Partono dall’immaginario pop-iconico, si scontrano con il sopore di una metropoli che si risveglia continuamente nell’impotenza, risorgono in un codice impossibile e per questo poetico, grazie a una partitura impetuosa di linguaggio e retorica. Il cantautorato dei Coma_Cose, il duo underground composto da Fausto Zanardelli (Lama) e Francesca Mesiano (California) non può raccontare Milano con un solo colore. La loro sfumatura sta sempre lì, tra intensità per barra e selezione itpop, anche se viene continuamente spostata, quasi come una nota che arriva in ritardo. Il nuovo linguistico percepito, però, non può nemmeno avere la forma del mai-visto. Dichiaravano, in un’intervista al Corriere della Sera, che in musica è ormai impossibile inventare. E appunto, visto che la radice latina stessa – invenio – richiama la ricerca (“trovare”), sta nella pratica di mixaggio la cifra identitaria del loro mondo in “coma”. Già a partire dal nome, quel _Cose – rigorosamente con il trattino, perché si può essere tutto – è indicativo di una presa di posizione non solo nei confronti del progetto artistico specifico, ma anche nei confronti della possibilità dell’arte. Non a caso, in Nudo integrale si parla di libertà nei termini di non appartenenza, con un chiaro ammiccamento alla tradizione della canzone italiana, cristallizzato nella espressione Se vuoi tu chiamala incoscienza (Tu chiamale se vuoi, emozioni). Di questa libertà (di costruzione) risuona il linguaggio, alimentato costantemente da citazioni della tradizione rovesciate (da Battisti a Vasco Rossi) e giochi linguistici, tra figure di suono e di parola ai limiti del nonsense.
Come te lo racconto il vuoto?
Milano, in primis, è un ritmo che non puoi prevedere. Le punchline dei Coma_Cose si caratterizzano infatti per un’alternanza frequente di rime ricche con consonanza (Farseli/spaventapasseri in Mancarsi; inizia/amicizia in Beach Boys distorti), di rime equivoche (mia gola è/via Gola in Via Gola), di rime ricche (fame/edamame in Mariachidi; farseli/spaventapasseri in Mancarsi; dromedario/Dario in Deserto) di rime baciate (grigia/valigia in Mancarsi; gonne/colonne in Deserto) e di bisticci sonori reiterati, quali le paranomasie (apice/salice/anice/calice in Anima lattina), tre sdruccioli in chiusura che rompono la modularità ritmica e da suono vogliono farsi significato, nell’attesa che un elenco di dettagli faccia il lavoro di un racconto. Un elenco che quasi sempre si raggruma a fine verso, dove trovano spazio parole-tandem nate da un accostamento semantico che ricorda l’analogia: invece di usare la classica similitudine, che forse avrebbe allungato il sintagma e di conseguenza il pensiero, le gole secche che percepisci a fine estate dopo aver mangiato la frittura di calamari del Naviglio vengono immediatamente unite al Kalahari (paronimo di calamari con mistilinguistimo), un deserto che puoi non conoscere ma l’aspirata nel tuo orecchio significa sempre calore, e non ti servono ulteriori passaggi linguistici. E ancora, sempre in Deserto, a indicare la solitudine della città vuota e di un cuore stanco, basta dire che si ha un cuore deserto, dromedario, con allitterazione congiunta. Deve bastare un sintagma per dire tante _Cose. L’utilizzo delle figure di costruzione viene portato in extremis quando alcune espressioni, tipicamente gergali e generazionali, diventano altro poco prima che si concluda il verso, per esempio: fame-chimica pisce e ho la sindrome di Peter Pan di stelle in Post concerto. L’accumulazione dei particolari non è da considerarsi opposta al lavoro di sintesi: parlare del vuoto significa parlare del troppo che sta in piccoli spazi, ecco perché tutto si mischia.
Cambiare accento per cambiare tutto
La dialogicità strutturale che ricorda la zona rap funziona perfettamente accanto al riuso intertestuale, che attinge dalla canzone d’autore intimista, dalla letteratura e dal cinema. Le esclamazioni ricorrenti quali uh, seh, ah, eh e segnali discorsivi, per esempio lo vuoi sapere che ho scoperto in Deserto o Che poi cosa c'entra la Francia me lo devi dire in French Fries, come lo slang generazionale (va in para in Jugoslavia), nel “frullatore” linguistico servono per bilanciare una serie di rimandi precisi ma rimodulati agli insegnamenti poetici del passato. In alcuni casi è anche esplicitamente dichiarato, con affermazioni come Il mio artista rap preferito è De Gregori (Deserto) o con metononimia come nel verso Profondo rosso come Dario (Deserto). La citazione vera e propria, però, possono cantartela solo distorta, scombinando le carte. In effetti basta poco, come quella “t” che in Anima lattina si appropria dell’universo battistiano per restituirlo alla desolazione delle chiacchiere tra le birre in Ticinese, un passatempo possibile per sentirsi meno impermeabili alle emozioni. Le mosse strategiche poi invadono anche la sintassi, con un’inversione di complemento come in Mangiando una scuola coi libri di mela (Nudo integrale), che nasce nella sua forma corretta (semanticamente) in Albachiara di Vasco, e ancora, O dammi una lametta che mi taglio le venerdì, divienela versione più disinvolta e contemporanea della Rettore, con una personificazione che è sì nonsense, ma nei respiri della metropoli parla di verità. Solo in questo equilibrio continuamente da ricostruire l’ansia si unisce al romanticismo, e il vuoto più diventare bello, se cambi accento, se sposti il dito.
Bibliografia
Andrea Laffranchi, Coma Cose, gli ex commessi e il successo a colpi di giochi di parole, corriere.it, 23 maggio 2019 (link)
G. Antonelli, Ma cosa vuoi che sia una canzone, Il Mulino, 2010.
L. Zuliani, L’italiano della canzone, Carocci, 2018.
M. Bricchi, La lingua è un’orchestra, Il Saggiatore, 2018.
Canzoni e parole nei cuori dell’itpop
3 - Galeffi, Germanò, Fulminacci
Immagine: Music studio
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