12 novembre 2020

«Egli correva a visifonare a Narilma, che in quel periodo era la citobotanica della città»

La lingua della fantascienza italiana

 

Breve cronistoria ragionata

 

Certe boutade possono pesare come macigni. La celebre battuta della Ditta Fruttero&Lucentini (ironicamente ribattezzata more fantascientifico “Congettura F&L” sulla rivista “Robot” di Vittorio Curtoni) “Un disco volante non può atterrare a Lucca” sintetizza bene un certo atteggiamento blasé piuttosto diffuso – soprattutto in ambienti critici ed editoriali – nei confronti della fantascienza italiana. Non scioglie la questione, anzi la complica una rapida ricognizione a volo d’uccello – a mo’ di distant reading – sulla fantascienza italiana dell’epoca d’oro, la seconda metà del Novecento, da cui si ricava l’impressione che si tratti quasi di – è il caso di dire – un universo a sé, con i suoi scrittori celebrati (due nomi su tutti, Lino Aldani e Gilda Musa; le sue riviste (la più nota, la mondadoriana “Urania”, è soltanto la punta di un iceberg, formato da testate dai titoli emblematici come “Oltre il cielo”, “Futuro”, “Robot”, “Nova Sf*”); le sue case editrici (Editrice Nord, Fanucci, Solfanelli, Perseo, Delos); un suo mercato (anche estero: Aldani e Musa sono tradotti in tutto il mondo, dalla Francia al Giappone). Una condizione di oasi per chi è propenso all’ottimismo; un vero e proprio ghetto per altri.

Per la fantascienza italiana a difficoltà si è sommata difficoltà: se per molti decenni la fantascienza in sé, come genere letterario, non ha scaldato i cuori, e le menti, di critici e studiosi (al punto da non risultare nemmeno letteratura, bensì paraletteratura), tutto ciò è stato a maggior ragione ancora più stringente per la produzione italiana, tenendo soprattutto conto del fatto che la sede per eccellenza della ricezione del genere in Italia, “Urania” (rivista e poi collana editoriale), per decenni non ha preso in considerazione autori italiani – relegandoli al massimo nello spazio di una rubrica, Il marziano in cattedra. Così, mentre il fondatore di “Urania”, Giorgio Monicelli, incoraggiava le scritture italiane con ambientazioni nostrane (la sua direzione copre l’intero arco degli anni Cinquanta), la successiva lunghissima gestione di Fruttero e Lucentini (su due decenni, 1964-1985), che ha avuto il merito di dare grande popolarità a “Urania”, ha però decretato un sostanziale ostracismo nei confronti degli scrittori italiani, i quali hanno dovuto riparare per forza di cose su altri lidi – meno noti e visibili. D’altra parte, gli eventuali omaggi al genere di un Italo Calvino (Le cosmicomiche) o anche di un Tommaso Landolfi (Cancroregina) erano considerate divagazioni – se non eccezioni – rispetto al consueto regime degli autori del canone, o aspiranti tali.

 

PCFI ovvero il Primo Corpus Fantascientifico Italiano

 

Irretiti anche noi dal fascino dell’acronimo – come vedremo, uno degli artifici grafici più in uso –, vi proponiamo un breve viaggio testuale attraverso il PCFI ovvero il Primo Corpus Fantascientifico Italiano, così formato: Lino Aldani, La croce di ghiaccio e Febbre di luna (Perseo, 1989 e 2004); Gilda Musa, Fondazione “ID” (Editrice Nord, 1981); Nicoletta Vallorani, Il cuore finto di DR (Premio Urania 1993, ristampato da Todaro, 2003); Valerio Evangelisti, Nicolas Eymerich, inquisitore (Urania, 1994, ma poi riproposto in varie edizioni, fino all’editio maior Eymerich. Libro uno, a cura di Alberto Sebastiani, Mondadori, 2019); Pianeta Italia. Gli autori della world sf italiana (Perseo, 1989, antologia a cura di Lino Aldani e Ugo Malaguti, in cui spiccano altri autori di rilievo come Franco Forte, Renato Pestriniero, Vittorio Catani). Naturalmente si tratta di un primissimo corpus, esiguo ma a suo modo si spera rappresentativo, in quanto raccoglie alcuni degli autori più significativi, attestati su un arco temporale che va dagli anni Sessanta (i racconti di Febbre di luna risalgono a quel periodo) fino ai giorni nostri (il caso di Eymerich l’inquisitore da poco ristampato).

A parte l’uso prevedibile del lessico scientifico di matrice soprattutto – ma non solo – astronomica (nomi di pianeti e galassie più o meno noti; fenomeni fisici menzionati con particolare accuratezza da Evangelisti che usa neutrini, principio di indeterminazione di Heisenberg, redshift), astronautica (astronave e sinonimi quali navicella, stazione spaziale, shuttle, financo cosmonave di Gilda Musa con un rimando all’immaginario russo) e robotica (robot, automa, androide, umanoide), il tratto più caratteristico, in quanto naturale portatore di novità e modernità, è il neologismo, ottenuto in diversi modi. Mediante l’unione di due nomi, con o senza trattino: cabine-terminali, spazioporto, (Musa); casa-femmina, astroporto (Aldani); donna-lucertola (Ugo Malaguti, Pianeta Italia); magari attingendo al greco: ecochinesia (Musa), ipnofène (Aldani). Mediante l’uso di prefissoidi: autosigillò, antirumore (Musa), aerorazzo, superossigenazione (Aldani), aeroscalo (Vittorio Catani-Eugenio Ragone, Pianeta Italia). Si segnalano anche casi di parole macedonia: plasticemento (Aldani); oppure di neologismi semantici: alienità (Renato Pestriniero, Pianeta Italia). Meno frequenti invece i neologismi verbali: visifonare (Vittorio Catani-Eugenio Ragone, Pianeta Italia, sul modello di telefonare). Spesso i neologismi sono frutto della fantasia dell’autore (ammiccando magari a lingue esotiche, africane o orientali, o al linguaggio della pubblicità): tsubo, ohloa-kloha (Aldani); odrhansi, jursfih (Claudio Tinivella, Pianeta Italia); neutril (Anna Rinonapoli, ivi). Un caso curioso sono i falsi neologismi (smascherabili oggi anche grazie a Internet): terrestrizzazione usato da Aldani e Musa, che non risulterebbe registrato dai dizionari (il Battaglia documenta terrestrizzare e terrestrizzato), in realtà risalirebbe addirittura al XVIII secolo, al francese Benoît de Maillet; oppure ektroma, sempre impiegato da Aldani, è una parola del greco antico.

La sintesi è considerata un altro tratto distintivo della modernità, perciò hanno buon gioco le sigle: CERIL (Musa), IRS (Aldani), DR, DP, FEPA (Vallorani), K 1365 (Miriam Poloniato, Pianeta Italia), B1/III (Giampiero Prassi, ivi). A livello grafico un’altra risorsa frequente è l’uso del maiuscolo, con diverse funzioni: “inserire generalità richiedente” (riproduce i caratteri dello schermo, Vallorani); “mettere a confronto ORA le vostre due civiltà” (enfatizza il parlato, Franco Forte, Pianeta Italia); “i vegetali erano VERAMENTE intelligenti” (enfatizza la diegesi, Miriam Poloniato, ivi); “RUMBLE RUMBLE RUMBLE” (funzione onomatopeica, quasi fumettistica, Giorgio Ferrari, ivi).

Un altro ambito emblematico è l’Onomastica, con cui spesso si persegue un effetto straniante: da qui la netta prevalenza di nomi e cognomi in inglese (Robert, Paul, Mike, Browning, Fitzgerald, Goldstein ecc.) e di sapore esotico (Mordio, Versio, Gavor, Fhoni, Thungus ecc.). Di gran lunga meno frequenti i nomi italiani, e un incipit come “La corriera partita da Chiusi arrivò a Montepulciano” (Roberto Genovesi, Pianeta Italia) rimane un’eccezione – il che parrebbe, in fondo, dare ragione alla “Congettura F&L”. Un campo semantico da cui si pesca abbondantemente è la mitologia: Achille (Aldani), Prometeos (Evangelisti); Nereide, Ariadna (Musa), Penelope (Vallorani).

La spiccata propensione alla modernità non preclude però l’uso di tutte le risorse della lingua, dai termini aulici (mercede, sempiterne, plaghe, zolfigni in Aldani) a quelli colloquiali (predicozzo, tanghero sempre in Aldani) e ai diminutivi (secoletti in Rinonapoli; lontanuccio, cosette in Musa). C’è spazio anche per il linguaggio poetico: Gilda Musa, attiva anche come poetessa, ricorre a espressioni liriche (declivio lontanante), inversioni (satinato ripiano, arabescato disegno), persino alla chiusa metrica (gli ancestrali timori dell’ignoto a fine frase è un endecasillabo).

Degli autori presi in esame, i due più recenti, Vallorani ed Evangelisti, sembrano fare un uso assai limitato della neoformazione. Vallorani attinge al greco e al latino (korè, fotimago), alla sostantivizzazione (i sintetici), di rado alla creazione autonoma (sintar); ancora più parco parrebbe Evangelisti: se psitrone e il relativo aggettivo psitronico non possono essere considerati a tutti gli effetti neologismi (appartengono alla categoria dei “falsi neologismi”, in quanto coniati nel 1967 dal matematico inglese Adrian Dobbs per il suo modello fisico della mente), l’unico vero neologismo in oltre duecento pagine risulterebbe neuroattrattore (coniato con allusione all’attività della mente e del cervello, campo semantico per altro classico del racconto fantascientifico, già utilizzato da Gilda Musa e Aldani), che lo stesso autore mette tra virgolette, quasi a evidenziarne la singolarità. Altre, infatti, sono le strategie lessicali di Vallorani ed Evangelisti, interessati più a un genere postmoderno misto che alla pura fantascienza. Così, nella Milano distopica del Cuore finto di DR (tra quartieri futuristici come Siro-Stadium e persistenze localistiche dal nome di Vico del Fieno) Vallorani si affida spesso a un lessico basso fino al turpiloquio, che risente probabilmente anche di un certo doppiaggio filmico: fottutissimo cazzo, ’fanculo, a me mica mi ci hanno fatto, mandava in bestia, fatta come una biscia, bella sfiga, succhiotto. Tutto ciò avviene soprattutto nelle parti mimetiche del dialogato, dove il ritmo è vivace e percussivo, mentre nelle parti narrative il movimento non è dato dal lessico, tendente alla medietà, ma dalla sintassi nervosa, fatta di frasi nominali, ripetizioni, paratassi: “Troppe coincidenze. Non se ne viene fuori se non si riesce a fare qualcosa, qualcosa che smuova la situazione. Ma fuori è notte da un pezzo, e la giornata è finita”. Evangelisti, invece, nella vertiginosa combinazione di scienza e storia ricorre – nelle parti storiche – a una patina aulica e latineggiante: fumigare, putrescente, lucore, afrori (ma anche direttamente al latino, magister, rex nemorensis, quaestiones); oppure enfatizza il tratto spagnolo: patio, criado, moreria, redondel. Un precedente in tal senso – mai segnalato dalla critica a quanto ci risulta – si ravvisa nella Croce di ghiaccio di Aldani, sovente screziata di termini latini (in medio stat virtus, more solito) e spagnoli (olé, caballero, El Diablo, carretera) – scelta pienamente giustificata dalla trama e dai personaggi, trattandosi del racconto della missione evangelizzatrice di alcuni gesuiti.

 

Un futuro modello intertestuale

 

Ci piace infine segnalare un’ultima questione di natura intertestuale, da cui chi indagherà la lingua della fantascienza italiana non potrà prescindere. Nella lingua di un genere così esposto alla cultura straniera, soprattutto americana, sembra agire una duplice influenza: quella del cosiddetto doppiaggese (l’italiano del doppiaggio filmico) e quella del traduttese (l’italiano delle traduzioni). Si tratta di due aspetti ancora poco studiati a livello intertestuale ma meritevoli di grande attenzione. In questa sede ci limitiamo a due rapidi esempi. Difficilmente l’uso di fottutissimo in Vallorani si può spiegare alla luce di una mimesi dell’orale (nessuno parla così): acquista invece un senso alla luce degli innumerevoli film americani in cui fucking, fucked è stato doppiato fottuto per mere questioni di sincronismo labiale. L’impiego in Evangelisti della virgola davanti alla congiunzione e in una frase estremamente lineare (“considero le sue ricerche demenziali, e prive di ogni interesse”) non ha alcuna funzione ritmica (in un dialogo dove conta la velocità, non la teatralità), bensì è un calco dell’uso inglese “, and” riprodotto quasi sempre nelle traduzioni.

 

Breve chiosa bibliografica

 

Il lavoro di studio sulla fantascienza italiana è appena all’inizio. Segnaliamo alcuni contributi per muoversi in quello che è un vero e proprio universo. La prima personalità della cultura “ufficiale” italiana a capire il valore della fantascienza fu il poeta e critico Sergio Solmi – figura colpevolmente dimenticata –, i cui scritti sull’argomento si leggono in Saggi sul fantastico. Dall'antichità alle prospettive del futuro, Einaudi, 1978. Inoltre, si vedano la voce Fantascienza di Antonio Fabozzi e Adolfo Fattori, in Letteratura italiana, Einaudi, 1989, vol. III, pp. 344-71; i saggi pionieristici di Giulia Iannuzzi, Fantascienza italiana. Riviste, autori, dibattiti dagli anni Cinquanta agli anni Settanta, Mimesis, 2014; Distopie, viaggi spaziali, allucinazioni. Fantascienza italiana contemporanea, ivi, 2015. Di Tommaso Pincio, autore fra l’altro di un’autentica gemma della SF italiana come Lo spazio sfinito, si trova online lo stimolante saggio pubblicato originariamente nel terzo volume dell’Atlante della letteratura italiana di Einaudi: http://www.nuoviargomenti.net/marziano-in-cattedra/. Non ci risultano, invece, studi di taglio stilistico e linguistico sull’argomento – l’unico è su uno dei precursori del genere, Paolo Mantegazza, a firma di Mirko Volpi, Mantegazza onomaturgo. Note lessicali su “L’anno 3000. Sogno”, “Studi di lessicografia italiana”, vol. 37 (2020).

 

Immagine: Copertina del primo numero della serie I romanzi di Urania: Le sabbie di Marte di Arthur C. Clarke uscito in edicola il 10 ottobre 1952

 

Crediti immagine: Archivi Mondadori, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

 


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