Mimmo Cuticchio ama parlare dei pupi come di creature vive. «Un oggetto artigianale va rispettato e va rispettato colui che lo ha realizzato. L’artigianalità che c’è nel pupo da teatro è superiore. Il pupo nasce perché ha una vita. È come un bambino, che ha un nome, un cognome, i genitori, un luogo di nascita… C'è chi mi prende per pazzo, quando dico questo. Per costruire un pupo ci vuole un mese, per fare nascere un bambino nove mesi. Ma non è solo questione di tempo».

Il pupo e l'oprante-puparo

Cuticchio precisa che c’è una differenza tra la gestualità del pupo e quella dell’oprante-puparo. Si nota quando si passa dalla piccola alla grande scena. Nel teatrino, infatti, i pupi si muovono in un modo ben definito ed esistono delle tecniche ben precise, anche se molti credono che sia importante soltanto la parte creativa, ovvero la capacità di inventare. Quella, come dice Cuticchio, si guadagna col tempo e con l’esperienza. «Le tecniche servono a imparare a camminare. Se mio padre nel suo tempo viveva in piccoli paesi, nelle città con strade strette, attraversate da gente a piedi o con i carretti o le biciclette e io, nel mio tempo, guido una macchina attraverso larghe strade, è chiaro che non potrò più guidare come faceva mio padre. Allora cosa posso imparare da lui? Conservo l’idea della “scuola guida”, ovvero l’attenzione e la cura del mezzo, delle nuove segnaletiche e del nuovo modo di guidare sulle strade dove ci sono camion e tir e non più piccole automobili, carretti e asini. Allo stesso modo, la tradizione del teatro è quella dell’uomo che si rinnova, inventando tecnologie diverse: spesso più comode e veloci. Bisogna fare attenzione a non contaminare l’acqua del fiume di questa tradizione, perché ormai nel fiume arriva di tutto, non soltanto acqua fresca da varie fonti, ma anche fango e rifiuti, dunque occorre essere accorti. Da un lato, rispetto le tecniche e i saperi della tradizione della mia famiglia, appresi da mio padre, che è stato il mio maestro e che, a sua volta, ha appreso tecniche e saperi da altri maestri; nel suo caso, dalla famiglia Greco. Dall’altro, cerco di incontrare altri maestri e altri saperi e mi aggiorno su cosa accade nel mondo, perché mi relaziono con contesti nuovi e cerco di migliorarmi e di avere una visione più ampia della vita».

La tempesta di Cardiff

Cuticchio spiega le ragioni per cui è passato dal piccolo boccascena dei pupi alla grande scena: «Non è stata un'idea improvvisa. È stata un’esigenza, perché nel 1977 sono stato nel Galles in tourn__ée e non ho trovato teatri all’italiana, ma spazi alternativi, sale che adibivano a luoghi di rappresentazioni, frequentati da musicisti, attori e altri performer. A quel festival, chiamato “dei giovani arrabbiati”, mi avevano invitato perché io qui in Sicilia non mi sentivo compreso. Durante un mio spettacolo a Catania, infatti, avevo detto che non era la chiesa che faceva il fedele, ma era il contrario, perché si può pregare pure sulla cima di una montagna guardando il cielo, se si ha fede. Allora era presente a Catania il giornalista John Francis Lane che scriveva per varie testate europee, che parlò con i curatori del festival nel Galles, che chiamavano giovani artisti incompresi. E questi mi invitarono. Arrivati a Cardiff, il direttore ci mostrò il teatro: un piccolo cortile, una specie di baglio su cui si affacciavano dei balconcini. Il pubblico si sedeva lì e tutto attorno. Il teatro si faceva in maniera del tutto alternativa rispetto alla nostra tradizione. Noi avevamo le valigie di cartone grandi in cui trasportavamo i pupi. Ero con i miei fratelli Nino e Guido e poi c’era Goffredo, un americano che viveva a Palermo in quel periodo, che ci faceva da interprete, e un altro ragazzo, Vittorio, che frequentava il mio teatrino. Mi sono seduto con i miei fratelli e ho detto loro: “Ragazzi, qui, se sappiamo nuotare, dobbiamo nuotare, perché questa è una tempesta che noi non abbiamo mai affrontato”. Loro erano perplessi, si chiedevano come adattarsi alla nuova situazione. Io dissi di dimenticare tutto ciò a cui eravamo abituati. Avevamo portato i pupi lì per fare uno spettacolo, dovevamo solo scomporlo. Quando un film si monta, il regista ha in mente la sceneggiatura e il girato e, quindi, va componendolo come un mosaico. Si realizzano le sequenze, dopodiché si monta il film. Allora abbiamo immaginato l’entrata in scena del pupo presentatore su di un tavolino centrale con delle persone sedute attorno. E così siamo andati avanti, stabilendo una sorta di scaletta, adattando lo spettacolo al nuovo spazio. I pupi si univano al pubblico seduto vicino e, dunque, diventava tutto teatro nel teatro».

A Berlino Est, teatro a scena aperta

Questo è ciò che Cuticchio realizza e sviluppa dal 1977, ovvero da quarantatré anni. «La gente pensa, forse, che io ho avuto certe idee per magia o per genialità. In realtà questo è il risultato delle mie esperienze e delle soluzioni che ho trovato alle varie difficoltà. Sempre nel 1977, dopo Londra, siamo andati in tourn__ée a Colonia e, a seguire, nella Germania Orientale. A Berlino Est, per esempio, trovai un palcoscenico girevole in un prestigioso teatro della città. Forse ce n'era qualcuno anche in Italia, ma io non l’avevo mai visto. Abbiamo montato la nostra struttura al centro di questa grande ruota. Mi sono accordato con i macchinisti. Ho detto loro di iniziare a far girare il palcoscenico dopo che avessero sentito me suonare tre volte il corno. Non abbiamo potuto montare le tele e i cartelloni come eravamo soliti fare. Li ho fatti legare in alto su degli stangoni. Alla fine si scomponevano tutte le coperture. Il pubblico ha assistito a una sorta di dissolvenza. Tutto questo, però, non fu improvvisato. Io attinsi agli insegnamenti di mio padre, che era il nostro capocomico. Io ora ero regista, senza sapere ancora che si chiamasse regia. Attinsi a tutte le capacità che avevo acquisito lavorando dietro le quinte, osservando il lavoro di mio padre e dei suoi aiutanti. Avevo quasi trent’anni: l’esperienza c’era ed ero amante della ricerca e della sperimentazione. Questo mi ha fatto capire che lo spettacolo a scena aperta poteva piacere ancora di più, perché non mi rivolgevo ad un pubblico tradizionale che veniva a sentire la storia dei paladini di Francia, ma un pubblico occasionale che veniva a vedere un teatro antico della Sicilia, che si faceva con i pupi. Non era necessario mantenere la fedeltà della messinscena, perché tanto gli spettatori non capivano la lingua e i pupi erano limitati anche nelle azioni dentro il piccolo boccascena».

La maschera

Cuticchio spiega che, quando, invece, la scena si apre e si scompone, l’oprante è visibile, così come tutto ciò che accade dietro le quinte. Il pubblico, allora, si rende conto che a realizzare lo spettacolo sono poche persone e non tante quante si possa pensare. In questo caso tutto si vede in diretta. Il gesto dell’oprante diventa protagonista quanto quello del pupo. Ma Cuticchio non intende realizzare un’esibizione, come fanno alcuni pupari oggi, scadendo nel mero folklorismo. Egli precisa, infatti, di aver studiato anche a scuola di teatro, di aver girato il mondo e frequentato alcuni grandi maestri, oltre che il teatro del padre. Così Cuticchio realizza un lavoro attorico che gli altri suoi familiari non conoscevano. Agli allievi bisognava far capire che non erano protagonisti, in quanto opranti, ma che piuttosto, i veri protagonisti erano e dovevano restare i pupi. Il pupo non deve essere mai in secondo piano. Come spiega Cuticchio, se anche gli antichi in teatro facevano uso della maschera, vuol dire che non è necessario comparire. «L’oprante deve essere bravo a mostrare l’arte e non a dimostrare. Davanti all’arte non bisogna dimostrare nulla». Per tali motivi, Cuticchio ha atteso parecchi anni prima di realizzare alcuni spettacoli, come La visita guidata all’opera dei pupi e L’urlo del mostro, proprio perché non voleva realizzare qualcosa all’insegna dell’esibizionismo o del narcisismo. «La poesia ci deve essere, ma anche la storia deve mantenere il suo senso».

Le quaranta voci e il significato

Trattando di significato e significante, a proposito di questa sperimentazione, Cuticchio afferma che è come se si entrasse in una foresta, e non nel bosco descritto in precedenza. Si oltrepassa l’opera dei pupi, o meglio, si conduce l’opera dei pupi in una nuova epoca. Cuticchio si pone come una guida che attraversa quel ponte che collega un millennio all’altro. L'esperienza, lo studio e la conoscenza gli indicano la direzione da percorrere, e non il punto di arrivo.

«La pratica è come l’acqua che scorre. Non si può buttare un secchio d’acqua nel fiume, l’acqua deve arrivare spontaneamente copiosa da qualche parte». Cuticchio si avvale del significato e del significante, poiché i suoi spettacoli valorizzano «l’essenza», anche quando sono di breve durata o messi in scena in sedi dove di solito si fa più sperimentazione e meno teatro classico. Allo stesso modo agiva Carmelo Bene, per esempio, nel suo Macbeth, considerato da molti troppo complesso, ma che invece è un capolavoro. Cuticchio, attraverso lo studio e la ricerca costante, ha un senso forte del sonoro, che associa al significato. Pur non comprendendo il senso delle parole, per esempio, di uno spettacolo in lingua russa, nella sua mente arrivava comunque il significato del testo, grazie all’effetto della messinscena, che non era scontato. Dunque, la parte sonora e musicale è percepita da Cuticchio come un vero e proprio linguaggio. Spesso il pubblico dei semplici, assistendo ai suoi spettacoli, resta spiazzato, sorpreso positivamente, perché si aspettava di assistere al teatro dei pupi tradizionale, invece assiste a una vera e propria lezione di teatro. Cuticchio afferma di aver compreso che non basta entrare in scena portando solo un ritmo sonoro che risulta interessante, forse, per pochi minuti, ma non mantiene l’attenzione del pubblico per tutta la durata dello spettacolo. «Se non c’è carne sulla griglia, rimane solo fuoco e fumo. Dunque c’è sempre un significato nella parola. La gestualità, la mimica, il corpo: tutto ha un senso, per me, sul palcoscenico». Cuticchio fa in modo che nel suo teatro a scena aperta ci sia quella forza che deriva dalla stessa attenzione che il pubblico tradizionale aveva per il lungo ciclo della storia dei paladini. Anche in quel caso si può riconoscere significato e significante, ovvero nelle voci che utilizza Cuticchio, come suo padre. «Non sono le voci attoriche, ma le voci epiche, come quella tremolante, che serve a fare viaggiare la voce, quando ancora non esistevano i microfoni». Cuticchio ha imparato a eseguire le quaranta voci che utilizzava il padre, per poi integrare tale repertorio con altre da lui inventate. «Significato e significante, come nello spettacolo classico dei paladini, io li uso anche nello spettacolo a scena aperta. Ed è questa la sperimentazione di cui io parlo. Per continuare a far vivere il teatro dei pupi bisogna aggiungere sempre acqua fresca».

Testi citati e letture consigliate:

Alessio Arena, Il teatro dei pupi siciliani, in “Eco Siciliano”, n. 55, Paranà, Argentina, settembre 2019.

Mimmo Cuticchio, Alle armi, Cavalieri!, Roma, Donzelli, 2017.

Ferdinand de Saussure, Corso di linguistica generale, Milano, Laterza, 2009.

Mario Gandolfo Giacomarra (a cura di), Epica e storia, Museo Internazionale delle marionette Antonio Pasqualino, 2005.

Antonino Pasqualino, I pupi siciliani, Palermo, Museo Internazionale delle marionette Antonio Pasqualino.

Giovanni Ruffino, Sicilia. Profili linguistici, Milano, Laterza, 2017.

Valentina Venturini, Nato e cresciuto tra i pupi, Napoli, Editoriale Scientifica, 2017.

Valentina Venturini, Il teatro di Gaetano Greco, Napoli, Editoriale Scientifica, 2018.

La prima puntata (link)

La seconda puntata (link)

Foto di copertina: Paladini sul palcoscenico, courtesy of Figli d’Arte Cuticchio