È una storia di fughe e approdi quest’opera di Gaia Manzini costruita sul bordo delle parole, tesa sul filo di un linguaggio sghembo, menzognero, inadatto a esprimere l’esperienza. Il titolo recita Nessuna parola dice di noi (Milano, Bompiani, 2021, pp. 218), ed è una pièce continua quella che Ada mette in scena, un tentativo di schermarsi e mascherare l’esistenza, di porre un muro fra sé e gli altri. Questa giovane protagonista che di mestiere è copywriter intrattiene con le parole un rapporto complesso, irto di contraddizioni e sbandamenti; bravissima a dire per gli altri, a raccontare le cose (siano esse prodotti, viaggi, situazioni da ‘confezionare’), avverte rispetto all’io una fallacia comunicativa, uno scarto incolmabile tra i lemmi e il suo mondo. Difficile stabilire il grumo più doloroso, giacché Ada non sa narrare di Claudia, la figlia che ha avuto a 17 anni, non riesce a fare la madre – a trovarsi un ‘nome’ – a edificare con la propria un rapporto sano, paritario, sciolto da giudizi etico-morali («Per te tua figlia è come se non esistesse, mi aveva rimproverato una volta, non le parli mai, non la guardi neanche», p. 172).

Una maternità dolorosa

Ecco il primo fuoco dell’opera: una maternità dolorosa fissata da varie angolazioni, priva di orpelli, costruzioni mitizzanti, densa di rancori e nodi irrisolti. Il pensiero va a Francesca Sanvitale (Madre e figlia, Torino, Einaudi, 1980), a Carla Cerati (La cattiva figlia, Milano, Frassinelli, 1990), a Fabrizia Ramondino (Terremoto con madre e figlia, Il Melangolo, 1994), raffinate artefici di variazioni sul tema, osservatrici acute di quest’atavico scontro. La prosa di Manzini è del resto intessuta di memorie letterarie, chiamate a convergere in un impianto ‘aperto’ in cui l’immediatezza comunicativa procede in parallelo a una scrittura multiforme, improntata a vari modelli, capace di alternare registri (pubblicitario, memoriale, lirico, notarile) e piani temporali.

Milano e il lago

Il governo della materia non è dunque sacrificato al tesoro tematico, sicché l’opera risulta altra, felicemente attuale e al tempo stesso lontana dall’asfittico panorama odierno. Benché percorso da motivi attualissimi (leggi del marketing, precariato, competizione lavorativa e relazionale), Nessuna parola dice di noi è soprattutto una storia di ri-costruzione, il percorso di una donna che salda i dati evenemenziali in un lungo, ordinato flashback, solcato qua a là da eventi più prossimi, da un oggi rimemorante volto a comprendere – ed elaborare – l’assestamento dell’io intradiegetico. Il proposito della scrittura appare quello di creare un’interconnessione fra spazio e tempo, tanto che l’autrice insiste sui luoghi, sul loro rapporto con gli stati emotivi. A Milano, perimetro del lavoro, della vita rattoppata – poi guarita – si oppone il lago, dove la famiglia di Ada ripara in seguito alla sua gravidanza, luogo della sospensione e dell’oblio, di Claudia e della madre. E poi l’America, in cui la giovinezza finisce, terra promessa – straniera – dalla quale ripartire. È qui che Ada tenta di ricomporsi, istituendo un cronotopico collegamento con il proprio destino: dove è ‘morta’ (a Newport, dieci anni prima, rimase incinta) rinascerà.

Sodalizio indecifrabile

L’occasione è data da una trasferta di lavoro, fortemente voluta dal collega Alessio, un creativo con cui Ada stringe un sodalizio indecifrabile, giocato sull’attrazione e l’impossibilità del domani. Ecco l’altro fuoco del romanzo, la straziante indicibilità dei rapporti umani. Alessio è omosessuale, «inaccessibile» («Sei sempre stata attratta dalle persone inaccessibili» dirà la madre alla giovane, p. 82), pieno di vanità e slanci, tenerezze e invidie. Si conoscono e si amano, per quanto possa durare – qualunque cosa significhi. La finezza dell’autrice risiede, qui, nella calibrata oscillazione fra trasporto emotivo e lucidità analitica, sicché lo sguardo di Ada appare tramato di un lieve disincanto, necessario alla costruzione di una voce nuova, che possa rivendicare – finalmente – il diritto a non dire.

Furia di comprensione

Se quella con Alessio è una storia di «fantasmi» (sarà lui stesso nel finale a menzionarli, cfr. p. 217) il disagio dell’io si lega a una ‘minaccia’ reale, al tradimento linguistico in rapporto al mondo, alle parole mai davvero giuste, mai davvero sincere. È questo spossessamento che genera in Ada una smania violenta, una furia di comprensione che si traduce in morsi («Mi sono avvicinata, ma invece di baciarlo, gli ho morso piano un labbro», p. 140) e gesti rabbiosi (dopo un confronto-scontro con la madre la protagonista si lascia andare a uno sfogo: «Ho preso allora il guscio di una noce che era rimasto sul tavolo e l’ho scagliato verso il bosco con tutta la forza che avevo», p. 204), come a delegare al corpo il tentativo più estremo di narrazione di sé.

Il linguaggio del cibo

Anche il cibo svolge un ruolo chiave, poiché diviene segno dalle molteplici accezioni, un linguaggio che consente a Manzini di esprimere – tramite Ada – la costruzione della soggettività, il desiderio dell’altro, la ricerca d’indipendenza. L’uso esteso della metafora alimentare impone una riflessione sul femminile, sull’edificazione di un ‘io’ che passa attraverso la sovversione, mediante la ribellione a un’identità domestica. La protagonista, in tal senso, assume i tratti di un soggetto nuovo, che frantuma gli schemi già dati proiettandosi verso dimensioni non determinate, segnate dal corpo che mangia, che desidera, che si nutre. Soltanto alcuni prelievi. Mentre è con Alessio in un rifugio-ristorante, Ada ordina tagliatelle al sugo di lepre certa di gustarle, come sempre, con gesti lenti: «Nel frattempo erano arrivati i nostri piatti di tagliatelle, un tagliere con il formaggio della zona, una caraffa di vino che avrebbe bevuto solo Alessio» (p. 67). La conversazione prende una piega imprevista, fastidiosa, e così la pasta ha il sapore di carta, quasi a segnare la compenetrazione tra la dimensione fagica e il sentire dell’io. E ancora, sullo yacht vintage nella baia di Seattle, con lo sguardo di Alessio e del collega Chris puntati addosso, Ada si dirige al buffet: «Una tartare di pesce, del pepe rosa, un ravanello, il ricciolo sinuoso di una salsa verde. Ho portato il cucchiaio alla bocca per poi trattenerlo qualche secondo tra le labbra. Chris mi fissava, era sdraiato su un materassino candido, le mani dietro la testa, gli occhi grandi. Ho guardato il cucchiaio e l’ho leccato una seconda volta come se ci fosse rimasta qualche traccia della soia dolce che mi piaceva» (p. 130). È un gesto erotico, provocatorio nel senso di un’autodeterminazione esplicita, forse ancora latente (Ada è insicura, si aggrappa agli altri) ma significativa, giacché il corpo che mangia – che sceglie volontariamente di mangiare – esprime una volontà di ri-costruzione, di definizione di sé.

Un senso di rinascita

A questo si accompagna, come è ovvio, un intenso lavoro sul linguaggio, che fa uso di metafore evocative, che caratterizza l’asindeto come segnale e forma dei momenti di maggiore crisi. Un solo esempio: «Dio, il lavoro, l’amore, la fedeltà, la famiglia, i figli, la possibilità di averne. Tutto andava in pezzi sul bordo tagliente delle parole» (p. 37). Su tutto – nonostante tutto – aleggia un senso di rinascita, un desiderio di tornare alla vita pura, nuova, libera dai pregiudizi. Lo cogliamo nei riferimenti all’acqua, alla sua timida carezza: «Di fianco a noi c’era una bambina, l’avevamo già vista i giorni precedenti. “Ciao”, ha risposto Claudia timida, e ci siamo avviate in tre verso la prima boa. Quando mi sono immersa, ho sentito la carezza gelida dell’acqua fin dentro i pensieri» (p. 180).

Immagine: Donna al tramonto del Sole

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