Chissà se Pablo Picasso, quando nel 1948 si trasferì nel villaggio provenzale di Vallauris (attrattovi, oltre che dalla bellezza dei luoghi, dalla fama delle sue vetrerie artigianali) era consapevole di condividere con i nuovi concittadini una remota origine: Pablo Ruiz, assumendo come nome d'arte quello della madre, aveva recuperato in un certo qual modo la memoria delle proprie radici liguri, risalenti al Settecento e all'allora fiorente comunità genovese di Málaga.

Ma «genovesi» si qualificano persino oggi anche gli abitanti di quel piccolo borgo, popolato come tanti altri della zona, alla fine del Quattrocento, da coloni provenienti dalla Riviera di Ponente. I «figoni», mangiatori di fichi per mancanza d'altro, erano a quei tempi i diseredati che, in una fase di torbidi politici e di crisi economica, prendevano spesso la via dell'esilio: verso Genova stessa, dove la pubblicistica locale parlava con una certa preoccupazione di quei gruppi di irregolari; verso la Corsica, dove il governo della Repubblica di San Giorgio li confinava volentieri; verso la Liguria Montana, dove il nomignolo designa ancora oggi, significativamente, gli abitanti della fascia costiera.

Alle spalle di Cannes e Saint-Tropez

Altri «figoni» accettavano invece le condizioni di favore proposte loro da feudatari e signorie ecclesiastiche provenzali, per andare a ripopolare villaggi abbandonati in seguito alle stragi e alle epidemie del secolo precedente, quando erano infuriati i conflitti dinastici per il possesso della regione. Almeno una ventina dì località alle spalle di Cannes e di Saint-Tropez (a sua volta «rifondata» da liguri) furono così la meta volontaria di decine di famiglie provenienti soprattutto dalle zone rurali intorno ad Oneglia e ad Albenga, che vi importarono le loro doti di coltivatori e di artigiani, ma anche la loro lingua: ancora a metà Seicento l'umanista Henri de Peiresc, riferendosi soprattutto all'attuale dipartimento del Var, parla così del «figon» come di un idioma altrettanto diffusovi del provenzale, e dei villaggi «in cui si sono conservate ambedue le lingue, sia il genovese corrotto che noi chiamiamo figon, sia il naturale volgare provenzale, con un frequente mescolamento di locuzioni dell’una e dell’altra».

Un lento processo di integrazione favorì tuttavia la progressiva perdita di questa parlata, che alla fine del Settecento, secondo l’erudito J.P. Papon, autore di un Voyage litteraire de Provence (1780) veniva considerata «una specie di arabo» e risultava praticata in quattro sole località: Vallauris appunto, con la vicina Biot, e Mons ed Escragnolles sull'altopiano di Grasse.

I signori Henry e Dulbecco

A Biot (località recentemente salita agli onori della cronaca per la devastante alluvione che ha colpito la Costa Azzurra) il dialetto ligure si estinse del tutto verso il 1910, anche se i cognomi più diffusi tradiscono ancora la loro origine: attraverso la documentazione storica è anzi possibile documentare il processo di adeguamento morfologico di forme come Aurigou, divenuto progressivamente Anric e poi Henry, o di Dourbequou (che è il Dulbecco ancora frequente nell’Imperiese) passato a Durbé e Durbec.

A Mons, pittoresco e isolato centro montano, il dialetto ligure sopravvisse addirittura fin verso il 1950, quando il linguista francese Paul Roux ne raccolse le ultime vestigia dalla bocca di alcuni anziani che ricordavano, più che utilizzarle abitualmente, una serie di espressioni dell’antica parlata.

Un homou aveva doui fanti

Le rare testimonianze scritte, a loro volta, riguardano quasi esclusivamente il dialetto di Mons; qui, all’inizio dell’Ottocento, nel quadro delle iniziative del governo napoleonico di raccolta di informazioni sui dialetti della Francia, realizzate, curiosamente, allo scopo di scoraggiarne l’uso, fu redatta ad esempio una versione della Parabola del Figliol Prodigo:

Un homou aveva doui fanti. Dounde rou chu jouve diche à so par: Pa, dai mé ce qui mé po revegnir drou vostrou ben_,_ et rou par gué dé rou partajou drou so ben. Doui di apressou rou chu jouve de chi doui fanti, aguendou rejounchou toutou ce que l’avéva, ou sé n’andà ente un payse straniou força longui, ounde scouroubrià tutou rou so ben en foulie et en débaucho. Quandou l’avete tutou chamenava ou vignite una gran famina ente essou payse, et ou coumença à caïr entra misera. Ou se n’andà douca et s’astaquà à rou servijou d’un habitante d’essou payse, qui rou mandà à ra soua granega dra campagna per gué gardar ri porqui…

Circa un secolo dopo, sempre a Mons, una singolare figura di poeta-contadino, Rebuffel Pons, si dilettò a scrivere qualche manciata di versi non precisamente memorabili.

Tra storia e memoria

Sulla base di questa scarna documentazione, Fiorenzo Toso, dialettologo specialista dell'area ligure e dei dialetti «esportati» al di fuori della regione, ha compiuto un lavoro di ricerca che, prendendo le mosse da un'attenta ricostruzione degli avvenimenti storici, si è incentrato sulla descrizione di quella che fu per lungo tempo, dal punto di vista geografico, la varietà italoromanza parlata più a occidente: il suo volume Le parlate liguri della Provenza. Il dialetto figun tra storia e memoria (edizioni Philobiblon, Ventimiglia, 2014, pp. 239) è l’unica monografia dedicata a questo singolare e poco noto episodio.

La puntuale disamina dei materiali disponibili ha consentito a Toso, anzitutto, di individuare con precisione l'area d'origine dei coloni quattrocenteschi, spostandola più a oriente di quanto abitualmente si riteneva, e di trarre alcune conclusioni interessanti sulla storia linguistica della Liguria di Ponente in età tardo medievale, di cui le superstiti testimonianze del dialetto «figon» hanno rappresentato una preziosa testimonianza.

La “morte” delle lingue nelle isole alloglotte

Al di là di ciò, del resto, questa ricerca assume rilievo anche nella prospettiva della sociolinguistica storica: la lunga durata del dialetto «figon» appare infatti legata a fattori molteplici e diversificati (l'isolamento di Mons, da una parte, il mantenimento di relazioni commerciali tra Biot e la Liguria, dall'altra), fornendo spunti interessanti per la riflessione sui processi di obsolescenza e «morte» delle lingue parlate nelle isole alloglotte.

La pressione congiunta del francese e dei locali dialetti provenzali provocò infatti fenomeni di sostituzione che nel giro dell'ultimo secolo hanno cancellato quasi ogni traccia dell'antica presenza linguistica, anche se permane singolarmente tenace la memoria storica delle origini di questi «genovesi» di Provenza: nautres sian Ginouvès (noi siamo genovesi), si sentì dire a Mons, in dialetto provenzale, il dialettologo Paul Roux, e ancora negli anni Settanta, un sacerdote savonese capitato a Biot per assistere a una tappa del Tour de France venne caldamente festeggiato dalla gente del posto.

Un libro per l'antica parlata

Aneddoti di questo tipo si associano nel libro di Toso alla rigorosa descrizione delle strutture della parlata, alla trascrizione completa di tutte le testimonianze scritte del dialetto «figon» e a un «tesoretto» di 670 voci che costituisce il vocabolario completo, in base alla documentazione superstite, della parlata: anche da esempi lessicali come arranquar ‘strappare’, chamar ‘chiamare’, chour ‘fiore’, chourtir ‘uscire’, dirnar ‘mangiare’, enchir ‘riempire’, faoudir ‘grembiule’, graffignar ‘graffiare’, lavèsou ‘pentola’ persigou ‘pesca’, portougalou ‘arancia’, souchar ‘soffiare’, emerge bene il carattere inequivocabilmente ligure di una parlata che nelle sue ultime fasi, tuttavia, appariva fortemente interferita col provenzale e col francese soprattutto nell’ambito della terminologia agricola e del linguaggio quotidiano e familiare: voci come blessura ‘ferita’, bounhur ‘gioia’, meletta ‘frittata’ (da omelette), lougissou ‘albergo’ sono indicative di come, verso la fine della loro esistenza, le parlate liguri della Provenza andassero necessariamente aprendosi all’influsso della lingua di maggiore prestigio.

Il libro ha quindi il pregio di fornire un panorama completo di questa antica parlata, indagata in maniera capillare e sistematica, e una serie di indicazioni metodologiche che, prendendo spunto da una vicenda poco nota e per molti aspetti affascinante, offrono di essa una lettura al tempo stesso piacevole e istruttiva.

Bibliografia

·         Roux, Paul, À propos du moussenc ou figoun, in «Annales Universitatis Saraviensis», 6 (1957), pp. 589-594.

·         Roux, Paul, Parler monégasque et «Moussenc», in «Actes du IIIme Colloque de langues dialectales», Monaco, Académie des Langues Dialectales, 1978, pp. 89-98.

·         Sénéquier, Paul, Les patois de Biot, Vallauris, Mons et Escragnolles, in «Revue de linguistique et de philologie comparée», 13 (1880), pp. 308-314.

·         Toso, Fiorenzo, Il dialetto figun della Provenza, in «La France Latine. Revue d’Études d’oc», n.s., 141 (2005), pp. 31-103.

·         Toso, Fiorenzo, Linguistica di aree laterali ed estreme. Contatto, interferenza, colonie linguistiche e «isole» culturali nel Mediterraneo occidentale, Recco – Udine, Le Mani, 2008.

·         Toso, Fiorenzo, Per uno studio del lessico del dialetto figun della Provenza: glossario dai testi, in «Intemelion. Cultura e Territorio», 17 (2011), pp. 103-135.

·         Toso, Fiorenzo, Le parlate liguri della Provenza. Il dialetto figun tra storia e memoria (edizioni Philobiblon, Ventimiglia, 2014.

Jean-Claude Durbec

Immagine: Coltivazioni di lavanda in Vaucluse

Crediti immagine: Alessandro Vecchi [CC BY-SA 3.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)]

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