L’esperienza letteraria e linguistica di Igiaba Scego, scrittrice italiana di origine somala, mostra caratteri di parziale originalità rispetto alla scelta di utilizzare la lingua italiana operate da altri autori di letteratura transculturale. Tale scelta aveva lo scopo di affrancarsi da condizioni di povertà e disagio connessi allo status di migranti, in una prima fase dell’ormai pluridecennale storia della letteratura italiana della migrazione; in una seconda e più matura fase, essa rappresentava un’urgenza comunicativa non priva di ambizioni estetiche, su cui il prestigio letterario della nostra lingua esercitava un peso notevole. In ogni caso si ribadiva la piena e consapevole volontà di appropriarsi della lingua italiana, per necessità o virtù, talvolta sottolineando anche le difficoltà connesse ad un non facile processo di acquisizione.

Tra Roma e Mogadiscio

Il rapporto di Scego con la lingua italiana, invece, è assai più complesso e contraddittorio. Esso va contestualizzato nell’esperienza letteraria postcoloniale. Igiaba Scego, infatti, nata a Roma nel 1974 da genitori somali che avevano da poco riparato in Italia per sfuggire alla dittatura di Siad Barre, esprime un controverso rapporto con la lingua e la cultura degli ex dominatori coloniali: da un lato avversione, straniamento, nel tentativo di riappropriarsi dell’identità ancestrale; dall’altro un’attrazione, nel tentativo di rivendicare una piena appartenenza ad essa. Nel romanzo La mia casa è dove sono, si ritrovano alcuni membri della famiglia Scego, che quasi non si conoscono, dispersi per tutta Europa dopo l’espatrio successivo alla presa del potere di Barre: “intorno a noi i fili dei nostri viaggi e delle nostre nuove appartenenze. Facevamo parte della stessa famiglia, ma nessuno di noi aveva avuto un percorso comune all’altro. In tasca ognuno di noi aveva una diversa cittadinanza occidentale. Nel cuore invece avevamo il dolore della stessa perdita. Piangevamo la Somalia persa per una guerra che stentavamo a capire”. In questa diaspora, tocca alla famiglia di Igiaba il ruolo più ingrato: “io ero l’italiana … I somali di Gran Bretagna non capivano questa mia ostinazione a stare nella terra dei nostri ex colonizzatori. «Che ci fai lì?» Mi chiedevano tutti. Alcuni malignamente aggiungevano: «non hai nemmeno marito». L’Italia era vista dai somali di Gran Bretagna come la peggior scelta possibile”. (p.24) Il rifiuto della lingua dei colonizzatori italiani fa coppia con l’affioramento di parole, suoni, delle lingue parlate in Somalia. Le parole di questa identità sono spesso legate a luoghi; sempre nel romanzo citato: “Maka al Mukarama … era l’arteria pulsante di Mogadiscio, … Il nome era arabo, naturalmente, come quello di tante cose in Somalia … Prima di chiamarsi Maka al Mukarama la strada aveva un nome italiano, un nome dato dai fascisti che non piaceva a nessuno; ora stento anche a ricordarlo. Forse corso Pincopallino? Era tutto un corso a Mogadiscio con i fascisti” (p.26).

La lingua madre di mia madre può farmi da madre?

Ancora, in Adua, forse il più complesso e compiuto dei suoi romanzi, la narratrice (alter ego di Scego) ricorda così i luoghi della sua prima infanzia: “Sono Adua, figlia di Zoppe. Oggi ho ritrovato l’atto di proprietà di Laabo dhegah, la nostra casa a Magalo, nella Somalia meridionale. […] Laabo dhe-gah, significa due pietre in italiano. Uno strano nome per una casa, forse non tanto di buon auspicio […] La leggenda vuole che mio padre, Mohamed Ali Zoppe, abbia detto: «Queste sono le due pietre, i laabo dhegah, su cui costruirò il mio avvenire». Chissà se l’ha detta veramente quella frase. Suona un po’ biblica. Sta di fatto che ormai la leggenda si è impiantata nei nostri cuori e, anche se a scapito della verità, devo dire che le siamo affezionati in famiglia ormai” (pp. 9-10).

A volte i ricordi della lingua parlata in Somalia irrompono dal cuore, come suoni cui è difficile dare soltanto un mero significato referenziale: sono la memoria dell’affetto familiare; in Adua: “«Sheko sheko, sheko hariir». Storia storia, oh storia di seta. Così cominciavano tutte le favole che Zoppe aveva ascoltato da bambino. Dopo la preghiera della sera il padre lo chiamava presso di sé e lui si rannicchiava mansueto ai suoi piedi” (p. 160). E, in Oltre Babilonia: “Mia madre mi parla nella nostra lingua madre … Spumosa, scostante, ardita. Nella bocca di mamma il somalo diventa miele. Mi chiedo se la lingua madre di mia madre possa farmi da madre. Se nelle nostre bocche il somalo suoni uguale. Come la parlo io questa nostra lingua madre? Sono brava come lei? Forse no, anzi sicuramente no … ma mi sforzo lo stesso di parlare con lei quella lingua che ci unisce. In somalo ho trovato il conforto del suo utero, in somalo ho sentito le uniche ninnananne che mi ha cantato, in somalo di certo ho fatto i primi sogni” (p. 443).

Dismatriati

La lingua è dunque una madre, un’identità che pervade il più profondo essere dei personaggi, un abbraccio, un ventre in cui rifugiarsi. Ma, nelle storie di migrazione di Scego, il rapporto con la lingua-madre, si è detto, è contrastato, interrotto e poi ripreso, mai lineare e armonioso. Da qui il magnifico neologismo, anche titolo di un racconto di Scego: dismatria. Il termine, forse ispirato al dispatrio, dell’italiano Meneghello in terra britannica, esprime compiutamente il sentimento di chi si sente orfano, straniero dappertutto, avendo perso la cultura e la lingua-madre: “E poi niente. Non succedeva mai niente! Eravamo in continua attesa di un ritorno alla madrepatria che probabilmente non ci sarebbe mai stato. Il nostro incubo si chiamava dismatria. Qualcuno a volte ci correggeva e ci diceva: «In Italiano si dice espatriare, espatrio, voi quindi siete degli espatriati». Scuotevamo la testa, un sogghigno amaro e ripetevamo il dismatria appena pronunciato. Eravamo dei dismatriati, qualcuno aveva tagliato il cordone ombelicale che ci legava alla nostra matria, la Somalia” (pp. 7-8). Ma, fortunatamente, un’altra “madre linguistica” sopraggiunge, accogliente, ad abbracciare la solitudine dei figli “dismatriati”: la lingua italiana, seconda madre. Nel racconto Identità: “ma poi, ogni volta, in ogni discorso, parola, sospiro, fa capolino l’altra madre. Quella che ha allattato Dante, Boccaccio, De Andrè e Alda Merini. L’italiano con cui sono cresciuta e che a tratti ho anche odiato, perché mi faceva sentire straniera. L’italiano aceto dei mercati rionali, l’italiano dolce degli speaker radiofonici, l’italiano serio delle lectiones magistrales. L’italiano che scrivo” (pp. 443-4).

Nella narrativa di Igiaba Scego, in definitiva, la condizione di dismatria, per se stessa conflittuale, spesso si risolve in una sintesi, più o meno armoniosa, tra due madri compassionevoli: “fu solo quando tornai in Somalia che ricominciai a usare la lingua di mia madre. Nell’arco di pochi mesi mi ritrovai a parlare il somalo molto bene. Ora posso dire di avere due lingue madri che mi amano in ugual misura. Grazie alla parola ora sono quella che sono”.

Testi citati

Igiaba Scego, Dismatria, in AA.VV, Pecore nere. Racconti , Laterza, Bari, 2005.

Igiaba Scego, Salsicce, in AA.VV , Pecore nere. Racconti, Laterza, Bari, 2005.

Igiaba Scego, Oltre Babilonia, Donzelli, Roma, 2008.

Igiaba Scego, Identità, in Amori bicolori. Racconti, Laterza, Bari, 2008.

Igiaba Scego, La mia casa è dove sono, Loescher, Torino, 2012.

Igiaba Scego, Adua, Giunti, Firenze, 2015.

La serie intitolata Parole, storie e suoni nell'italiano senza frontiere è curata da Gabriella Cartago.

Le puntate precedenti:

1. Da migra(n)ti a transculturali a Ø di Gabriella Cartago e Franco Fabbri (link)

Immagine: Mulberry Street, New York City

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