La parola poetica ha sin dalle sue origini una natura opaca e misteriosa sul piano del significato, perché preferisce un uso della lingua non sempre funzionale ai fini comunicativi, ma più incline ad un’operazione strettamente artistica e musicale, tendendo al risultato estetico attraverso una particolare attenzione per il suono, il ritmo e la lunghezza del verso. Nell’inevitabile e progressivo processo di contaminazione tra poesia e testo di canzone, questa particolare sfaccettatura che caratterizza la poesia dagli albori ha attecchito nella canzone d’autore italiana soprattutto nel corso degli anni Settanta del Novecento, come sottolinea Giuseppe Antonelli in Ma cosa vuoi che sia una canzone (il Mulino, 2010). A questo proposito, l’opera di Francesco De Gregori costituisce un esempio emblematico sul fronte della canzone. Tutta la produzione del “Principe” –soprannome assegnatogli dall’amico Lucio Dalla – è caratterizzata da un uso accorto e mai ridondante di figure retoriche di significato proprie della “poesia alta”. Metafore, metonimie, eufemismi e ossimori sono incasellati ad arte nei testi, costituendo un mosaico di immagini e colori sfumati, mai banali e mai espliciti. In una strofa di Atlantide, sesta traccia dell’album Buffalo Bill (RCA Italiana, 1976), si possono riconoscere fin da subito elementi che avvicinano il De Gregori autore ai migliori poeti della tradizione ermetica italiana: «Lui adesso vive nel terzo raggio / dove ha imparato a non fare più domande del tipo: / “Conoscete per caso una ragazza di Roma / la cui faccia ricorda il crollo di una diga?” / Io la incontrai un giorno ed imparai il suo nome / ma mi portò lontano il vizio dell'amore». In nessuna parte del testo è spiegato dall’autore nel dettaglio cosa sia il “terzo raggio” (probabilmente si fa riferimento al terzo raggio teosofico proprio dei pensatori e dei sapienti) e nemmeno cosa si intendesse esattamente nel paragonare la misteriosa ragazza al “crollo di una diga”, ma ciò che conta ai fini narrativi, ovvero la descrizione dell’insorgere di un nuovo amore, è ben chiaro a chi ascolta o legge il testo, ed è innegabile che le immagini, seppur oscure e opache, sono fortemente suggestive, il che conferma la validità della strategia adottata dall’autore.

L'ermetismo e De Gregori

Per quanto riguarda i giochi di suono, bisogna sottolineare il ruolo ricoperto dalle allitterazioni, come quella delle dentali al secondo verso e della “c” e della “r” al terzo. Sul fronte della poesia, costituisce un valido corrispettivo la fase ermetica della poesia di Salvatore Quasimodo, Premio Nobel per la Letteratura nel 1959. Le poesie composte da Quasimodo tra il 1930 e il 1942 sono  opache sul piano del significato e vedono preponderanti accostamenti di parole assolutamente inusuali ed inaspettati, concedendo così al lettore una particolare libertà nell’interpretare o riconoscere il significato recondito dei versi. La poesia Io mi cresco un male, pubblicata in Oboe sommerso (Edizioni di circoli, 1932), offre una valida testimonianza: «Grato respiro una radice / esprime d'albero corrotto: / io mi cresco un male / da vivo che a mutare / ne soffre anche la carne». Sono innumerevoli le strade che il lettore potrebbe percorrere nella comprensione del testo, alcune anche in netta contrapposizione tra loro. L’iperbato che caratterizza i primi due versi complica consapevolmente la lettura e l’immediata comprensione, suggerendo canali interpretativi alternativi a quelli che si possono percorrere con l’ausilio della mera analisi del periodo. Questo uso della lingua è senza dubbio uno degli esiti più interessanti della poesia ermetica, tesa a una provocazione costante offerta come sfida gentile al lettore, che è volutamente messo in crisi dall’autore e spronato a partecipare alla creazione poetica, spinto a interpretare con discreta libertà alcune sfaccettature di significato del testo, esaltate da un uso accorto e musicale degli strumenti offerti dalla lingua.

La linearità sintattica in Tenco

A questa scuola di pensiero in materia di poesia e di testo musicale si contrappone un’idea di narrazione che ha a lungo caratterizzato la canzone d’autore italiana nel corso del secondo Novecento. Autori come Pierangelo Bertoli, Luigi Tenco e Lucio Dalla hanno realizzato attraverso la canzone un dialogo diretto con il pubblico, cercando di adoperare formule chiare, semplici e difficilmente banali, non rinunciando, dunque, all’uso di parole pregne di significato e talvolta ad accostamenti inediti sia dal punto di vista fonetico, sia da quello semantico. Questo, a mio avviso, non svilisce in alcun modo la dignità “poetica” dei testi musicali in questione, ma, al contrario, arricchisce il valore dell’operazione culturale realizzata dall’autore, capace di esprimere concetti complessi attraverso costrutti accessibili a tutti. In Mi sono innamorato di te (Ricordi, 1962) Luigi Tenco realizza strutture sintattiche estremamente lineari e coerenti e fa uso di parole proprie del quotidiano, cantando un monologo che chiunque potrebbe pronunciare utilizzando gli stessi strumenti linguistici: «Mi sono innamorato di te / perché non avevo niente da fare / di giorno volevo qualcuno da incontrare / la notte volevo qualcuno da sognare». Si noti, quasi a voler semplificare ulteriormente la comprensione all’ascoltatore, l’antitesi tra “notte” e “giorno”, collocate all’inizio rispettivamente del terzo e del quarto verso, e l’iterazione “volevo qualcuno” al centro degli stessi versi. L’intensità dell’interpretazione di Tenco  e l’equilibrio perfetto tra la lunghezza dei versi e il ritmo della canzone garantiscono un risultato di alto livello sul fronte musicale e su quello propriamente letterario.

Dalla, un “casino” colloquiale

A proposito di Lucio Dalla, risulta utile ai fini della presente analisi riportare una porzione del testo di Dark Bologna, tratta dall’album 12000 lune (Sony Bmg Europe, 2006): «Lungo l'autostrada da lontano ti vedr�� / ecco là le luci di San Luca / entrando dentro al centro, l'auto si rovina un po' / Bologna, ogni strada c'è una buca. / Per prima cosa mangio una pizza da Altero, / c'è un barista buffo, un tipo nero / Bologna, sai, mi sei mancata un casino». Sembra quasi di leggere – o ascoltare – l’incipit di un romanzo: la narrazione è lineare, estremamente chiara e colma di parole fortemente colloquiali, come casino (qui nel significato di 'molto, un sacco'). Dalla descrive, in chiave fortemente autobiografica, il ritorno nella sua città, delineando nel dettaglio l’itinerario di viaggio attraverso le strade riconquistate della sua Bologna. Nonostante il titolo del brano, non c’è nulla di oscuro in questo testo sul versante del significato. La costruzione del periodo è sintatticamente ineccepibile e sul fronte delle figure retoriche non si segnalano fenomeni tali da complicare all’ascoltatore l’accesso al nucleo semantico del testo.

In conclusione, risulta evidente quanto la contaminazione tra parola e musica, tra poesia e testo musicale sia in realtà tanto consolidata e antica da confermare una sovrapponibilità naturale delle due dimensioni. Come già sottolineato nella prima parte di questa ricerca, non è certamente il supporto o il canale attraverso cui si diffonde un’opera a definire l’appartenenza della stessa ad un genere artistico o letterario. Come una cattiva poesia non potrà mai escludere la poesia intera dalla letteratura, allo stesso modo l’esistenza di testi musicali carenti sotto il profilo stilistico o semantico non impedisce a priori di riconoscere nella canzone un'occasione per produrre e diffondere un testo musicale degno di essere riconosciuto a pieno titolo come letterario.

Testi citati e letture consigliate

Giuseppe Antonelli, Ma cosa vuoi che sia una canzone?, Bologna, il Mulino, 2017.

Pietro G. Beltrami, Gli strumenti della poesia, Bologna, il Mulino, 1996.

Paolo Colombo, In musica suonano meglio, Milano, ABEditore, 2016.

Paolo D’Achille, L’italiano contemporaneo, Bologna, il Mulino, 2003.

Roberto Favaro, Suono e Arte. La musica tra letteratura e arti visive, Venezia, Marsilio, 2017.

Simone Lenzi, Per il verso giusto, Venezia, Marsilio, 2017.

Pier Vincenzo Mengaldo, Com’è la poesia, Roma, Carocci, 2018.

Alfredo Rapetti Mogol – Giuseppe Anastasi, Scrivere una canzone, Bologna, Zanichelli, 2012.

Walter J. Ong, Oralità e scrittura (London-New York, 1982), Bologna, il Mulino, 2014.

Salvatore Quasimodo, Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 1965.

Luca Zuliani, L’italiano della canzone, Roma, Carocci, 2018.

Le puntate precedenti

«Un canestro di parole»: poeti e poesia nella canzone italiana - 1