La radice dell’ombra

Se Fred Botting, citando Northrop Frye, riassorbiva il gotico nella vasta categoria del romance, giustificando la sua natura di «story of elsewhere» − lontana nel tempo e nello spazio −, ecco che la lingua di questo viaggio dell’ombra e nell’ombra non può che abbracciare l’idioma archetipico del dialetto, una voce che in Suttaterra (pp. 120, Tunué, 2017), il nuovo romanzo di Orazio Labbate, è ancora protagonista e pulsa in una direzione ben precisa: verbalizzare la materia. Ma «le parole impiegano diversi Aldilà per concretarsi». Tra scorie mariane e un cerchio di vita che gira come un orologio, tra i fumi metallici e un sonno chimico di memoria e assenza, una luce «ectoplasmatica» si posa su poche righe di una lettera, che rinnovano confuse sensazioni. Le cose «ammutolite» non sospirano, non parlano. Eppure «la nostra ombra è la sostanza più vera». Un’accezione instabile, anche se ormai troppo presente in questo Eden che brucia. Sembra quasi che il male sia un nulla fatto di carne e di sangue. E forse è ora di restituire a esso il suo linguaggio. Mentre dietro la schiena si moltiplica una «non-notte» che comunica con cielo e inferno, un disperato groviglio verbale si aggrappa a questa contorsione continua, che trasporta proprio una «materia per rebus e meccanismi». La cura stilistica non prevede solo deformazioni oniriche e virtuosismi dal sapore biblico-apocalittico («Santa era la carne», «Il sangue è la vita», «glossolalia della burrasca», «Questo è il mio Logos»), ma emerge una volontà espressiva al confine con il ritmo poetico nel riprodurre quasi il suono di questo tumulto interiore, basti pensare alla sequenza frequentissima di vibranti dedicate alla furia del vento – «lo scirocco [...] si alzò con rumore di uragano [...] arretrò [...] aumentò ancora fino a divenire un’assordante sirena» – e alle forme verbali onomatopeiche – «come se raschiasse via gli organismi che rilascia il mare sulle cose», «rimescolare l’impeto [...] un flusso imperscrutabile» – che ricreano oscure movenze. Poche tappe – “Viaggio verso la morta”, “La nave”, “Gela”, “Il castello della morta” – e una potenza fonica che trattiene la memoria del mito, come quella voce del vento nata da un battito d’ali d’uccello, perfettamente in linea con il topos classico del presagio. Le foglie, infatti, «gemono» mentre l’aria «sfrega» la loro superficie, come se stesse aspettando la scintilla di un fuoco, e sulla highway che immette verso la costa dell’Atlantico, ai lati del cruscotto della Pilato Mercedes di Giuseppe Buscemi – figlio di quel Razziddu del romanzo precedente Lo Scuru –, «la lettera vibra come un sudario inquieto», una “s” che, insieme a tante altre tracce dell’alfabeto, riconduce sempre al nucleo vivido del cuore. Un vero e proprio sottocodice di nefanda profezia guida il becchino nel suo viaggio – «un ciclo», come ogni corso vitale –, costellato di tempo epico e iper-specificazione spaziale: il luogo di finzione, pur lottando contro gli elementi di realtà, riesce a trovare nel regno crepuscolare di Suttaterra un «senso metafisico»: tutto, dalla suggestione biblica e sublime delle scelte formali alla prosa densa e cinematografica, è rispettoso di uno spettro che si fa lingua e delle parole altre, come quelle del Diario di Bernardino Renfield, Capitano, ritrovato a bordo della nave che condurrà Buscemi al Mediterraneo gotico di Gela. Ecco che nei sei paragrafi sembra dissolversi, proprio come un fantasma, il Verbo dell’Aldilà, che si carica di peccato originale e «firmamento nero», così come è il mare – area semantica centrale (anche nell’intreccio narrativo) del romanzo –, dove «cadono le anime che non superano la soglia». Che l’incubo sia il movente di eccesso diabolico non è dato, in realtà, sapere: il richiamo di Maria, l’amata defunta del becchino, si intreccia, infatti, a un’altra voce che risuona nel cosmo e si scaglia sul torace dell’uomo. Perché è «un recinto paradossale» che nasconde un segreto. E proprio Edgar Allan Poe diceva che non c’è maggiore peccato, maggior violazione di quella del cuore umano.

Fiamme e segno

«Non-morto, sono, e non-nato. [...] Qui sono giunto per il tuo peccato». Sembra che la strada percorsa da Buscemi sia un lungo tappeto di segni. Se la lingua è ombra, è anche vero che essa viene costantemente illuminata da una «elettricità» per nulla «precaria». Così, già a partire dal “Prologo”, si «accumulano» lampi improvvisi, fiamme che rincorrono il corpo di Maria – fiamme «nelle vene» –, «icone di luce», «coriandoli di brace» che insieme al cielo, in un climax ascendente, si fondono, di nuovo, al canto oscuro del vento, che è «scirocco» e allo stesso tempo «uragano», è «un’assordante sirena» nata per chiudersi in una «fiamma agghiacciata». Non è un caso che siano proprio i sensi, definiti dal Confessore «bambini randagi, neri, orrendi e contorti», a guidare la conversione «alla definitiva disperazione» di Buscemi», che poco prima di affrontare l’ultimo portale – il castello – riesce a percepire il suo corpo a partire dall’udito, anche se l’eco orrifica pronuncia una lingua che non fa alcun rumore. C’è qualcosa che tra i profumi della notte e del rame si consuma da troppo tempo: «l’odore di bruciato di quell’albero» – della Genesi, come è riportato nel diario di bordo – «si sente fino a qui». Ecco che il vento, allora, si trasforma nel veicolo perfetto di questo ricordo multiforme, proprio perché rilascia nell’atmosfera una scia chimica, ossidrica, «alterata ed elettrica», come quella che si respira nel “Luna Park del Bambino Gesù”. «Il tuo peccato non smetterà di riprodursi. Passato, presente e futuro». Una sentenza – quella del «tempo dell’uomo» – tuona e rimbomba come il cuore del protagonista, quando, di fronte a uno specchio, si accorge che la sua faccia è «guasta» e «l’amore che credeva di provare, pure». Fiamme ovunque per un battito che muore là dove inizia la vita. Il ventre – frammentato nelle immagini e nei dialoghi – chiude, infatti, il cerchio del viaggio di Buscemi e dell’esistenza stessa. Un uovo di luce artificiale, in quella «interiorità malferma», brilla a tratti. «L’uovo della pancia! Furono possenti i suoni dell’ultima parola. Poi si ammutolirono lasciando a mezz’aria una traccia affumicata». Luccica un coltello, e l’uomo cade in mare. Un cerchio nero si fonde nella sede vacante del cuore. E da lì, scende come un «boccone incandescente» nel corpo della terra.

Beatrice Cristalli