Tra tutte le famiglie linguistiche nessuna è più istruttiva di quella romanza, date le circostanze peculiari della sua trasmissione stratificata. Questa è la ragione per cui i tedeschi più di altri popoli hanno curato le scienze del linguaggio con particolare passione per l’ambito romanzo.

Con queste frasi, che Hugo Schuchardt affidava nel 1915 a Aus dem Herzen eines Romanisten, si apre il libro di Lorenzo Tomasin, Il caos e l’ordine. Le lingue romanze nella storia della cultura europea (Torino, Einaudi, 2019).

Poste in exergo al volume, queste parole invitano, fin dalle prime pagine, a considerare il campo delle lingue neolatine come un campo privilegiato di studio in cui è possibile osservare i processi e i fenomeni che appartengono alla cultura europea.

Lorenzo Tomasin dichiara questo approccio nella Premessa (pp. VII-X), attento a mettere da subito in evidenza l’interesse attuale di tale tipologia di studio e di ricerca:

Questo libro propone in effetti la romanistica come possibile prospettiva da cui guardare ancora oggi, e con argomenti nuovi e difficilmente prevedibili nel passato anche vicino, a vari aspetti della cultura umanistica odierna e in particolare a problemi attuali del suo rapporto con discipline interessate da un vivace dibattito, dalle scienze della vita alle scienze storiche: ambiti con i quali la romanistica si è confrontata, per ragioni diverse e talora occasionali, ma gravide di conseguenze, fin dalle sue origini. (p. IX)

Se può sembrare oggi utile osservare dalla prospettiva di una linguistica generale certi processi, il punto di vista interno allo studio delle lingue neolatine riserva preziose possibilità complementari:

L’invito sotteso a queste pagine è insomma a considerare lo studio delle lingue e delle culture romanze come componente fondamentale nel programma attuale degli studi umanistici, e con essi dell’agenda culturale dell’Europa di oggi, anche nel suo dialogo con il mondo. (p. IX)

Il volume offre una delle più ampie e articolate analisi del panorama degli studi romanistici, un quadro vasto e analitico di quella che è stata ed è una disciplina, ma, prima ancora, un punto di vista che chiama a interrogarsi sulla storia e sul futuro delle lingue.

Chiave di lettura del percorso degli studi sulle lingue romanze è la polarità espressa nel titolo, il caos e l’ordine, «un tipo di opposizione costante in molte branche del sapere scientifico», utile a esprimere due approcci diversi al magma della materia considerata.

Un ordine instabile

Punto di partenza, espresso in apertura al primo capitolo, è la percezione del diversificarsi, e quindi del cambiamento delle lingue, l’«universale linguistico […] più facile da riconoscere» (p. 5). Nel cambiamento sono presenti momenti di quiete, di apparente ritorno all’ordine, in un’instabilità che appartiene (e Dante non manca di notarlo) ai fatti umani.

Nel delineare il percorso del mutamento delle lingue, e di quelle romanze in particolare a partire dalla sorgente latina (molto interessante è la distinzione tra lingua morta e lingua estinta), Tomasin ci guida nell’esplorazione di alcune categorie tradizionali dell’analisi linguistica, quella degli allotropi per prima. Proprio nella definizione di allotropo (che si deve, come è noto, a Ugo Angelo Canello) e nei primi passi della linguistica storica è indicato il legame di metodo e di paradigmi espressivi con il campo delle scienze esatte.

Il contatto (la simbiosi?) con la scienza, e poi con la biologia evolutiva, si manifesta a vari livelli, fin dai primi passi del metodo comparativo, che sostiene un nuovo approccio alla materia: il confronto tra le lingue è il metodo più efficace per conoscere in modo profondo i sistemi e le loro forme, anche sulla base della certezza che, in un certo contesto, vale la legge fonetica come spiegazione certa e scientificamente provata in un sistema costante.

La legge e lo scarto

La seconda figura considerata è quella espressa dalle lenti interpretative di analogia e anomalia, paradigmi attraverso cui è stata letta e interpretata la varietà linguistica, fin dagli studi del latino prodotti nel mondo classico. Il tema della lingua che, in un certo contesto, contraddice la legge fonetica e introduce una variante analogica rappresenta un fatto portante delle teorie neogrammaticali, quelle che nella seconda metà dell’Ottocento aprono alla moderna metodologia la nostra ricerca linguistica: le spiegazioni in base all’analogia sono considerate dai Neogrammatici come «una specie di ruota di scorta del primo principio del loro sistema, l’ineccepibilità delle leggi fonetiche» (p. 42).

Intorno al tema dell’analogia e dello scarto rispetto alla legge fonetica si definiscono, a partire dai primi del Novecento, nuovi modelli di interpretazione del fatto linguistico, attraverso la ripresa di concetti enunciati già da Humboldt. Il procedere della ricerca insiste progressivamente sull’azione che l’individuo ha nella definizione del fatto linguistico: in questa chiave, del tutto convincente, Tomasin ci accompagna attraverso gli ambiti e i risultati della ricerca di Schuchardt, di Saussure, di Lausberg, arrivando ai territori della stilistica di Spitzer e in tempi recenti all’indagine sul rapporto centro / periferia di Bertinetto.

Nel cuore della lingua

Un altro paradigma di lettura della ricerca sulle lingue romanze è quello offerto dall’alternanza di fasi di sistole a fasi di diastole, nel riconoscimento di un processo dinamico di evoluzione che diviene espressione anche (e forse soprattutto) di un percorso culturale.

Nell’intuizione di Goethe, come, poi,  nello studio sistematico di Lausberg, la storia delle lingue è vista come un’alternanza di fasi di espansione e di fasi di caduta, alternanza che porta a definire il rapporto tra la storia e la lingua, in una complessità di rapporti che può trovare espressione nella polarità tra storia interna e storia esterna, fino a definire, con novità di approccio e di dati, la pertinenza della definizione di storia della lingua e del campo di indagine della disciplina (A che cosa serve la storia della lingua?, pp. 77-80).

Se la lettura saussuriana della lingua struttura un rapporto tra lessico e grammatica, Tomasin dimostra con un’interessante proposta, che il Novecento ha rivisto, proprio a partire dalle teorie del Circolo di Praga, questa bipartizione: mette in luce come l’approccio funzionale di Giampaolo Salvi, e, prima, quello di Lorenzo Renzi, abbia rivelato la stretta relazione che corre tra le parole e la grammatica, nel legame sintattico e di reggenza, ma anche nella logica del funzionamento della lingua e nella sua efficacia comunicativa.

La norma e gli usi

Polarità centrale nell’interpretazione è quella tra norma e eccezione, che dalle lingue classiche percorre il panorama della riflessione moderna, separando, certo, l’approccio di chi guarda alla grammatica come fatto normativo da quello di chi vede nella grammatica uno strumento che prende atto del mutamento e della diversità, come da quello di chi (Orazio è uno dei primi) considera l’uso come superamento della regola, unico “signore” della lingua.

Prendendo in considerazione la storia linguistica del francese, dello spagnolo, dell’italiano, Tomasin passa in rassegna alcuni aspetti della polarità interpretativa antico / moderno, mettendo in guardia sulla possibilità di adattare un paradigma storico alla lettura del presente e, per converso, guardando criticamente all’abitudine di avvicinare per analogia, anche grammaticale, fasi diverse della storia linguistica italiana.

Alla polarità natura / storia è affidata la chiusura del libro, che tocca il tema degli universali linguistici, anche nel loro collegamento alle attuali teorie neurolinguistiche e in rapporto alla possibile interpretazione del linguaggio in chiave evoluzionistica.

La prospettiva da cui Lorenzo Tomasin invita a guardare la vicenda delle lingue e dell’interpretazione delle lingue è in primo luogo storica, un’adesione profonda e partecipe alla consapevolezza che lo studio del mutamento può insegnare molto della tradizione di cultura e di rapporti sociali di una comunità. La certezza, che con convinzione facciamo nostra, è confermata nel finale del libro: «Non c’è lingua senza storia e non c’è storia senza lingue» (p. 26).

Immagine: Jaume Plensa

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