Un maledetto imbroglio
Cinquant'anni fa, nel giugno del 1957, Garzanti pubblicò Quer pasticciaccio brutto di via Merulana, il romanzo che consacrò Carlo Emilio Gadda come uno dei più grandi scrittori del Novecento italiano. Per dare forma compiuta a una storia gialla che non si concludeva con la tradizionale scoperta del colpevole, Gadda si era dimesso dalla Rai, dove aveva cominciato a lavorare nel 1950, presentendo un licenziamento per raggiunti limiti di età: «Nel cielo di un migliore domani brillava, per me, il sole poltiglioso del mio rammollimento», scrive a cose fatte, ripensando a quegli anni. Invece del «rammollimento», Gadda andò incontro a un periodo di intenso lavoro alla macchina per scrivere, culminato nella profonda rielaborazione delle cinque puntate del romanzo, comparse nel 1946 in altrettanti fascicoli della rivista «Letteratura», diretta da Alessandro Bonsanti, e nel prolungamento delle vicende narrate, fino a giungere alla misura dei dieci capitoli finali. «Finale», nel caso del Pasticciaccio è un termine cruciale. In primo luogo, perché il romanzo finisce senza un finale canonico. In secondo luogo, perché, dopo il rapido successo di vendite della prima edizione in cinquemila copie, l'editore dopo pochi mesi manda in stampa una seconda edizione con le estreme correzioni dell'autore. Abbiamo così la versione definitiva del Pasticciaccio, anche se ancora nel novembre del 1958 Gadda scrive all'editore Livio Garzanti: «Ora Citati [Pietro C.] mi dice che ha avuto una Sua lettera: e che è sempre valevole la soluzione col secondo volume da pubblicarsi in continuazione col primo. Così sarà fatto». Così, invece, non fu fatto. A suggello della completezza del Pasticciaccio stanno le parole scritte da Gadda a Garzanti un anno dopo: «Io non posso scrivere a freddo, e su programma a scadenza, come una "brava persona"». Eppure, il Pasticciaccio figliò ancora.
Ripescaggi, film, sceneggiatura e teatro Nel '63, la quarta puntata del romanzo, versione «Letteratura», non incluso nell'edizione in volume, venne in parte pubblicato sul «Giornale» con il titolo L'interrogatorio. Agli inizi degli anni Ottanta (Gadda morì nel 1973), l'Einaudi pubblicò Il palazzo degli ori, una sceneggiatura del Pasticciaccio scritta dallo stesso Gadda verso la fine degli anni Quaranta per la Lux-film e mai realizzata. In realtà, la storia del Pasticciaccio non termina nemmeno con le pagine scritte, riscritte, estrapolate e "trattate" da Gadda. Il successo editoriale, di pubblico, di critica, ha conseguenze notevoli. Nel 1959 compare una trasposizione cinematografica - libera quanto si vuole -, il film di Pietro Germi Un maledetto imbroglio. Nel 1983 la tv manda in onda lo sceneggiato in quattro puntate curato da Piero Schivazappa (interprete del commissario Ingravallo è un eccellente Flavio Bucci). Nel 1996 Luca Ronconi presenta il suo adattamento teatrale al Teatro Argentina di Roma: cinque dense ore di rappresentazione che, rinnovellando l'intrico redazionale e variantistico del romanzo, propongono una contaminazione tra le due edizioni del Pasticciaccio. Insomma, lungo un cinquantennio si perpetua il «ripentirsi, quasi» (la chiusa del romanzo) di Ingravallo - e del suo autore: il «ripentirsi» «di aver cercato la verità con il narrare», per cui, alla fine, giunti al finale che pone fine ma non finisce, «non è più possibile andare avanti col romanzo» e «non si viene a sapere la verità» sulla morte di Liliana Balducci (le citazioni sono tratte da Il narratore come delinquente di Walter Pedullà). Un «ripentirsi» che colora di unicità il Pasticciaccio.
«Groviglio, garbuglio, o gnommero» L'unico approdo gnoseologico cui poteva giungere nel suo «giallo maccheronico e inconcludente» (Vittorio Coletti) Gadda, scrittore in cui - come ha magistralmente mostrato Gian Carlo Roscioni nel saggio La disarmonia prestabilita - le posizioni filosofiche sono strettamente correlate con i procedimenti stilistici e le scelte espressive, è che lo gnommero della realtà invera il principio della «colpevolezza generalizzata. Tutti, nel Pasticciaccio, sono in misura maggiore o minore responsabili della morte di Liliana» (Emilio Manzotti), dagli esecutori materiali dell'assassinio ai loro complici, dalla stessa Liliana, artefice psicanaliticamente della propria morte, a Ingravallo, fino al «demiurgo della macchina narrativa» (Manzotti). Se è vero quanto scrisse il lettore per elezione di Gadda, Gianfranco Contini, che «pur sorgendo dal buio, dove non si immora, ma se ne svincola, quello di Gadda è un mondo robustamente esterno, nel quale l'autore crede», è al pari vero che la resa espressionistica di questo «mondo esterno» dipende da una robustamente particolare concezione del mondo e della realtà. Nella Meditazione milanese, Gadda scriveva: «conoscere [...] è inserire alcunché nel reale, è, quindi deformare il reale». Riprendendo Roscioni, più sono intricate le cose, più si hanno «figure verbali» ed è conseguente il fatto che «il pasticcio del delitto viene [...] reso con il pasticcio linguistico».
Occhio alla sintassi E se il sempre lodato plurilinguismo gaddiano ha meritato pagine e pagine di finissime analisi linguistico-stilistiche (a partire naturalmente da quelle continiane), tese a porre in rilievo la miscela tra le varietà di un italiano (aulico, colloquiale, neologistico, tecnicizzante, gergale, burocratico, aperto ai forestierismi e agli pseudoforestierismi) che «tende ad essere non solo acronico, ma per così dire asociale, e dunque fortemente personalizzato» (Pier Vincenzo Mengaldo), e il repertorio dei dialetti italiani (romanesco con inserti di napoletano, dialetti meridionali, veneto nel Pasticciaccio), certamente hanno fatto fare un passo avanti agli studi su Gadda quegli interpreti che hanno colto la maggiore novità dell'espressività gaddiana più nel lessico che nella sintassi. Cesare Segre ha capito che è «come se in ogni punto della pagina gaddiana convergessero tutti i motivi dell'atto creativo» e Mengaldo ha rilevato che, a fronte di una abbondante dissipazione linguistica, Gadda struttura il suo periodare «a singhiozzi», prediligendo la giustapposizione di gnommeri sintattici, fondata sulla scarsa subordinazione, la contrapposizione di brevi elementi, lo stile nominale. L'abbondanza di figure retoriche di ripetizione di suono indica bene il passaggio dagli elementi costruttivi a quelli emotivi nel testo, spesso ben rilevati tramite l'interpunzione che frantuma, le serie di aggettivi collegati per asindeto, le inversioni. Secondo Mengaldo e Coletti, la forza straripante della modernità e ricchezza stilistica di Gadda ne segna anche i limiti narrativi. La «qualità lirica del temperamento» di Gadda (Contini) se fa rigogliosamente pullulare il genio lessicale sottopone però la scrittura a una continua tensione che non conosce distensione. Ciò fa chiedere a Mengaldo (in Giudizi di valore): Gadda «fu un vero narratore?». La risposta dello studioso è limitativa: Gadda, in quanto erede degli Scapigliati, dal punto di vista dell'impianto narrativo si limita a «dilatare e giustapporre "poemetti in prosa"». Senza che questo infici un dovuto riconoscimento: «Nessun prosatore dell'Italia moderna possiede una lingua altrettanto ricca, innovativa, idiosincratica, infine esplosiva».
La «funzione Gadda» È stato Contini a parlare di «funzione Gadda», cioè di quell'atteggiamento di poetica espressiva che attraverserebbe tutta la storia letteraria italiana. Esaltando in questo modo la centralità di Gadda, capace di irradiare un senso unificante su esperienze trascorse, dalle origini mistilingui di Cielo d'Alcamo, passando per Folengo, la letteratura dialettale riflessa, gli Scapigliati. Capace anche di confrontarsi con personalità letterarie straniere, del passato e della contemporaneità (da Rabelais a Joyce e Céline). E di generare una covata di "nipotini": Mastronardi, il Testori del Dio di Roserio, la neoavanguardia, Manganelli, Arbasino e, autoconvocatosi, Pier Vittorio Tondelli negli anni Ottanta. Anche in questo caso, Mengaldo sparge il sale del dubbio: la scapigliatura è stata sopravvalutata; molte scritture e fenomeni di "sperimentalismo" o "espressionismo" linguistico sono solo superficialmente simili; il plurilinguismo, in buona misura, è elemento costitutivo della tradizione letteraria italiana in prosa. Mengaldo - e noi con lui - si chiede se sia ancora «lecito continuare a usare Gadda e la sua scrittura come metafore per definire segmenti più o meno ampi della nostra letteratura», affibbiando a fenomeni passati patenti di "espressionismo" o riversando sul presente tutto il peso del passato "maccheronico".
Figuri e pizzichini Gadda, più che grande «capoluogo, con una lunga storia di miserie e di glorie solo sue, d'un paese dai versanti accidentati e divergenti», andrà forse riconsiderato proprio per la specificità di quelle «miserie e glorie solo sue», in cui le prime sono funzioni e motori delle seconde, intrecciate insomma le une e le altre in un organico gnommero che solleva all'ammirazione e al godimento estetico il lettore di fronte agli innumerevoli scampoli del Pasticciaccio come questo:
Ma intanto quer cavadenti d'un Biondone t'oo seguitava a guardà, dopo aver buttato indietro er copricapo, scoperta dunque la fronte, che apparve tutta fiammeggiata di una stoppa irta e rubella, tra il biondo, giusto, e il castano. Gli si erano rizzati ai fianchi du figuri, du tipi de pizzichini un ber po' più scuri de lui, uno de qua uno de là, come i silenti gendarmi che Pulcinella percepisce dopo un po', in uno sgomento improvviso ma ritardato sull'azione.
La patina dialettale del romanesco (rotacizzazione della laterale in quer, er, ber; apocope in guardà e du; de = di; dileguo della vocale atona e della laterale intervocalica in t'oo = te lo) si impasta con improvvise interposizioni sintattiche alte (la giustapposizione latinizzante di «scoperta dunque la fronte»), squarci intonati a metafore preziose in cui coesiste il registro elevato (la fronte «tutta fiammeggiata») con la identificazione analogica neutra («stoppa»), subito risollevata in arsi dittologica («irta e rubella», con arcaicismo fonetico), aggettivazioni raffinate e inusitate («silenti» associato a «gendarmi»). Notevole, sempre in accordo con la pratica della mescidanza di elementi anche tra di loro contrastanti, l'accostamento del letterario figuri a pizzichini 'sbirri', che riprende e capovolge il significato gergale del verbo pizzicare 'rubare', quasi a significare: sembrano ladri, questi poliziotti. Questa è la lingua sublimemente "pasticciata" di Gadda, fonte del fascino e dell'attrazione che il Pasticciaccio esercita a cinquant'anni dalla pubblicazione in volume, testo così letterariamente nazionale perché intrinsecamente capoluogo di sé stesso.
Immagine: Un maledetto imbroglio (1959), regia di P. Germi .