08 ottobre 2019

Raccontare la lingua italiana. 2 - Consolo, Maraini, Orengo, Piumini, Zamponi

Continuiamo il nostro itinerario tra le opere letterarie che hanno messo al centro delle loro narrazioni la lingua italiana e la sua grammatica. Nella prima puntata abbiamo approfondito soprattutto la figura dell’indimenticabile Gianni Rodari, ma altri scrittori hanno seguito la stessa strada, a cominciare da Marcello Argilli, suo collaboratore a partire dalla fine degli anni Cinquanta, nonché suo primo biografo.

La raccolta di raccontini Alla signorina elle con tanto affetto (1996) è dedicata «ai bambini che amano leggere e che scrivono con qualche errore» e ha come protagonisti le lettere dell’alfabeto e il loro ruolo centrale nella formazione delle parole. Emblematico il raccontino C’era una volta un treno che narra le avventure del TRE e del NO che, divisi da un deragliamento, vivono varie combinazioni lessicali riuscendo infine a ritrovarsi e unirsi nuovamente in un TRENO.

Il racconto La ragazza che diceva sempre okey ha invece come protagoniste le lettere S e I, indignate per essere state sostituite da una “barbara parola” proprio nel paese “dove il dolce sì risuona”.

In MM!... MM!... MM!... un commerciante senza scrupoli, il commendatore Mimmo Mammoli, convince l’alfabeto a vendergli la lettera emme, che mette in cassaforte, concedendone l’uso solamente a fronte di un’esosa tassa.  In questo modo quasi tutti i cittadini sono costretti a usare le parole facendo a meno della emme, con le terribili conseguenze che si possono immaginare (la matematica che diventa ateatica, la mamma che diventa aa), fino a quando Onica, la figlia di un professore, escogita uno stratagemma attraverso il quale liberare la emme e punire il commendatore.

In un racconto pubblicato nella raccolta precedente, intitolata Il gioco delle cose (Bompiani, 1971), protagonista è invece la lettera acca:

Non vale un’Acca! La povera lettera H era proprio nata sfortunata: nessuno o quasi voleva la sua compagnia. Soltanto la C e la G si lasciavano avvicinare da lei, ma non sempre. Guai per esempio se faceva visita alla C quando era in compagnia della O oppure della A; ne sarebbe venuto fuori un CHORO da far rabbrividire o un mostruoso CHAVALLO!!! Una volta un bimbo la mise in un HAVEVA che fece inquietare la maestra. Allora, stanca di tanti tormenti, l’H decise di partire per una vacanza. Andò a sciare, ma appena SCIAVA diventava una SCHIAVA. Rinunciò allo sci e pensò di fare un GIRO in campagna, ma diventò un GHIRO e dormì per tutto l’inverno.

 

Questa lettera dell’alfabeto che si vede, non si sente, ma si fa sentire è spesso al centro di racconti e filastrocche didattiche. Già Rodari le aveva dedicato un raccontino (L’acca in fuga, in Favole al telefono) e, prima di lui, Lea Maggiulli Bartorelli – che, firmandosi Zietta Liù, a partire dagli anni Trenta si era dedicata alla letteratura per l’infanzia – con questa filastrocca dei primi anni Cinquanta:

 

L’acca è qui, l’acca è qui

nel cantar chicchirichì;

nelle chiese, nelle preghiere,

negli ubriachi e nel bicchiere,

e nei tacchi e nel tacchino,

nelle stecche e nello stecchino

e nei chiodi del bischetto, 

nello stracchino e nel banchetto;

chicchirichì, chicchiriché,

l’acca c’è, l’acca c’è.

 

La grafia delle parole è al centro anche di alcune poesie e filastrocche di Roberto Piumini, apprezzato e prolifico autore di libri per bambini e ragazzi: 

 

Ghiga e Ghega sono maghe,

son megere con le rughe

o, la gente dice, streghe.

Fanno gesti, pappe grigie,

purghe, gemiti e magie,

piogge gelide o roghi,

velenosi sughi ed aghi:

basta solo che le paghi.

 

I sogni negli stagni

son ragni fra paglie,

son bagni in famiglia

di conigli con quaglie,

voglia di agli e pigne

senza rogne e cipigli,

son maglie di ragni

che imbrogliano triglie,

son gnomi su scogli

che ignorano le mogli,

son magnifiche spugne,

meravigliosi segni,

i sogni negli stagni.

 

Qui protagonisti sono i cosiddetti suoni difficili, un argomento ricorrente nell’insegnamento della lingua nei primi anni della scuola primaria. Tutti questi testi, dai più semplici a quelli più complessi, sono in qualche modo una risposta alla domanda che si era posto di Rodari nel suo Libro degli errori: Vale la pena che un bambino impari piangendo quello che può imparare ridendo?

In collaborazione con Ersilia Zamponi – autrice del celebre I Draghi locopei, una raccolta di giochi linguistici per imparare l’italiano (a cominciare dall’anagramma usato per intitolare il libro) – Roberto Piumini ha pubblicato nel 1998 Calicanto, una serie di proposte ludico-didattiche dedicata alla scrittura poetica; nel libro troviamo testi dello stesso Piumini, ma anche di altri autori, come Vincenzo Consolo (Luna, lucore, / allume lucescente, / levia particula, / fiore albicolante, / faro nittinno, / falena adamantina, / lupula divina…), Nico Orengo (Le razze di Varazze / vanno pazze / per le cozze) e Toti Scialoja, i cui versi invitano naturalmente il lettore all’imitazione:

 

Sui baobab fuori Bombay

sbava al vento e assai si bea

il bel boa che fa il nabab.

Sopra Volterra – per poco muoio –

vidi una volta un avvoltoio

che volteggiava con un rasoio.

«Buona sera!» mi dice la zanzara

Strofinando le zampe allo zerbino,

«ho tanta zete» e, zaffete! Mi azzanna

Come zitella che scocchi un bacino.

 

L’intento di Piumini è di rendere esplicito l’insegnamento che tali testi trasmettono implicitamente: la grande importanza dei suoni della lingua e il loro rapporto con il significato delle parole.

Il risvolto didattico implicito è presente in maniera singolare nei versi del Lonfo (1978), composti da Fosco Maraini:

 

Il Lonfo non vaterca né gluisce

e molto raramente barigatta,

ma quando soffia il bego a bisce bisce

sdilenca un poco e gnagio s’archipatta.

È frusco il Lonfo! È pieno di lupigna

arrafferia malversa e sofolenta!

Se cionfi ti sbiduglia e ti arrupigna

se lugri ti botalla e ti criventa.

Eppure il vecchio Lonfo ammargelluto

che bete e zugghia e fonca nei trombazzi

fa lègica busìa, fa gisbuto;

e quasi quasi in segno di sberdazzi

gli affarferesti un gniffo. Ma lui zuto

t’alloppa, ti sbernecchia; e tu l’accazzi.

 

La maggior parte delle parole piene, quelle portatrici di significato, presenti nel testo sono inventate; nonostante questo, ogni parola è ascrivibile a una specifica parte del discorso: non abbiamo difficoltà a riconoscere i nomi (Lonfo, bego, sberdazzi…), i verbi (vaterca, gluisce, barigatta…), gli aggettivi (frusco, malversa, sofolenta…). Non si potrebbe allora leggere la poesia come l’applicazione astratta di regole grammaticali?

Nella prossima puntata si vedrà come i temi grammaticali possano non solo costituire l’argomento centrale di un racconto, ma configurarne anche la struttura romanzesca, contribuendo a scandire l’andamento narrativo.

 

La prima puntata (link)

 

Immagine: A fairy tale

 

Crediti immagine: Artist J. H. F. Bacon A.R.A. [Public domain]

 


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