Riconoscere le motivazioni alte

«Dimenticati di tutto quando scrivi. Fai attenzione a cosa vuoi dire con le parole». Ancora oggi, in tutti i miei “nuovi” diari, quel biglietto deve essere presente. Quasi fosse un amuleto, un segnale stradale. A volte penso che potrebbe essere anche un verso di preghiera. All’inizio non fu affatto facile interpretare. Mettere su due piani differenti l’atto della scrittura e l’intenzione di un messaggio che forse aveva a che fare con il destino mi sembrava una follia. Ma ero già andata oltre, come sempre. Non era detto che le due massime si escludessero. O che una venisse prima dell’altra, per forza. Non erano due momenti, bensì un’unica tensione verso qualcosa che esiste ma tocca a noi far vivere. Un tensione che si serve di un linguaggio – e non di una lingua femminile, come si evidenziava nella precedente puntata – e di tanto altro materiale emotivo e umano che sfiora il tempo e lo supera. Tanto torniamo sempre lì quando si apre davanti a noi lo spazio del foglio bianco, l’infinito regno pixel del blocco note sul telefono: in quel giorno Dio donò ad Adamo l’arte del nominare per far vivere e possedere il mondo. Così accade quando stendiamo un verso. Dimenticarsi di tutto significa allora concentrare l’attenzione sul tutto. E per tutto s’intende quello che sta prima della scrittura: l’importanza di chi siamo, anche e soprattutto attraverso quello che nominiamo.

Il punto zero della voce

«La poesia, come ormai è intesa sia dagli addetti ai lavori sia dai lettori, non più una poesia intimistica specifica degli affetti propri, singoli, ma è una espressione dell’anima che vola alta nel cielo sublime dei sentimenti universali». Michela Zanarella ricorda la difficoltà di circoscrivere un possibile spazio di vocabolario poetico al femminile: anche se decidessimo di rintracciare delle «costanti» nella scrittura, «analizzandone strumenti linguistici e stilistici», avremmo sì raggiunto – forse – un obiettivo, ma la motivazione umana, che è connessa al simbolo e alla nostra coscienza collettiva, ne risulterebbe – giustamente – esclusa. A quello ci pensano nuove realtà di indagine, che sfiorano il genere saggistico-autobiografico per parlare della poesia come una forma di esperienza e di testimonianza. Se la poesia non si può spiegare, se davvero stiamo vivendo una fase “di respiro” circa l’oggetto poetico e il suo indispensabile alfabeto, ecco che alcune voci femminili adottano, oltre al verso, strategie narrative più autentiche per metterci in contatto con quella sfera interiore che possediamo tutti, ma non sappiamo più governare. L’asse, pertanto, si sposta sempre di più verso un’idea viva del fare poetico, il nostro personalissimo strumento di conoscenza: «scrivere poesia è dare una forma alle cose senza nome, dire una verità, magari piccola, ma che sia nostra. E dirla come merita: nel modo più perfetto». Isabella Leardini, in Domare il drago, affronta il viaggio della poesia – «la via della ricerca» – in una dimensione corale e generativa, che, attraverso l’esperienza emotiva di una pluralità di voci, ricostituisce il punto zero della scrittura, «quando è ancora al suo stadio nascente e istintivo». L’osservazione è privilegiata, come l’autrice sottolinea, proprio perché in tutti quei sette (da dire alla poesia) pulsano le vite e i desideri di ragazzi e ragazze delle scuole superiori. Così il laboratorio diventa palestra, risoluzione, sfogo per le emozioni nascoste che da segno diventano respiro, verso. Non si può parlare di costanti, ma è interessante notare come, nell’esercizio “di scavo”, si possa riconoscere una diversa «inclinazione della parola» che coinvolge l’atto creativo delle studentesse: accanto a una spiccata attenzione alla brevitas, si riconoscono non solo «testi incentrati su una metafora principale» condotta fino alla fine o ripresa nella chiusa, ma anche un vero e proprio «sistema di immagini che spesso di rifà all’infanzia in modo perturbante e che rinuncia all’uso dei verbi». Il lessico, poi, «è piano e quotidiano», sempre contraddistinto da una corporeità che si fa «rappresentazione concreta dell’emotività». Nei ragazzi invece è riscontrabile un «mascheramento», che coinvolge tanto l’uso della terza persona quanto una scelta lessicale desueta. Anche il respiro tra le pause cambia: privilegiano infatti una «struttura narrativa, con un afflato epico o teatrale [...] utilizzando il ritmo come elemento portante». Ma oltre ciò che si vede, resta quello che si sente: la capacità – naturale – di entrare in contatto, se guidati, con il proprio elemento, che trova sempre una compiutezza nel verbo. Come diceva Pasolini, «alcune cose si vivono soltanto; o, se si dicono, si dicono in poesia».

Frequentare un tempio domestico

Accettare, accogliere, aspettare: si può insegnare a vivere la poesia? Anche nel breve saggio di Chandra Livia Candiani non c’è alcuna traccia di dogmatismo. Il silenzio è cosa viva intreccia il discorso poetico a quello mistico, offrendo una testimonianza di dolore e risoluzione universale. La parola, perciò, diventa «viva», controcorrente e nemica di questa nostra epoca che lascia troppo spazio alla «chiacchiera e alla didattica»: solamente la poesia, sostiene la Candiani, in quanto pellegrinaggio del sé, sa condurre «nel territorio del non so» e costringe all’intimità con l’ignoto, a una troppo breve relazione – necessaria – con il nostro corpo. Il respiro, anche in questo racconto di meditazione e spirito per la poesia, si configura come un punto di partenza per l’affermazione dentro di sé di quella «lingua cellulare» che sa parlare al corpo. Soprattutto che «sa fare». La lingua che si abita è il nostro stesso respiro, quella gestazione di attesa in cui si recuperano i pezzi e alla paura viene dato finalmente un contesto, una vivibilità. Pensare alla poesia come pratica quotidiana significa anche valorizzare il colore del negativo: si accoglie un verso – e lo si dona alla fine del percorso – per avere la libertà di «entrare e uscire, sostare sulla porta», senza essere inghiottiti dal caos. «Sentire con consapevolezza è sentire senza sospetto». Il consiglio è chiaro: per permettere a una motivazione di compiere il suo significato, la parola deve passare più tempo possibile nei bisogni primari. Per sentirla che poi se ne va, con qualcosa di materico e nostro tra gli spazi. Per creare una cosa nuova che comunica davvero.

Bibliografia e link utili

F. De Saussure, Corso di linguistica generale, trad. It. T. De Mauro, Roma-Bari, Laterza, 2011 (ed. or. Cours de linguistique générale, Lausanne-Paris, Payot, 1922).

I. Leardini, Domare il drago, Milano, Mondadori, 2018.

C. L. Candiani, Il silenzio è cosa viva. L’arte della meditazione, Torino, Einaudi, 2018.

Nuovi poeti italiani, vol. VI, a cura di Giovanna Rosadini, Torino, Einaudi, 2012.

A. Zorat, La poesia femminile italiana dagli anni settanta a oggi. Percorso di analisi testuale, 2009. La tesi di dottorato è scaricabile online al seguente link: https://www.openstarts.units.it/bitstream/10077/3771/4/Zorat_phd.pdf.

Cantare la verità. Parole di donne nella poesia contemporanea -  La prima puntata