Si sbaglierebbe molto a disdegnare in blocco la produzione di romanzi gialli, oggi obiettivamente eccessiva: accanto a troppi prodotti di consumo, penalizzati dall’esclusivo interesse per la trama e dalla conseguente scarsa cura formale, non mancano libri in cui è evidente che il genere viene interpretato in maniera evoluta, senza rinunciare a ciò che fa di un testo un’opera letteraria. Rientra pienamente in quest’ultima categoria il primo romanzo di Francesca Serafini: Tre madri (La nave di Teseo 2021).

Come spesso capita nelle migliori realizzazioni del giallo, il mistero da risolvere ha un peso tutto sommato marginale, agendo più che altro come pretesto narrativo per rappresentare una serie di ambienti e personaggi. Senza rifugiarsi nella facile soluzione dell’ipercaratterizzazione ‒ una scorciatoia seguita da molti romanzieri di oggi ‒ Serafini restituisce figure dotate di piena verosimiglianza, secondo un principio sempre valido della scrittura romanzesca, per cui nella normalità si possono celare illimitati aspetti significativi, per nulla banali dell’esperienza umana.

Anche se riconoscibile con precisione, il teatro della scena (Sant’Arcangelo di Romagna e la comunità di Mutonia, in cui vivono artisti dediti al recupero di scarti tecnologici) è reso in modo volutamente poco dettagliato, come a significare che ciò che conta soprattutto sono le situazioni e i tipi umani descritti, che potrebbero ritrovarsi molto simili anche in altri contesti. Ne è una spia l’uso dei due nomi parlanti usati in luogo di quelli reali: Montezenta (zenta è il corrispettivo romagnolo dell’italiano gente) e Ca’ de Falùg (come chiarito nel testo, falùg vale tanto ‘falò’ quanto ‘faville’, con allusione alla componente stregonesca che il sospetto di alcuni attribuiva agli stranieri arrivati a Mutonia, e insieme all’indole creativa: due modi di vedere la stessa realtà, come sempre capita di fronte a ciò che è nuovo o deviante rispetto alla cosiddetta normalità).

Una narrazione atipica

Una caratteristica peculiare di Tre madri è la posizione assunta dalla voce narrante. L’orientamento prevalente nella narrativa gialla prevede l’adozione di un narratore esterno pronto ad assumere il punto di vista del protagonista o di altri personaggi, e comunque a rimanere totalmente invisibile. Serafini dà vita invece ad una sorta di triangolazione tra voce narrante, personaggi e lettore. Infatti il ricorrente emergere della prima come entità dotata di una sua autonomia, in passi in cui prendono corpo piccoli fenomeni di straniamento, chiama in causa direttamente il lettore, dato che gli impedisce l’immersione completa nel fluire della storia.

L’artificialità che ogni narrazione inevitabilmente sconta non solo non viene nascosta, come normalmente accade nei romanzi “di trama”, ma anzi è esibita, per esempio palesando le scelte non sempre pacifiche che deve attuare chi racconta: «Prima di sapere chi sono ‒ so che avrebbe la sua utilità ‒ è più importante sapere di che cosa stanno discutendo» (p. 30); «dovrei prendere un appunto su questo» (p. 53); «indipendentemente dalla differenza d’età (e da altre ragioni che riferirò a tempo debito)» (p. 97); o denunciando un trucco a cui si deve ricorrere: «Tutto questo va immaginato in inglese, dal momento che Lisa per mettere a suo agio Conrad Fitzgerald […] ha scelto di parargli nella sua lingua madre» (p. 85); o persino esibendo la solidarietà verso la protagonista: «avrò occasione di raccontare perché non guida ma adesso bisogna correre con lei in commissariato» (p. 100); «Si limita a dire questo, trattenendo per sé la battuta che gli è venuta in mente su Villar e che per rispetto di Lisa ometterò anch’io. Specie ora che, chiusa la telefonata, sembra sopraffatta dallo sconforto» (p. 143).

Coerentemente con quest’impostazione narrativa, si nota che i dialoghi hanno un peso piuttosto marginale (a volte addirittura parti anche lunghe di conversazioni vengono riportate in modo indiretto), il che costituisce un’altra marcata differenza rispetto ai canoni del giallo. Tra l’altro, essendo Serafini nota per la sua attività di sceneggiatrice, a priori si sarebbe potuto immaginare che avvenisse l’esatto contrario: evidentemente passando al romanzo l’autrice ha voluto cambiare in modo radicale le regole del gioco.

Ogni cosa merita attenzione

Molti aspetti della narrazione portano ad inquadrare Tre madri nel filone del romanzo postmoderno che, nonostante sia stato dato frettolosamente per morto, continua ad esistere e a dare qualche buon frutto. Innanzi tutto salta agli occhi il diffuso citazionismo che pervade tutto il testo, solo a volte in forma esplicita, più spesso invitando il lettore alla sfida di riconoscere dove le fonti (elencate alla fine) hanno lasciato tracce. Il gioco è esibito sin dall’incipit hemigwayano («Di là dal fiume e tra gli alberi […]»: p. 11). In secondo luogo, è rilevante che i riferimenti coprano tutti i possibili livelli della cultura: sono così convocati testi della letteratura novecentesca più raffinata (Kafka, Gadda, Nabokov) e degli scrittori di oggi a cui l’autrice probabilmente guarda con più interesse (Teresa Ciabatti, Giordano Meacci, Sandro Veronesi); e inoltre: saggi di Jung, vocabolari, canzoni di De André (da cui è ripreso il titolo) e dei Radiohead, film d’autore (La strada, Full Metal Jacket) e film pop divenuti di culto (A piedi nudi nel parco, The Blues Brothers), serie TV (River, Unforgotten). Non manca un videogioco (Candy Crush, compulsivamente attivato dalla protagonista in ogni possibile circostanza).

La mescolanza dei piani sembra rispondere non solo ad una propensione estetica, ma anche ad un modo di orientare lo sguardo sul mondo. Spesso le categorie cólte che alla voce narrante sono familiari possono essere adoperate per dar conto di aspetti ordinari della vita di ogni giorno: «il cedimento seriale a cui la costringono ogni volta la seduzione del risparmio al momento dell’acquisto e l’horror vacui nella vaschetta quando c’è da rifornirla» (p. 31). Si sbaglierebbe a leggere un passo come questo unicamente come riflesso della propensione all’ironia (che naturalmente è ben presente): in gioco c’è anche il riconoscimento dell’osservazione del quotidiano quale efficace strumento conoscitivo.

A questo proposito viene enunciato un preciso programma: «Se riuscissimo ad attribuire questo tipo d’importanza a ogni cosa anche infinitamente piccola della nostra quotidianità avremmo tante occasioni per allontanare da noi tutto quello che è ingestibile e spaventoso. Saremmo costantemente occupati ad affrontare questioni dalle conseguenze comunque irrilevanti quale che sia il loro grado di solubilità. O è vero il contrario, invece. Che è proprio grazie a queste inezie che ci complichiamo la vita anche quando piuttosto dovremmo passare il tempo a ringraziare la sorte per quanto siamo dei privilegiati» (p. 31).

La correctio attiva nel brano appena citato non è episodica, ma costituisce la spia di un atteggiamento ricorrente: la messa in discussione di affermazioni appena proposte per verificarle, discuterle, eventualmente contraddirle. È una lezione che alcuni grandi scrittori novecenteschi, come ad esempio Calvino e Sciascia, hanno lasciato in eredità: ed è consolante che ci siano autori disposti ad accettarla, in tempi un cui la polarizzazione manichea delle opinioni provoca spesso un’avvilente crisi della dialettica, sostituita dal facile ricorso agli slogan.

L’indole aperta e curiosa che si manifesta nelle pagine di Tre madri frutta pagine di ammirevole finezza psicologica; eccone un esempio: «Lo dice con un entusiasmo inedito per lui e che ora Lisa può classificare come quello degli insicuri che troppo spesso liquidiamo come ignavi, tutte quelle persone che sono talmente spaventate dall’eventualità di sbagliare che piuttosto restano ferme. E però – questa la differenza con gli apatici irredimibili – pronti a rianimarsi appena qualcuno si prende la briga di decidere per loro come devono agire, alleggerendoli della responsabilità dell’errore, dovesse capitare, non essendo a quel punto gli artefici del piano» (p. 224). Si apprezza, in passi del genere, la capacità di osservare la realtà senza fermarsi alla superficie delle cose, e l’esattezza nel rendere tanto i singoli elementi quanto le relazioni che li legano.

La lingua sotto indagine

Tra gli aspetti della realtà che più interessano alla voce narrante c’è la lingua italiana: impossibile non mettere in relazione questo aspetto con la formazione dell’autrice. La propensione alle annotazioni metalinguistiche è piuttosto comune nella narrativa di oggi; ma in Tre madri si registra un’intensificazione sia nella quantità sia nella qualità. Vengono spesso richiamate nozioni specialistiche, che dànno un carattere peculiare al racconto, facendo immaginare che il lettore a cui Serafini si rivolge in prima istanza sia idealmente un compagno di nerditudine (per usare un efficace neologismo diffuso per ora solo tra le persone che designa).

Coerentemente con le modalità narrative prima sommariamente descritte, le chiose metalinguistiche non riguardano il piano dei personaggi (con qualche eccezione, come questa: «Alibi in latino vuol dire ‘altrove’ e a un certo punto della mattinata il significato etimologico della parola finisce per rappresentare nella testa di Lisa il posto dove vorrebbe trovarsi: da un’altra parte rispetto all’ufficio»: p. 160), ma rimangono interne al discorso diegetico.

Si ragiona a volte sulla poca perspicuità di un’espressione stereotipata: «Alla ricerca di River che non porta da nessuna parte, si è appena aggiunto un crimine disumano (chissà perché si dice così, poi, se gli esseri umani questo sono: capaci di meraviglie e splendori e però anche di ficcarsi negli abissi; e tutto questo messo insieme ‒ le potenzialità dell'intelletto e la ferinità delle bestie, non necessariamente in questo ordine nel parallelismo, visto che quelle almeno uccidono solo per sopravvivenza – li rende ciò che sono: umani! Nel bene stellante e nel male più oscuro. Umani, sempre. E magari, una volta capito, in questo caso si potrebbe aggiungere vacuità, come marca, accanto al lemma del prefisso dis-)» (pp. 143-44).

In altri casi la voce narrante riflette su espressioni da lei stessa usate, valutandone l’efficacia: «C’è un rigore neo-plastico nel modo in cui sono disposti libri e incartamenti sulla scrivania davanti a Lisa. O, forse, arrivati al 2019, bisognerebbe dire piuttosto vetero-plastico: con un dubbio a margine sull’opportunità di battezzare con neo- tutto ciò che nelle intenzioni si vorrebbe nuovo per sempre (vai a sapere se è per questo che neoplastico, nonostante il fascino perdurante delle opere di Mondrian, in italiano ha specializzato il suo significato in àmbito medico per negarla proprio, la bellezza)» (p. 189; si noterà in queste righe il riemergere della correctio).

L’arte dell’equilibrio

Passando a descrivere la lingua non più come oggetto ma come strumento del racconto, si deve notare che in Tre madri non si perseguono, come a questo punto si potrebbe forse immaginare, effetti di espressivismo, ma ci si mantiene all’interno del perimetro dell’italiano medio. Ciò non esclude affatto, delimitando quel perimento un territorio vastissimo, la possibilità di sfruttare largamente le risorse lessicali dell’italiano cólto, come d’altronde è necessario per raggiungere quei risultati di precisione analitica di cui s’è parlato. Ma tendenzialmente vengono evitate escursioni nei campi non compresi nel modello scelto. Notevole soprattutto che ‒ contrariamente a quanto si riscontra in moltissimi gialli italiani degli ultimi decenni ‒ non si dia spazio se non molto marginalmente alla regionalità (conseguenza diretta della scelta di privilegiare il piano del narrato rispetto a quello dei dialoghi).

Solo episodicamente possono comparire rarità lessicali, tra cui la più notevole è emmenalgia, parola che sta cominciando a conoscere una qualche diffusione grazie al fatto che si ritrova nell’ultimo premio Strega, Il colibrì di Sandro Veronesi, che però l’ha dichiaratamente presa da Lui, io, noi, il libro su De Andrè scritto da Meacci e Serafini in collaborazione con Dori Ghezzi. È un tipico caso di neologismo creato per identificare un concetto per il quale l’italiano non aveva ancora una parola: una nostalgia rivolta al futuro, un dolore per l’impossibilità di continuare ad avere qualcosa a cui si tiene (la prima parte della parola deriva dal verbo greco emmeno ‘continuare, permanere, perseverare’); il termine non viene spiegato espressamente, ma il lettore è indirizzato verso la corretta interpretazione dal contesto: «Quello sgomento negli occhi che non è dolore per la persona che ci lascia, ma piuttosto una qualche forma di emmenalgia per il dominio che avremmo voluto continuare ad esercitare su di lei, avendo a disposizione altro tempo per farlo» (p. 49).

Il piano della lingua in cui la scrittura di Serafini si rivela più propensa a cercare soluzioni non convenzionali (come si può notare in alcuni passi citati in precedenza) è la sintassi, che si allontana molto dalle tendenze oggi prevalenti alla semplificazione paratattica. I periodi sono molto spesso ampi, e soprattutto costruiti in maniera non diretta, attraverso una vasta gamma di strutture tra cui una posizione di primo piano hanno gli incisi (anche posti in sequenza, o uno dentro l’altro). Una spia visiva è costituita dall’uso intenso e variegato dell’interpunzione (come davvero non sorprende, avendo l’autrice scritto un bel libro di istruzioni per l’uso: Questo è il punto); impossibile non notare ad apertura di pagina, per esempio, la forte presenza dei trattini.

Ma quanto appena detto non deve far pensare ad una prosa pesante o ostica: la lettura scorre anzi in modo molto fluido. Vengono fatte convivere, dando la sensazione di una grande naturalezza, complessità e leggibilità; questa descrizione vale per la sintassi, ma si può applicare anche alla costruzione narrativa e alle modalità della rappresentazione: l’autrice appare perfettamente a suo agio nel praticare la difficile arte dell’equilibrio.

Crediti immagine: Willem van de Poll, CC0, attraverso Wikimedia Commons