«Io sono in quanto sono per altri», sosteneva Emmanuel Lévinas: un precetto etico che dovrebbe spingere l’individuo a definirsi e a impegnarsi all’interno di una rete di relazioni sociali caratterizzate da attitudini reciproche solidali. D’altra parte, secondo Zygmunt Bauman – che illustra un’altra logica, dominante, anfibia e dagli sviluppi non scontati – «le spinte odierne non tendono all’autosegregazione e al ritiro dal mondo» e «la liberazione dell’individuo dalla fitta rete di fedeltà e obblighi» ridefinisce «il mondo esterno come contenitore immenso di infinite possibilità e opportunità che si possono vincere o perdere, apprezzare o deprecare, a seconda delle abilità, dell’ingegno e dello sforzo individuali» (L’arte della vita, Editori Laterza, Roma-Bari 2008, p. 139). Insomma, siamo tutti in lizza, a combattere per la propria affermazione: cardine e faro, quest’ultima, se non obiettivo predominante, dell’esistenza. E se il combattimento si fa duro e l’autostima viene legata alla prestazione, al risultato e al successo, ansia, angoscia, frustrazione e depressione sono dietro l’angolo. In mezzo agli altri, dagli altri rischiamo di essere sommersi. Oscilliamo tra spinte centripete e spinte centrifughe. Anoressia e bulimia. Si moltiplicano le tentazioni e i tentativi di fuga, nascosti, camuffati, vissuti con colpa. Va be’, ma sarà sempre tutta tragedia? Non sarà lecito staccare almeno ogni tanto dal frastuono e dall’intruppamento nella compresenza forzata, reale (al lavoro, in mezzo agli altri, pungolati dagli altri, in ritardo rispetto agli altri, governati dagli altri; e poi al lavoro e al lavoro ancora, sicuro e insicuro, regolare o irregolare, a tempo indeterminato o determinato, flessibilissimo, nero…) o virtuale (l’esserci sempre, per tutti, narcisisticamente esposti ma quasi obbligati all’interazione continua entro le milizie di social network come Facebook)?
Immagine: Totò. Crediti: fotogramma tratto dal film Totò e le donne del 1952.