«Non credo che il suo paziente potrà mai guarire del tutto. Al più uscirà dalla cura molto più illuminato su sé stesso e sugli altri. Ma, se è un vero poeta, la poesia rappresenta un compenso troppo forte alla nevrosi, perché possa interamente rinunciare ai benefici della sua malattia». Sigmund Freud scrive così al collega Edoardo Weiss, membro effettivo della Società psicoanalitica di Vienna. Quel paziente-poeta Weiss lo tenne in cura per due intensi anni, dal 1929 al 1931. Si trattava di Umberto Saba, morto cinquant'anni fa (25 agosto 1957) a Gorizia (era nato a Trieste nel 1883). Mentre fioriscono le iniziative a Trieste e in tutt'Italia per celebrare il cinquantenario, torniamo a riflettere sull'acutezza della considerazione di Freud. Per fortuna dei suoi lettori, Saba alimentò costantemente «l'esercizio poetico [...] come naturale realizzazione di una poetica centrata su autobiografismo e autoanalisi» (Rosanna Saccani); ma certo la sua tensione verso una continua chiarificazione di ordine psicologico e morale, centrata su una serrata perlustrazione dell'interiorità, fu pagata con un progressivo deterioramento della tempra psichica. Negli ultimi anni di esistenza, Saba fu costretto a sempre più lunghi ricoveri in clinica psichiatrica. Ne uscì l'ultima volta nel 1956, per i funerali di sua moglie Lina. Rientratovi, l'anno dopo morì.

L'io instabile

Per tutta la vita Saba seguì il filo del complesso e precario tracciato che il suo io gli dettò, traducendolo nel progetto del Canzoniere, raccolta organica di liriche riveduta e corretta più volte fino all'edizione del '48, ritenuta definitiva dal poeta. Romanzo in versi autobiografico (Mengaldo sottolinea la forte componente narrativa della poesia di Saba), il Canzoniere scioglie in grande musicalità il sermo cotidianus scelto eticamente dal poeta come strumento del proprio dire. La quotidianità dei contenuti e del linguaggio per Saba non è deterrente ironico alla magniloquenza dell'ingombrante verbo poetico dannunziano (che pure Saba studiò e, senz'altro da giovane, ammirò), parametro obbligato per il capovolgimento polemico, in chiave antiretorica, dei crepuscolari. No, per Saba la quotidianità non è un topos letterario, ma è «il luogo del sacro, della Vita con la maiuscola» (Mengaldo), è il meraviglioso spettacolo da «guardare e ascoltare» (Saba), da sollevare a dignità per via di «epicizzazione» (Mengaldo) ma da esprimere con nicciana «leggerezza». Scriveva Nietzsche, punto di riferimento fondamentale per Saba: «siamo profondi, ridiventiamo chiari». E, come ha notato Vittorio Coletti, a una «misura di colloquialità col lettore» Saba «non è mai venuto meno». Da qui la scelta di una lingua «rasoterra» (Saba), il ricorso a un lessico basico «a più alta frequenza e a più vasta estensione semantica» (Mengaldo). Amore, vita, cuore, anima, caro, bello, antico, nuovo entrano nell'immobile giro di vocaboli di sapore petrarchesco e leopardiano che, insieme ai diminutivi e vezzeggiativi familiari (cantuccio, fanciullino, botteguccia, casette, stanzetta ecc.), sono deputati a trascrivere in trasparenza, all'interno del panorama fisico e affettivo di Trieste - città natale di radici e sangue e culture frammisti e contraddittori -, il trauma personale dell'abbandono del padre e delle madri, quella vera e quella adottiva, e il nodo relazionale e psichico derivatone: «mia madre - scrisse Saba - aveva preso nella mia sciagurata educazione l'ufficio inibitore del padre». Per un'agile e documentata biografia di Saba, corredata di immagini e di stralci da epistolari e riflessioni dello stesso poeta, si può andare su Internet Culturale, sito del Ministero per i Beni e le Attività Culturali (www.internetculturale.it), sezione Percorsi Culturali > Mostre > Umberto Saba. Poesia di una vita.

Dentro la tradizione, tranquillamente

Se «ai poeti resta da fare la poesia onesta» (Saba) e se l'onestà consiste nella ricerca di verità poetiche interiori e non esteriori, andando allo scandaglio conoscitivo della «verità che giace al fondo» (Saba) dell'animo umano, da rendere intelligibile e chiara nel linguaggio e da collocare entro la cornice della vita reale, perché allora quel tramarsi di aulicità lessicale e soprattutto sintattica (inversioni, iperbati) e metrica (predilezione per il sonetto e la canzone) della poesia di Saba, soprattutto agli inizi e fino ai primi anni Trenta? In questi tratti sta certo l'originalità del più classico, insieme a Penna, dei nostri poeti novecenteschi; e ancor di più nella felice armonizzazione di lessico quotidiano e lessico letterario, nella capacità di innestare senza sforzo sul registro colloquiale una sorta di avvolgente vulgata della tradizione lirica maggiore (da Petrarca a Leopardi e Pascoli, passando per Parini e Metastasio) e minore (Nievo, Betteloni), filtrata attraverso i libretti d'opera (brama, pinge, istoria, anco, indi, ei...) fin giù - chiudendo il cerchio e tornando alla colloquialità quotidiana - nelle canzonette popolari. Questo va detto: in Saba non c'è ricerca didascalica o piegatura polemica della tradizione. Saba è naturalmente e «tranquillamente immerso» nella tradizione, come scrive Mengaldo; è geneticamente l'unico poeta non espressionistico del Novecento, insieme con Penna; si ritrova immediatamente e senza bisogno di proclami fuori dalle scuole e dai programmi poetici coevi (futuristi, vociani, crepuscolari, ermetici), esclusivamente intento a far stile della propria etica, a far verso della propria esperienza e capace di sciogliere senza residui la pesante compressa medicinale della psicoanalisi nelle forme acquatiche della sua lirica autoconoscitiva.

Immagine: busto di Umberto Saba (opera di Ugo Carà, nel Giardino Pubblico Muzio de Tommasini, Trieste).

Crediti: Victor Lozano [CC BY-SA 4.0] su Wikimedia Commons.

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