L’Ulisse di James Joyce, uscito nel 1922, non ha bisogno di presentazioni: si tratta di uno dei libri centrali della cultura novecentesca, un vero e proprio spartiacque: si potrebbe dire che esiste una letteratura prima dell’Ulisse, e una dopo, tale è la sua importanza. «Maledettissimo romanzaccione», come lo definì lo stesso Joyce (in italiano!), oggetto di autentica venerazione, a tal punto – caso unico al mondo – da avere una giornata dedicata, il Bloomsday il 16 giugno di ogni anno, l’opera vanta ben tre traduzioni in italiano – anzi a essere precisi quattro, quella a cura di Bona Flecchia del 1995 per la Shakespeare and Company, vero oggetto di culto tra i bibliofili, venne ritirata quasi subito dal mercato per questioni legali di diritto d’autore, ed è custodita in pochissime biblioteche.
Nonostante i tentativi di affidare la traduzione a uno scrittore (Pavese, Vittorini, Montale, Linati tra gli altri), risalenti già agli anni Venti e Trenta (si tenga anche conto che le prime traduzioni in francese e spagnolo escono proprio in quel periodo), il primo traduttore italiano dell’Ulisse è un laureato in letteratura inglese, traduttore di professione, dunque né un esperto in senso stretto né uno scrittore in proprio: il fiorentino Giulio de Angelis. La sua traduzione, frutto di un lavoro decennale, in collaborazione con studiosi del rango di Glauco Cambon, Carlo Izzo, Giorgio Melchiori, esce nel giugno 1960, con la solenne dicitura “Unica traduzione integrale autorizzata”. Questa traduzione è sempre stata molto apprezzata, ricordiamo tra gli altri l’ammirazione di Carmelo Bene, ma soltanto in questi ultimi anni, grazie alla scadenza dei diritti d’autore, la si può valutare nei termini di un’utile analisi contrastiva con altre traduzione pubblicate. Per l’esattezza la traduzione di Enrico Terrinoni (con Carlo Bigazzi) uscita per i tipi di Newton Compton nel 2012, e quella di Gianni Celati, apparsa nel 2013 per Einaudi. Da segnalare che Terrinoni si è formato alla scuola di Giorgio Melchiori, Celati a quella di Izzo, dunque c’è anche un’ideale continuità con la prima, pionieristica traduzione deangelisiana, che vantava la collaborazione dei due insigni studiosi.
Abbiamo così la versione di un traduttore editoriale (Giulio de Angelis), quella di due studiosi di profilo accademico (Terrinoni-Bigazzi), e infine, in una sorta di ideale climax, quella di un autore in proprio, con una lunga pratica di traduttore (Celati).
La traduzione più leale
La domanda si impone d’obbligo: qual è la traduzione migliore? O meglio, riformulando con maggiore precisione la domanda: qual è quella che si avvicina di più al “genio” linguistico di Joyce? Qual è la versione più leale al testo di partenza? (Si utilizza la nozione, elaborata da Franco Buffoni, di lealtà, meno ambigua e generica rispetto a quella di fedeltà.)
Primo assaggio, tra ciotole, bacili e tazze
Data la vastità dell’opera, si possono prendere in esame soltanto alcune parti significative: cominciamo con l’incipit. Ecco le prime, celebri frasi nell’originale: «Stately, plump Buck Mulligan came from the stairhead, bearing a bowl of lather on which a mirror and a razor lay crossed. A yellow dressinggown, ungirdled, was sustained gently behind him on the mild morning air». I due aggettivi iniziali vengono risolti con una coordinazione da de Angelis (Solenne e paffuto) e Celati (Imponente e grassoccio), mentre Terrinoni-Bigazzi scelgono un asindeto più aderente all’originale (Statuario, il pingue) con una lieve forzatura interpretativa nella resa in italiano (nell’originale si tratta di due aggettivi molto probabilmente attributivi, anche se Terrinoni-Bigazzi non escludono una sfumatura avverbiale di stately); in ogni caso si tratta di due aggettivi molto simili, anche per suono, all’originale; inoltre statuario ha il vantaggio di inglobare le due accezioni, di solennità e di imponenza. In de Angelis il verbo seguente è di registro standard (comparve), più colloquiale in Terrinoni-Bigazzi (spuntò), dilatato temporalmente in Celati (stava sbucando), quasi si trattasse di una teatrale comparsa sulla scena, con un registro sempre colloquiale. Sia dall’alto delle scale (de Angelis) sia in cima alle scale (Terrinoni-Bigazzi) mantengono il registro dell’originale, mentre la scelta della parola caposcala in Celati è un indubbio azzardo d’autore, un tecnicismo motivato dalla volontà di mantenere un termine composto come nell’originale (stairhead). Appartiene all’universo dei realia la parola, di uso comune, bowl: forse con ciotola Terrinoni-Bigazzi sono i traduttori che colgono meglio lo spirito, perché bacile (de Angelis) è troppo letterario (non solo, indica un contenitore largo e basso), al contrario tazza (Celati) risulta troppo generico. Il participio passato (crossed) che indica la posizione dello specchio e del rasoio viene sciolto con la locuzione in croce sia da de Angelis sia da Terrinoni-Bigazzi, mentre Celati risolve con un unico verbo italiano (s’incrociavano), ma l’accezione risulta letteraria, mentre il tono dell’originale è piuttosto medio. Tono soddisfatto da una soluzione mediana come erano posati (de Angelis), mentre giacevano (Terrinoni-Bigazzi) tende ad alzare il registro. Da notare che tutte e tre le traduzioni optano per la postposizione finale del soggetto. L’indeterminatezza originale viene mantenuta da de Angelis (Una vestaglia gialla), ma non da Terrinoni-Bigazzi (La vestaglia gialla) e Celati (La sua vestaglia gialla): in effetti in italiano risulta più efficace il ricorso alla determinazione. Il participio passato ungirdled, di stampo decisamente letterario, è tradotto con un altrettanto letterario discinta da de Angelis, priva di cintura da Celati, quasi nel tentativo di evidenziare la forma originale con il privativo (era già successo con stairhead); slacciata (Terrinoni-Bigazzi) risulta forse eccessivamente colloquiale. Sustained diventa coerentemente sorretta (de Angelis), sostenuta (Terrinoni-Bigazzi), mentre la soluzione sollevata (Celati) rischia di apparire quasi una semplificazione. Mild morning air diventa mite aria mattuina (de Angelis), mantenendo anche l’allitterazione dell’originale; aria delicata del mattino (Terrinoni-Bigazzi) va in una direzione di maggiore colloquialità, nella postposizione dell’aggettivo e nell'impiego della specificazione. In Celati l’attenuazione, attivata dall’aggettivo (mild), è ulteriormente ribadita dal ricorso al diminutivo: dolce arietta mattutina. Giusto? Sbagliato? Si tratta di un’interpretazione d’autore.
Secondo assaggio con diavolo e carrettiere blazesfemo
Passiamo brevemente a un altro celebre snodo: la conclusione con il monologo di Molly. Formalmente l’assenza di punteggiatura è rispettata da tutte e tre le versioni, mentre l'eliminazione dell'apostrofo con le rapide fusioni come hell (<he’ll), wed (<we’d), Ill (<I’ll) viene ricreata soltanto da Terrinoni-Bigazzi con forme analoghe quali lò detto, lanima, mà chiesto, laddove sia de Angelis sia Celati preferiscono mantenere le forme regolari. Dal punto di vista lessicale invece de Angelis tende a usare espressioni letterarie, aderenti alla tradizione (magari toscana, vista la provenienza del traduttore): farthing, moneta di scarso valore, diventa baiocco, a fronte del più usuale soldo di Terrinoni-Bigazzi e Celati. Questi ultimi, dunque, sembrano puntare soprattutto a un registro più basso, colloquiale, con approcci però diversi. Una per tutti si prenda l’espressione swearing blazes (“imprecare fortemente”, blazes ha valore avverbiale, equivale al colloquiale hell): de Angelis normalizza in mandando tutti al diavolo; Terrinoni-Bigazzi propongono una soluzione graficamente innovativa con bestemmiava blazesfemo (e non sfugga il richiamo all'amante di Molly, Blazes Boylan, in una sorta di lapsus amatorio, che gli altri traduttori non hanno colto); Celati “italianizza” con un’espressione come bestemmiando come un carrettiere. Come si vede, ogni traduttore asseconda una tendenza, un’idea di traduzione.
Una iper-lettura
Si può allora azzardare, pur nella brevità di questo contributo, una conclusione?
De Angelis sembra preferire soluzioni tendenzialmente letterarie, normalizzanti, a volte nel solco della grande tradizione toscana; Terrinoni-Bigazzi, da una parte, tengono fede alla sfida di una traduzione “democratica” come si è detto e scritto del loro lavoro, dunque accessibile al maggior numero possibile di lettori; dall’altra parte, non hanno timore di innovare, anche in modo piuttosto vistoso come si è visto (del resto Terrinoni è anche il traduttore di quell’autentico Everest letterario che è Finnegans Wake). Infine Celati, da scrittore in proprio, personalizza, piegando lo stile joyciano ai propri umori padani, talora perfino gaddiani: un esempio per tutti, il burro che sguillava (dialettalismo di origine bolognese a fronte dell’inglese medio sizzling, “che sfrigola”).
Ma l’impressione complessiva è che ognuna delle tre traduzioni sia fondamentale in quanto fornisce un proprio tassello interpretativo, diventando così parte di una sorta di iper-lettura, la più varia e completa possibile.
Perché anche questo è la traduzione: una lettura potenziata, elevata all’ennesima potenza. Ancor più necessaria se l'opera in questione è un caposaldo della letteratura mondiale. Un'opera da far tremare le vene e i polsi.