«Signori benpensanti – scriveva Fabrizio De André nella sua struggente Preghiera in gennaio –, spero non vi dispiaccia se Dio, nelle sue braccia, soffocherà il singhiozzo di quelle labbra smorte, che all’odio e all’ignoranza preferirono la morte».

Con questo epitaffio laconico, Faber salutò l’amico e collega Luigi Tenco, che aveva deciso di farla finita proprio nel cuore del Festival di Sanremo del 1967; gesto di estremo, tragico sberleffo nei confronti del pubblico e della giuria, capaci di sancire l’eliminazione della sua Ciao amore ciao. Tenco avrebbe compiuto 80 anni, in questi giorni.

Parole dolci ma aspre e sfidanti, quelle di De André, in linea con i temi della cosiddetta scuola genovese (Paoli, Bindi, Sentieri, Lauzi e, va da sé, Tenco), capace di rompere con la precedente tradizione musicale italiana in forza di una passionalità rivoluzionaria (in cui l’amore, sovente perduto, deflagra e scuote la coscienza), esprimendo un profondo disagio intellettuale e impegnandosi, esplicitamente o sotto traccia, in una continua denunzia politica e sociale.

I cantautori “genovesi”, di nascita o d’adozione (Luigi Tenco era d’origini piemontesi), ispirati dal jazz, dallo swing e dal folk d’oltreoceano, nonché dalla filosofia esistenzialista transalpina, inseriscono nella canzone italiana nuove sfumature ideologiche, letterarie e politiche; avviano così – mediante l’uso poliedrico e simbolico della parola – nuove sperimentazioni, col fine di denunziare l’ipocrisia della classe borghese dell’epoca, e si fanno voce dell’emarginazione delle classi meno abbienti. Scelte contenutistiche, pertanto, ma anche linguistiche caratterizzano i testi delle loro canzoni: le parole dei cantautori “genovesi”, mai stereotipate, puntano a far poesia e al contempo tentano di sfogliare il grande libro del mondo, a partire da una quotidianità vista, vissuta, ricreata in modo non convenzionale. Si scardinano i temi melodici, sovente zuccherosi e obsoleti, della tradizione canora dei primi decenni del Novecento, ancorata perlopiù al poetismo convenzionale condito di assonanze, troncamenti e rime baciate facili e rassicuranti. Si abbandona così l’omogeneità stilistica delle “canzonette”, per approdare in una dimensione sospesa tra l’aulico, magari riletto in chiave ironica o aggressiva, e il popolaresco.

Ora, Luigi Tenco, rappresentante di spicco dei nuovi cantautori della seconda metà degli anni Sessanta, entrò ben presto nella leggenda della musica leggera italiana, perché un colpo di pistola  ne spezzò anzitempo l’estro vivo e tormentato.

Ma chi era Luigi Tenco, nato nella provincia di Alessandria nel marzo del 1938 e divenuto, con gli anni, un’icona per i cantautori a lui succeduti, compresi quelli attuali? In che modo contribuì a rovesciare le abitudini melodiche del suo tempo?

Proveremo a delineare un breve ritratto dell’autore di Ciao amore ciao attraverso alcuni passaggi contenutistici, linguistici e stilistico-musicali.

Uno: la voce della tradizione popolare

«La musica popolare resta il modo migliore per esprimere i sentimenti in modo schietto; nella nostra musica folk c’è una vera ricchezza, che bisognerebbe inserire nel sound moderno, proprio come i neri han fatto col rhythm and blues» – così Tenco esponeva il proprio credo in un’intervista datata 4 gennaio del 1967, una sorta di summa del suo pensiero e testamento ideologico, a pochi giorni dal clamoroso suicidio. Il cantautore piemontese, infatti, mirava a sfruttare – quale base della propria arte – il patrimonio musical-popolare italiano (dal Trallallero alla Tarantella), imbevuto di un melting pot culturale di risonanze arabe, celtiche, africane e slave. A partire da una base tradizionale, poi, Tenco sperimentava con uno slancio innovativo adeguato ai fermenti del suo tempo, palesando una vena crepuscolare e inquieta.

Due: temi non convenzionali e reminiscenze letterarie

Come i colleghi “genovesi”, nei suoi testi Tenco spazia in territori non convenzionali, se rapportati con le scelte contenutistiche dei cantanti che lo hanno preceduto; sovente lo slancio amoroso si infrange nell’incomunicabilità (come in Un giorno dopo l’altro) o sfocia nella frustrazione di una vita che non decolla (Lontano lontano ne è un esempio); parimenti, il tormento amoroso lascia spazio a un’aspra denunzia sociale, politica o anticlericale (basti pensare al brano Cara maestra, che gli costò l’allontanamento dalla RAI per un biennio).

Ma c’è di più. Tenco puntava a ripristinare una canzone popolare che recuperasse un’identità tradizionale e nazionale: in questo aspetto si avvertono, ad esempio, le influenze di Cesare Pavese. Amore e tragedia, il tema del tempo come memoria storica e come consapevolezza esistenziale e, soprattutto, quello del sogno: dimensione onirica che, peraltro, avvicina la produzione tenchiana ai Canti orfici di Dino Campana, una sorta di fatale “zibaldone” dei sentimenti.

Tre: scelte linguistiche e variopinte strategie musicali

Penna raffinata e affilata, quella di Tenco, che si può ben avvicinare, per certi aspetti, all'ispirazione anarchica dell’amico Fabrizio De André; i sentimenti struggenti, raccontati col cipiglio di certi estremismi stilnovistici, sono autentici e diretti soprattutto nel lessico: vengono epurati i sofismi della tradizione melodica “sanremese” e viene inserita la dimensione colloquiale nel testo scritto, capace così di raggiungere un pubblico sempre più vasto.

Il registro colloquiale e popolare, attraversato spesso da un’intensa vis polemica o da un nichilismo dei sentimenti, è ben maneggiato da Tenco. In Angela c’è un rovesciamento della donna idealizzatae («Angela, Angela, quando t’ho detto che voglio andarmene volevo solo farti piangere»); nella Ballata della moda il lessico si fa familiare e onomatopeico («Antonio tra sé rideva, ahahah-ahaha, diceva me ne infischio della moda, io bevo solo quello che mi va»); in Ciao amore ciao il cantautore diventa un Don Chisciotte errante e senza speranza («non saper far niente in un mondo che sa tutto e non avere un soldo nemmeno per tornare»); nella Ballata dell’amore c’è un’introversione quasi crepuscolare («parlano di te anche troppo sovente, io per una volta non dirò niente»); il pessimismo cosmico raggiunge  vette notevoli rispettivamente in Un giorno dopo l’altrola vita se ne va e la speranza ormai è un’abitudine») e in Com’è difficilecom’è difficile veder finire tutti i miei sogni in un bicchier d’acqua»).

Lo slancio polemico, che sfocia a tratti nell'invettiva verbale, trova sfogo in altre canzoni; si fa denunzia politica dai toni aspri e beffardi in Cara maestraEgregio signor Sindaco, vorrei sapere come mai vinto non hai eppure non sei morto, ma al posto tuo è morta tanta gente»), empito rivoluzionario militante in Il mio regnoun regno con un soldato che cercava le streghe e voleva cacciarle a sassate»), oppure attacco all’ignoranza e al pressapochismo in Io sono unoIo sono un uomo che parla poco, ma nel mondo c’è tanta gente che pretende di farsi sentire e non ha niente da dire»).

Nelle scelte musicali, poi, si nota in Tenco una vocazione alla sperimentazione, che lo porta ad alternare generi tra loro molto diversi: sia sufficiente ricordare il folk strumentale francese, sospeso tra le melodie occitane e la black music, di Un giorno dopo l’altro; il rock scoppiettante di Vorrei sapere perché; il gospel di No, non è vero; il jazz di Triste sera oppure gli archi malinconici e soavi di Lontano lontano.

In conclusione, a ottant’anni dalla nascita, Luigi Tenco rappresenta ancora un punto di riferimento per la canzone d’autore, nonché una leggenda popolare avvolta nel mistero; artista schivo e imperscrutabile, che pur ha solcato il proscenio musicale italiano con grande ardore, lasciando ai colleghi che hanno preso il suo posto un’eredità notevole.

Daniele Scarampi

(Insegnante di lettere, esperto di didattica e di didattica dell'italiano)

Biblio-sitografia essenziale

  1. Daniele Scarampi, Cattedrali di luce nel cuore: le canzoni dei cantautori genovesi, tra aulico e popolaresco, su www.treccani.it/ scritto e parlato

  2. Pierfranco Bruni, Luigi Tenco e Cesare Pavese: tra linguaggio poetico e linguaggi delle canzoni d’autore, da cinquewnews.blogspot.it

  3. AA.VV, Tenco, il ragazzo che non credeva nella morte, da www.lacapannadelsilenzio.it

  4. Gianni Candellari, Luigi Tenco, da www.ondarock.it

  5. Paolo Talanca, Luigi Tenco, che ci insegnò ad amare senza retorica, da www.ilfattoquotidiano.it

  6. Alberto Vincenzoni, Luigi Tenco – Dino Campana: poeti allo specchio, Logus, 2013

  7. Lorenzo Coveri, Per una storia linguistica della canzone italiana, Novara, Interlinea, 1996

  8. Gianni Borgna, Storia della canzone italiana, Bari, Laterza, 1992

  9. Giuseppe Antonelli, Ma cosa vuoi che sia una canzone. Mezzo secolo di italiano cantato, Bologna, Il Mulino, 2010.

Immagine: Di Mjchael (Opera propria) [CC BY-SA 3.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)], attraverso Wikimedia Commons

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