16 settembre 2019

Le poco magnifiche sorti dei cetomediocri: Lo stradone di Francesco Pecoraro

A distanza di cinque anni dal notevole La vita in tempo di pace, Francesco Pecoraro pubblica un secondo capitolo della sua personale ricognizione antropologica dei nostri tempi. Il libro precedente era caratterizzato da una commistione di elementi narrativi e saggistici; Lo stradone (Firenze, Ponte alla Grazie, 2019) riprende quella formula, ma incrementando di molto la seconda componente, ora decisamente dominante rispetto alla prima. Il protagonista racconta in prima persona alcuni snodi cruciali della sua esistenza: il fallimento delle ambizioni accademiche giovanili; la militanza politica, altrettanto frustrante; la compromissione col sistema di corruzione imperante negli anni Ottanta, e un conseguente periodo in carcere; il pensionamento anticipato, anticamera della morte civile. Ma per farlo impiega solo una minima parte delle 440 pagine del libro; il più dello spazio è dedicato ai risultati dell’osservazione costante del mondo, còlto soprattutto nella più ordinaria quotidianità, e dalle riflessioni che ne vengono innescate.

 

Tassonomie del falso

 

Pecoraro è in grado di far scaturire letture illuminanti di fenomeni sociali, processi psicologici e orientamenti culturali dalla descrizione di particolari che molti considererebbero – erratamente – trascurabili: da dettagli minimi del tessuto urbanistico del quartiere (il protagonista, come l’autore, è un architetto), alle merci disposte nelle grandi catene dei supermercati o dei piccoli negozi multietnici, fino alle microblatte che infestano gli appartamenti. Con queste ultime, come con ogni dato di realtà, la voce narrante instaura un rapporto privo di pregiudizi, nel tentativo di razionalizzare tutto, evitando qualsiasi reazione emotiva: «Teoricamente non ho nulla contro le microblatte. In una qualche remota biforcazione dell’albero della vita abbiamo certamente un antenato in comune. [...] Ma l’evoluzione---da un certo momento in poi, cioè da quando alcuni insetti vogliono abitare le nostre case---ci ha messo gli uni contro gli altri. Non le voglio nella mia cucina e tutte le volte che ne ammazzo una penso che sto operando un contenimento» (p. 399; si sarà notata l’abnorme resa grafica delle lineette che demarcano gli incisi, sistematicamente praticata nel libro).

Nel porsi di fronte al mondo, il narratore adotta costantemente un atteggiamento da tassonomista. Se qualsiasi particolare, per quanto infimo possa apparire, è degno di essere analizzato e classificato, non sorprende che la figura retorica di gran lunga più importante nello Stradone sia l’enumerazione, la cui pervasività viene peraltro di fatto esplicitata: «Ri-enumero ossessivamente le presenze fisiche di questo lato del Quadrante, faccio elenchi di oggetti mai davvero messi a sistema, ma persino in questo sfasciume, nella stessa palazza dove abito, posso riconoscere, e volendo (ma non voglio) descrivere frammenti di utopia» (p. 72; la forma palazza non è un refuso, ma uno dei tic linguistici ricorrenti nel testo).

Sono moltissimi i cataloghi di realia di vario genere, che possono occupare anche intere pagine. Come esempio se ne riporta (solo parzialmente) uno particolarmente incisivo, posto poco dopo l’inizio del libro, che riguarda un aspetto fondamentale del mondo di oggi, vale a dire l’inautenticità che permea ogni fibra di esistenze votate all’apparenza: «Jeans falso consumati. Falso strappati. Pantaloni falso mimetici. Borse mimetiche. Capelli falso giovani, rossastri. In giro falsi rasta. Falsi gangsta, falsi rap. Falsi punk. Falsi giovani. Borchie falsamente utili. Magliette falso scolorite. Falsa vita vissuta. Falsa esperienza, falso inconscio, falso immaginario, falsa coscienza. Falsa la metropoli, falso il lavoro. Falso legno, falso antico, false le cacche di mosca su falsi mobili. Il falso grezzo nei ristoranti falso-fichetti, o vero-fichetti per falsi fichetti. Falsi gli hipster con false barbe folte lunghe tagliate quadre, false camicie da falsi boscaioli, birre falso-artigianali. False calvizie, falsi muscoli con tatuaggi falso tribali. Veloci sfrecciano bassi falsi pappagalli verdi, frutto del riscaldamento globale, anch’esso artificiale, posticcio» (pp. 12-13).

Uno dei tratti salienti della società odierna è la tendenza fortissima all’omologazione di comportamenti, stili di vita, pensieri. Il narcisismo di massa prevede che ognuno si senta speciale e cerchi di dimostrare di essere tale: l’effetto che ne risulta è naturalmente l’opposto dell’obiettivo perseguito. Un modo di rendere icasticamente la mancanza di identità individuale, nello Stradone, è la tendenziale negazione dei nomi propri: non solo non viene mai detto come si chiama il protagonista, ma anche le figure che compaiono in scena sono indicate senza che se ne pronunci il nome (probabilmente perché sconosciuto, data la mancanza di reali rapporti umani); ad esempio, nel bar frequentato quotidianamente lavorano la Barista Dominante e la Barista Dominata.

La perdita di identità non riguarda solo le persone, ma colpisce anche i luoghi, destinati ad essere designati solo per mezzo di nomi comuni usati per antonomasia: lo Stradone intorno al quale si è ristretto il mondo del protagonista (via di Valle Aurelia) si trova in un quartiere periferico della Città di Dio (Roma), capitale della Penisola (l’Italia), attraversata dal Fiume di Fango (Tevere) e visitata da milioni di turisti la cui meta principale è il Tempio della Redenzione Globale (la basilica di San Pietro). Fa eccezione il bar in cui molti abitanti del quartiere, ed in particolare ovviamente i pensionati, stazionano per far passare in qualche modo il tempo, un luogo «Privo di qualità», che «acquista una fatale attrattiva grazie alla non-qualità urbana circostante» (p. 53). Questo microcosmo – l’esatto rovescio di un locus amoenus – ha un evocativo nome parlante: Porcacci.

 

Le nobili stanze e i bassifondi dello stile

 

Lo stile prevalente nello Stradone prevede un dosaggio accurato di componenti che attingono a registri antitetici. Ai molti elementi del linguaggio intellettuale, coerenti con la cultura del protagonista, fanno spesso da contrappeso popolarismi e dialettismi che costituiscono il materiale corrente del modo di esprimersi e di pensare degli abitanti del quartiere, ma che spesso sono fatti propri dalla voce narrante (ciò che ne aumenta il tasso di verosimiglianza: oggi è pressoché impossibile immaginare una persona anche molto colta che non si faccia tentare almeno a tratti dal linguaggio “basso”).

Anche la sintassi vive dell’equilibrio tra spinte differenti. I periodi, mediamente molto lunghi, sono costruiti per lo più paratatticamente, aggiungendo via via singole frasi spesso senza connettivi che facciano da legante. È naturalmente un modo per rendere il tono di discorsi fatti a voce; ma mancano i moduli più marcati dell’oralità spontanea. Inoltre, ad interrompere il libero fluire dell’espressione vengono impiegati frequenti incisi, che per come sono concepiti e inseriti rimandano alla prosa argomentativa.

Il versante più elevato della scrittura di Pecoraro è influenzato non dalla tradizione letteraria, ma dai linguaggi delle scienze sociali, o anche delle cosiddette scienze “dure”. Già l’incipit non lascia dubbi a riguardo: «Il telescopio spaziale Hubble per decenni ha orbitato attorno alla terra, ha scrutato il nero che chiamiamo Universo, ne ha scelto una porzione più nera delle altre dove pareva non ci fosse niente, un rettangolo di cielo il cui lato più lungo è qualcosa come un decimo del diametro del disco lunare visto da qui. Hubble è passato e ripassato nello stesso punto e, orbita dopo orbita, ha indagato quel rettangolo sempre più a fondo, ci ha messo dieci anni e alla fine, nell’immagine finale---che finale non è e non può essere---ci sono circa diecimila galassie. Non diecimila stelle, non diecimila pianeti: diecimila galassie, alcune delle quali lontanissime, risalenti addirittura a pochi milioni di anni dopo il Big Bang, inteso come l’Evento Iniziale che è alla base dell’attuale cosmogonia condivisa» (p. 11).

A volte, all’interno di una disquisizione dotta fanno la loro comparsa elementi di segno opposto, come ad esempio in questo passo: «La città demmerda è un’incerta, auto-celebrante, messa in figura della gente demmerda che ci abita e che la costruisce» (p. 19). Come si vede, qui una tipica espressione romanesca convive pacificamente con un composto ipercolto, oltretutto inserito in una struttura nobile (una coppia di attributi anticipati rispetto al sostantivo a cui si riferiscono).

Il dialetto e l’italiano regionale (a Roma, notoriamente, non sempre facilmente distinguibili) sono i serbatoi da cui Pecoraro attinge il maggior numero di popolarismi. Una peculiarità del libro è la ricorrente interruzione del discorso per mezzo di frasi del tutto irrelate (e isolate anche graficamente nella pagina), che si possono immaginare ascoltate per strada o al Porcacci, e che spesso mostrano con dovizia di particolari l’ignoranza, la propensione ai luoghi comuni, il qualunquismo, il cinismo della gente (da alcuni di questi limiti, sia chiaro, il protagonista non si ritiene affatto immune). Eccone un minimo florilegio: «Se tu vai a fa’ ’na denuncia ar commissariato, ar poliziotto je rode er culo. Stanno lì a fa’ gnente. Piano poco, è vero, ma pe’ fancazzo è troppo» (p. 134; piano è forma dialettale per ‘prendono’); «– E comunque l’apparenza inganna, io so’ n’acqua cheta. Lo sai che vordì? / – Cioè ’na gatta morta?» (p. 324); «–Aò, oggi ’na giungla d’asfarto» (p. 362); «– Tu sei giovane. / – Proprio perché so’ giovane me voglio parà er culo» (p. 389); «Ci so’ andato in alter ego co’ mi’ cognata. Quindici giorni lei, quindici giorni io» (p. 407).

L’inserimento di battute dialettali usate come controcanto della narrazione è stato sperimentato recentemente (e in misura più estrema) anche in un altro libro: Tutti i nomi del mondo di Eraldo Affinati. È interessante notare come lo stesso procedimento formale possa essere utilizzato per fini opposti. Affinati, coerentemente con la sua visione idillica degli ultimi (molto debitrice dei romanzi di Pasolini), attribuisce ad un ragazzo di periferia (che commenta in dialetto ogni passaggio della narrazione) tutte le caratteristiche positive facilmente prevedibili: spontaneità, arguzia, buon cuore. Come spesso capita in questo genere di libri, la gioventù è rappresentata come la vuole immaginare il mondo adulto: sintomatico tra l’altro il fatto che il dialetto impiegato sia tarato sulla generazione dei sessantenni (a cui appartiene l’autore), non dei ventenni. Pecoraro, viceversa, non avendo una lettura del mondo edificante da proporre, riesce ad avere uno sguardo sulla realtà ben più efficace (e anche la sua resa del parlato di Roma è molto più credibile).

 

La lingua in gioco

 

Un aspetto da segnalare è la propensione dell’autore alla creazione di composti, per lo più graficamente realizzati con un trattino, come catto-paese, falso-contemporanea, tardo-riflessive, vetero-cazzone, o l’eloquentissimo cetomediocri, che definisce impietosamente la classe sociale a cui anche il protagonista appartiene. Viene ripreso anche il procedimento, caro alle avanguardie primonovecentesche e in seguito a Gadda, della fusione di sostantivi, il cui scopo è suggerire icasticamente i rapporti tra le cose: anziano-nomenklatura, uomini-capsula, negozi-universo.

Il trattino è in effetti un elemento fondamentale nella scrittura di Pecoraro, che lo usa anche per isolare le singole parti di alcuni composti di per sé comunissimi in italiano, come auto-stima, psico-analista, sotto-pagati, vaso-costrizione. Una chiara funzione ironica hanno alcune sequenze che paiono fare il verso alla prosa ammiccante di certi testi filosofici di stretta osservanza heideggeriana, che riprendono dal maestro, ma svilendolo, un tipicissimo modulo: quasi-totale-mediocrità, riposo-dalla-fatica, marciapiedi-con-cacche, cose-che-servono, fioriera-con-pianta-grassa, mamma-con-creatura-in-carrozzina, camminanti-a-passo-svelto.

La tendenza a sfruttare le risorse della lingua, anche facendole risaltare, portandole in primo piano, ha come logica conseguenza una certa disponibilità a dar vita a passi metalinguistici. Se ne citerà solo uno, come degna conclusione; si tratta di una condivisibile tirata contro gli eufemismi comunemente usati per obliterare le due realtà che più spaventano chiunque: «anch’io posso dirmi vecchio---mi repellono i sinonimi come anziano, non più giovane, in età non più verde, agé, avanti con gli anni: lo stesso per i molti modi in uso per dire morto, come scomparso, non c’è più, non è più tra noi eccetera». Nello Stradone il lettore non troverà simili espedienti edulcoranti: le realtà anche più sgradevoli sono rappresentate crudamente, impietosamente, spesso in modo folgorante. 

 

 

Fancesco Pecoraro (Roma 1945) è arrivato alla scrittura letteraria dopo una carriera di architetto e urbanista presso il Comune di Roma. Prima di Lo stradone ha pubblicato una raccolta di racconti (Dove credi di andare, 2007), una miscellanea di testi originariamente nati per il suo blog (Questa e altre presitorie, 2008), una raccolta di poesie (Primordio vertebrale, 2012) e un romanzo (La vita in tempo di pace, 2012).

 

Immagine: La piattaforma sul piano stradale dell'interscambio ferroviario di Valle Aurelia a Roma

 

Crediti immagine: Sergio D’Afflitto [CC BY-SA 4.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0)]

 


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