Un filone rilevante della narrativa italiana degli ultimi decenni mette in primo piano personaggi che mostrano un modo di stare al mondo marcatamente non convenzionale, riflesso di un’attitudine a percezioni e ragionamenti non in linea con la cosiddetta normalità. Se il romanzo di impianto naturalista, ancora molto praticato in pieno Novecento, ha come oggetto privilegiato di osservazione le forme della marginalità sociale, a partire dagli anni Sessanta prendono piede narrazioni incentrate sulla rappresentazione della marginalità mentale, secondo modalità profondamente rinnovate rispetto alla narrativa psicologica di primo Novecento.
A differenza del tipico romanzo neorealista, che adotta un narratore esterno, il genere di cui si discute prevede sempre che la voce narrante sia quella del protagonista. In luogo del racconto in terza persona, magari condotto separando molto nettamente, anche dal punto di vista della lingua, il piano del narrato da quello del parlato dei personaggi, si ha il fluire di un monologo in cui il confine tra percezione del narratore e mondo esterno, e in definitiva tra fantasia e realtà, viene sistematicamente messo in crisi. Lo stile adottato prevede in genere procedimenti di avvicinamento ad un’oralità volutamente “povera”; inutile dire che si tratta di una consapevole strategia estetica, che presuppone un impegno formale non minore di quello necessario per dar vita ad una prosa classicamente impostata.
Questa nuova forma di narrativa, antitradizionale ma estranea alle pratiche dell’avanguardia, dopo aver trovato il suo incunabolo in Notizie degli scavi di Franco Lucentini (1964) – in cui peraltro le potenzialità del genere vengono sfruttate solo in parte – si manifesta compiutamente a partire da Comiche (1971), primo libro di Gianni Celati, autore destinato ad assumere un’influenza decisiva su generazioni di romanzieri (da Rossana Campo a Paolo Colagrande, da Paolo Nori ad Ugo Cornia). Tra i principali esponenti c’è Ermanno Cavazzoni, attivo da trent’anni (nel 1987 esordisce con Il poema dei lunatici, da cui Federico Fellini trarrà il suo ultimo film, La voce della luna), che raggiunge con Storia naturale dei giganti (uscito per Guanda nel 2007) l’esito forse più convincente del percorso narrativo non solo suo personale, ma dell’intera controepopea dei marginali.
Un Quijote postmoderno
Il protagonista del romanzo è uno studioso isolato e balzano, che col procedere del testo palesa gradualmente al lettore la sua visione del mondo, allo stesso tempo allucinata e rigorosissima. Esperto di giganti, di cui appunto sta allestendo una monumentale storia naturale, ha un’approfondita conoscenza della letteratura cavalleresca che, allo stesso modo di Don Quijote, interpreta come racconto veridico di fatti realmente accaduti. A differenza dell’antieroe di Cervantes, però, l’anonimo gigantologo esaurisce tutta la carica ideale tratta dalle letture nel recinto della mente: non gira il mondo alla ricerca di imprese da compiere, ma rimane confinato nella propria fantasia ad elucubrare. I tempi sono troppo cambiati: oggi nessuna avventura è possibile, qualsiasi tentativo di vivere un’esperienza eroica sarebbe semplicemente privo di senso.
I poemi cavallereschi vengono studiati per tratteggiare un profilo il più completo possibile della figura del gigante, che dopo aver proliferato per circa un secolo, alla fine del Cinquecento tende ad estinguersi. Le cause di tale catastrofico fenomeno vengono rintracciate nella debolezza di alcuni aspetti del modo di vivere di una razza che si rivela molto più fragile di quanto a prima vista si possa immaginare. Il narratore analizza con ineccepibile rigore tali aspetti (soffermandosi a lungo, per esempio, sulle difficoltà della vita sessuale, dovute in particolare alla natura forastica delle gigantesse), in pagine che offrono trovate tra le più esilaranti della narrativa italiana contemporanea. Il lettore rimane talmente catturato dalla sua logica folle da essere invogliato a seguirlo fin nelle ipotesi più ardite; come quando la constatazione della misteriosa ricomparsa dei giganti (ben «mille e uno») in un poema del 1643, cioè «Quando tutto era finito da un pezzo e i giganti come razza vivente e prolifica hanno cessato di esistere» (p. 193), innesca una lunga serie di riflessioni che portano ad accusare il poeta (Piero de’ Bardi) non di aver raccontato una storia inventata, ma solo di aver omesso l’interpretazione più verosimile: «Bisogna che spieghi, e che dica che molto probabilmente si tratta di morti risorti. Di giganti morti e risorti per poco» (p. 195).
Oggettivo e soggettivo
Uno dei meccanismi fondamentali della comicità, precisamente individuato già da Henri Bergson, è costituito dalla compresenza di istanze opposte che portano il personaggio a tentare un’impossibile conciliazione: è il suo dibattersi inutilmente per tenere insieme ciò che incompatibile a suscitare il riso. Storia naturale dei giganti si presta alla perfezione ad esemplificare tale dinamica: il narratore appare costantemente impegnato a perseguire razionalmente un obiettivo, per poi essere spinto da pulsioni inconsce nella direzione contraria. Il rigore da scienziato della gigantologia con il quale affronta ogni discorso è sin da subito messo in crisi dagli invadenti pensieri che riguardano la sua vita personale (ad incominciare dall’amore impossibile per la splendida e insensibile Monica Guastavillani).
Il costante tracimare della soggettività più incontrollata in quello che dovrebbe essere il regno della pura oggettività fa venire in mente un passo della Mitosi di Italo Calvino, lo splendido racconto di Ti con zero in cui Qfwfq si confronta consapevolmente con lo stesso problema (fino all’ammissione dell’impossibilità di assumere una posizione assolutamente distaccata: «come succede quando si dice oggettivamente che poi dài e dài e finisci sempre per dare nel soggettivo»). Sarà inutile specificare che, di là dall’innegabile matrice ludica, sia il testo di Calvino sia quello di Cavazzoni si confrontano con problemi gnoseologici che il travestimento scanzonato non deve portare a sottovalutare.
Lo studioso dei giganti è dominato da desideri sempre frustrati che gli causano un profondo malessere, a cui cerca di reagire con gli strumenti dell’analisi scientifica: il coinvolgimento emotivo dovrebbe essere tenuto a bada, nelle intenzioni, da un’impostazione raziocinante che si applica a qualsiasi aspetto dell’esistenza, visto come fenomeno da esaminare con metodo. Per esempio, la constatazione che ci sono tante belle ragazze in giro (ciò che acuisce il senso di solitudine di chi le guarda essendo escluso dall’esperienza amorosa) fa ipotizzare l’istituzione di un «ufficio che le distribuisse», soluzione che appare molto razionale: «altrimenti si hanno fenomeni di accaparramento: io vedo certi esseri insulsi che le monopolizzano, per via che hanno ad esempio la moto» (p. 41). Oppure la presa di coscienza del fatto che Monica frequenta un altro uomo, nella sua ineluttabilità, viene espressa attraverso un richiamo all’entropia che domina l’universo (in un lungo passo di cui si può citare solo l’inizio): «non c’è niente da fare , su questo pianeta dagli usi e costumi liberali , dove le cose scappano via in tanti piccoli vortici nati per caso , cosicché non posso dire niente, interferire con il grande moto degli astri e di tutto lo sciame delle sue infinite molecole, neutrini eccetera, i miliardi di miliardi di agglomerati rocciosi o liquidi o di gas caldo che gravitano» (p. 148).
È come se il personaggio portasse occhiali con lenti che appiattiscono la visione, inibendo qualsiasi percezione della prospettiva: il piccolo ambiente provinciale in cui in realtà si muove e il grande mondo della cultura gli appaiono posti sullo stesso piano, come si vede ad esempio nel ricordo di un amico scomparso, tale Amedeo Ridolfi, un «filosofo [che] avrebbe potuto dire ancora molto», e di cui si spera possano essere pubblicate le «opere orali, nate dalle riflessioni dentro la botte, che non sono meno di quelle di Heidegger, però più concise» (pp. 98-99).
Fantastico e quotidiano
L’interesse ossessivo per il mondo magico dei giganti manifestato dal narratore si spiega proprio con l’esigenza – che non ammetterebbe mai ma che suo malgrado lascia trasparire in continuazione – di evadere dalla disadorna vita di ogni giorno. Fantastico e quotidiano si scontrano in tutto il romanzo, dato che convivono non pacificamente nella testa del protagonista: lo si vede bene da un lato nei suoi tentativi di trasfigurare la realtà attraverso il ricorso ad un immaginario iperletterario, dall’altro nell’incapacità di leggere le imprese cavalleresche se non alla luce delle limitate esperienze di italiano medio del Duemila.
Per quanto riguarda il primo meccanismo, basti vedere come viene rievocata l’epifania della donna amata: «Apparsa una settimana fa, 17 febbraio, come un fenomeno d’approssimazione all’equinozio, da cui vengono anche le fate; le quali possono avere diciannove anni, come lei ha, o qualunque altra età, ma per chi le guarda l’età è sempre quella» (p. 69). Il fenomeno speculare si coglie facilmente in tante attualizzazioni molto spoetizzanti di episodi letti nei poemi: «senza che si valorizzi la specificità di ciascuno, ad esempio dei pigmei, dei negri o dei monocoli , creando così non un vantaggio ma un gap tecnologico» (pp. 33-34); «Balisardo [...] prende in appalto i lavori per la fata Morgana» (p. 77); «un paladino defunge, o almeno si ospedalizza» (p. 160).
Il combattimento tra i sogni poetici e la realtà prosaica non avviene ad armi pari: la più mediocre quotidianità è destinata fatalmente a vincere, e ogni vagheggiato locus amoenus finirà con l’essere invaso e irrimediabilmente inquinato da presenze triviali: «Monica se ne stava intanto innocente e esile, circonfusa da un nimbo, se così si può dire, come le ninfe Oreadi addormentate alle fontane del monte Ida, come le Driadi, le Amarillidi, che nessuno più conosce, il sacro bosco di Elicona, la fonte Castalia , la grotta Coricia, neanche tu Barbieri ne sai niente, non parliamo di Mauri, di Ezio Cadoppi, di Gianluigi, o di questo Ermes che è emerso, chissà chi è?, ma che sarà un ignorante, dedito solo alla pizza e alla pizzeria» (p. 180).
Aulico e colloquiale
Dal punto di vista linguistico, si registra una dialettica, pienamente coerente con quanto fin qui notato, tra un registro aulico e uno colloquiale, con l’inevitabile prevalenza, di contro alle velleità del narratore, del secondo. Dalle sue letture, il gigantologo ha ricavato soprattutto una buona riserva di lessico eletto, che adopera più o meno a proposito: ardimentoso, fugace, fumigante, indi, satollo, sforzamenti, usbergo, vieppiù, villania, ecc. D’altro canto si hanno frequenti realizzazioni di moduli microsintattici propri del parlato, come le dislocazioni a sinistra e a destra: «Sembra [...] che Mambrino quell’elmo l’avesse fatto affatare» (p. 152); «lo preferiscono vivo il maestro» (p. 163); il che polivalente: «incomincia ad uscire del marcio che uno schifo tale non si era mai visto» (p. 210); il tema sospeso: «anche restare zitella si vede che non aveva la vocazione» (p. 39).
La costruzione dei periodi, mediamente molto lunghi, riflette la medesima ambivalenza: se da un lato sono frequenti le strutture complesse, incentrate su modalità tipiche dei discorsi argomentativi (come ad esempio i numerosissimi incisi, spesso costituiti da porzioni testuali di notevole ampiezza), dall’altro il discorso può scivolare facilmente nell’allineamento di coordinate non legate da connettivi, come sempre avviene nelle riproduzioni del parlato. Lo stesso si può dire anche dell’interpunzione, settore in cui si oscilla in ogni pagina tra la funzione logico-sintattica e quella prosodica; per citare due fenomeni concreti, ad un intensissimo impiego del punto e virgola si contrappone il ricorrente inserimento della virgola tra un soggetto espanso e predicato: «Chi ha perplessità sulla condotta dei giganti in guerra, ha ragione» (p. 45).
Non capita spesso che un romanzo sappia coniugare il piacere della lettura (offrendo dalla prima all’ultima pagina, semplicemente, un grande divertimento) e un'intelligente rappresentazione del disagio esistenziale; il tutto – e lo si sottolinea volentieri, in tempi in cui ciò viene generalmente demonizzato – grazie all’attivazione della capacità della letteratura di rigenerarsi dal proprio stesso organismo. A chi lamenta un inarrestabile declino della narrativa italiana, e a chi ritiene che l’unica via di salvezza sia confrontarsi coi temi di più stretta attualità, la lettura di Storia naturale dei giganti è vivamente consigliata.
Ermanno Cavazzoni (Reggio Emilia 1947) è stato docente di Estetica e di Poetica e retorica presso l’Università di Bologna. È autore di numerosi romanzi e raccolte di racconti, tra cui Vite brevi di idioti (1994), Le tentazioni di Girolamo (1991), Guida agli animali fantastici (2011), La valle dei ladri (2014; già pubblicato in una versione diversa, col titolo Cirenaica, nel 1999), Gli eremiti del deserto (2016). Nel 2013 ha girato il documentario Vacanze al mare.
Immagine: Ermanno Cavazzoni
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