè l’insieme delle misure igieniche comunemente raccomandate per contrastarne la diffusione (lavaggio frequente delle mani, tossire e starnutire nel gomito, utilizzo di fazzoletti monouso, evitare le strette di mano). L’espressione gestes barrières risale all’epoca dell’epidemia SARS ed è ben presente nella memoria discorsiva dei francesi, mentre l’equivalente italiano non risulta attestato in ambito epidemiologico, ma solo come termine specialistico della cinesica (la disciplina che si occupa del linguaggio del corpo) in un’accezione diversa, per indicare cioè i gesti autoprotettivi come incrociare le braccia o le gambe (v. Roberto Tassan 2005, “Per una semantica del corpo: segni, segnali e linguaggi non verbali”).

Quanto al tedesco, il termine soziale Distanzierung gode in generale di poca fortuna a causa delle distinzioni sociali che evoca, soppiantato anche qui, come in Francia, da räumliche Distanzierung / räumliche Distanz (distanziamento/distanza spaziale). Ma in Germania la discussione pubblica ruota principalmente attorno al termine Kontaktsperre (“divieto di contatto”), la restrizione in vigore dal 22 marzo sull’intero territorio tedesco basata sulla “regola delle due teste” (Zwei-Kopf-Regel) in base alla quale sono vietate tutte le attività all’aperto in gruppi di più di due persone. Da questo punto di vista il tedesco è l’unica lingua europea a sostituire, nella denominazione delle restrizioni adottate per contenere l’epidemia, il concetto della “distanza” con quello del “contatto”.

 

La vita a distanza

 

Nel discorso sul coronavirus la “distanza” non rappresenta solo il limite da rispettare nei rapporti interpersonali, ma anche la dimensione in cui svolgere ogni tipo di attività sociale. È difficile mettere ordine tra le tante espressioni e locuzioni più o meno neologiche che sottolineano lo svolgimento “da lontano, in assenza di contatto fisico” della rispettiva attività. Il prefisso (anzi il prefissoide) tele- usato tradizionalmente nell’italiano tecnico o scientifico con riferimento a operazioni che avvengono a distanza (telescopio, telefono, televisione e quindi, più recentemente, telelavoro, telechirurgia ecc.) sembra poco presente nella denominazione dei diversi aspetti della “vita a distanza” ai tempi del coronavirus (a differenza del francese, che invece ricorre in maniera massiccia all’espressione télétravail, “lavoro a distanza”), forse perché legato a mezzi di comunicazione per certi versi tradizionali (il telefono, la televisione) e sentito quindi come superato rispetto alle più articolate esigenze contemporanee. Maggiore fortuna è riservata al prefissoide video-, utilizzato nel contesto dell’emergenza sanitaria per la denominazione di tutte quelle attività di comunicazione a distanza basate su un collegamento audiovisivo, dalla videoconferenza alla videolezione e persino alla videomaestra (“La «videomaestra» non perde gli alunni”, 20 marzo 2020, Il Resto del Carlino). A farla da padrone sono però soprattutto gli anglismi, in particolare le costruzioni con l’elemento formativo smart nel senso di “collegato alla rete e che può essere gestito a distanza”: non solo il lavoro smart o il lavoro modalità smart working, cui fa riferimento lo stesso Giuseppe Conte nel suo discorso alla nazione del 21 marzo, ma anche lo smart training e lo smart yoga con l’allenatore di turno in diretta skype, l’anglismo improbabile della smart laureing (“E alla fine «smart laureing»”, 3 aprile 2020, Corriere della sera) e persino il calendario smart, un calendario online per la preghiera domestica durante la settimana santa, e l’elenco degli esempi potrebbe allungarsi ancora. A queste formazioni si aggiungono i sintagmi costruiti con le locuzioni a distanza (interrogazioni a distanza, didattica a distanza, lavoro a distanza, sanità a distanza, formazione a distanza, riunione a distanza ecc.) e da remoto (asta da remoto, terapie da remoto, lezioni da remoto, consulenza da remoto o anche lavorare da remoto, gestire da remoto ecc.), insospettabile calco sull’inglese remote per indicare un’attività svolta appunto con l’assistenza di un supporto informatico a distanza, espressione su cui si è soffermato recentemente anche Giuseppe Antonelli in una puntata della trasmissione televisiva Kilimangiaro. Abbastanza diffuso anche l’anglismo webinar, parola macedonia nata dalla contrazione di web + seminar per indicare un “evento pubblico online, per lo più un seminario”, termine che, pur essendo già attestato in italiano dal 2007, soltanto adesso sembra uscire dagli ambiti specialistici dell’economia e della tecnologia per entrare nel quotidiano di una vita “a distanza”.

 

Così lontani, così vicini…

 

In un discorso costruito attorno al concetto di “distanza” riesce comunque a trovare spazio anche il suo opposto, la categoria della prossimità. Sia come attività sociale di vicinato, ultimo baluardo contro un mondo ormai obbligatoriamente “a distanza” (“Siamo un servizio di prossimità – scrivono i farmacisti – a cui i cittadini e i pazienti si affidano ed è nostro compito rassicurarli con razionalità, professionalità e competenza scientifica, e oggi siamo chiamati a esserlo ancora di più”, 26 febbraio 2020, Il Resto del Carlino; “L’emergenza sanitaria ha fatto emergere, oggi più che mai, il ruolo della polizia locale come presidio di prossimità, elemento di vicinanza ai cittadini”, 27 marzo 2020, Il Giorno), sia soprattutto negli scenari immaginari del futuro dopo Covid, ricorrono molteplici sintagmi del tipo N + di prossimità: negozi di prossimità (“Ripartiamo dal turismo, dalle associazioni e, aggiungo, dai negozi di prossimità, che in questa emergenza stanno mostrando una volta di più la loro grande importanza”, 2 aprile 2020, La Nazione), progetti di prossimità (“L’epidemia ci farà riscoprire le raccolte di denaro, che troveranno mercato nell’equity e nei progetti di prossimità”, 23 marzo 2020, Corriere della sera), o anche sanità di prossimità (“L’emergenza ci ha fatto capire che c’è bisogno di una sanità di prossimità non più riconducibile solo al grande ospedale”, 31 marzo 2020, Corriere della sera), turismo di prossimità (“L'epidemia farà chiudere molti alberghi e la ripartenza sarà con un turismo di prossimità”, 3 aprile 2020, Corriere della sera) ecc.

Resta infine da sottolineare come l’appello al mantenimento delle distanze spaziali vada spesso di pari passo con la sottolineatura del mantenimento della vicinanza emozionale. Oltre a titoli di giornale come Uniti nella distanza (6 marzo 2020, Il Sole 24 ore) o Stiamoci vicini tenendoci lontani (4 marzo 2020, Il Foglio), l’associazione “distanza fisica – vicinanza affettiva” costituisce anche una costante del discorso politico europeo nell’emergenza Covid-19. Ecco quindi Giuseppe Conte concludere il suo discorso alla nazione dell’11 marzo con “Rimaniamo distanti oggi per abbracciarci con più calore, per correre più veloci domani”, cui corrisponde pochi giorni dopo (il 18 marzo) l’appello della cancelliera tedesca Angela Merkel: Al momento attuale solo la distanza è espressione di sollecitudine (“Im Moment ist nur Abstand Ausdruck von Fürsorge”).

 

  

Parole nel turbine vasto, di Daniela Pietrini

 

1. Il mutamento (linguistico) del coronavirus (link)

2. L’Europa e la pandemia: parole di presidenti a confronto (link)

 

 

 

 


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