15 ottobre 2021

L’«archeologia musicale» della Scatola nera

Questione di lessico (e contaminazione)

 

Negli ultimi anni il panorama musicale italiano, soprattutto pop e indie (o itpop), ha vantato uno spettro ampio di nuove espressioni e un lessico variegato, ricco di anglismi e gergalismi, che ha fotografato il passaggio dalla cosiddetta «lingua domopack» della canzone italiana tradizionale al «complesso pop», come insegna Giuseppe Antonelli.

Nella mia indagine del 2019 dal titolo Canzoni e parole nel cuore dell’itpop, curata per il magazine «Lingua italiana»-Treccani.it, i brani selezionati hanno rappresentato l’osservatorio privilegiato per studiare l’evoluzione della mentalità linguistica di una generazione – nello specifico under 30 tra selfie e «polaroid», come direbbe Franco126 – , attraverso cui emergeva una diversificazione regionale e/o per poli quasi metropolitani. Molte delle parole e delle espressioni diventate iconiche sono stati analizzate anche nella rubrica di Treccani.it “Le parole delle canzoni”, che con brevi post forniva una sorta di nota dietro il testo, sulla falsariga della funzione Genius di Spotify. Ma oltre agli «sbatti» di Gazzelle, agli inserti dialogici e del quotidiano dei Thegiornalisti o agli esempi di mistilinguismo di Ghali, solo per fare qualche esempio, vi dirà qualcosa anche il verbo pungicare, che usava Calcutta nel brano Kiwi, una scelta ben precisa attinta dal lessico amoroso arcaico caro anche a Carlo Goldoni. «Mettimi sotto il cuscino un alveare, tanto quello che voglio da te, quello che voglio da te, è farmi pungicare?»: nel dialetto romanesco ancora oggi il significato è quello che potete immaginare, cioè ‘punzecchiare’, anche in senso figurato, che nel testo è rafforzato dalla metafora dell’alveare sotto il cuscino, attraverso cui l’Io lirico si rivolge all’amata dichiarando di essere disposto a subire dispetti anche ben più pesanti.

Anche nella selezione musicale di Sanremo 2021 è presente una forte contaminazione nella scrittura dei brani: se da un lato, per esempio nel testo di Willy Peyote Mai dire mai (la locura), sono presenti richiami al linguaggio giovanile e tratti linguistici che rientrano nel fenomeno del code-mixing – «siamo giovani affamati, siamo schiavi dell’hype / non si vendono più i dischi tanto c’è Spotify / riapriamo gli stadi ma non teatri né live / magari faccio due palleggi, mai dire mai» –, dall’altro, in un testo come Il farmacista di Max Gazzè, troviamo un lessico alto e specialistico, sia, per esempio, nelle scelte verbali, come «somministra», sia in quelle nominali, come «tendenza», «controindicazione» o «pozione».

 

Il disco "ritrovato": Scatola Nera

 

Le parole desuete, insomma, esercitano ancora una forte ascendenza nelle scelte stilistiche dei testi musicali. Anzi, i testi musicali rappresentano forse un luogo privilegiato dove queste parole possono acquisire una nuova veste e magari “fare pace” con i corrispettivi attualizzanti del nostro vocabolario quotidiano. Certo è che quasi sempre questo atto di recuperare termini o espressioni antichi ha qualcosa di estremamente nostalgico, un po’ come quando si sfogliano le vecchie foto di famiglia. Ma c’è chi, nel mondo musicale, ha superato la malinconia del ricordo per riscoprire e ricontestualizzare alcuni vocaboli desueti attraverso l’incontro con il suono contemporaneo, per poter così raccontare la realtà che abbiamo intorno con occhi nuovi, ma con la memoria lunga.

Giacomo Carlone e Luca Barbaglia, due musicisti e produttori milanesi, hanno deciso di nominare questo progetto di «archeologia musicale» (che è anche un disco) “Scatola Nera”, a indicare proprio la duplice funzione di un termine desueto: esattamente come la scatola nera che nell’aeronautica, per esempio, è conosciuta come un dispositivo in grado di resistere ai peggiori impatti, e dunque di conservare un archivio di comunicazioni anche quando intorno ci sono solo macerie, così la “Scatola Nera”, una volta aperta, può regalarci un’interpretazione laterale del presente, attraverso suoni e parole nei quali apparentemente non ci riconosciamo.

«”Desueto” è una parola ormai desueta, e questo è un buon punto d'inizio per iniziare a ragionare», spiegano Giacomo Carlone e Luca Barbaglia, «oggi usiamo di più “obsoleto”, che rimanda subito a un immaginario più materiale: al logoramento della materia, della tecnologia e delle sue componenti. È forse qui il punto: gli oggetti si sfaldano, perdono pezzi, si ossidano e si rompono». Al contrario, mi spiegano, la parola desueta assomiglia a un amico che perdi di vista e di conseguenza esce dai nostri giochi, una parola, insomma, che «si vede privata della sua funzione comunicativa; diventa un’estranea che non riconosciamo più, fatta solo di suono e di grafia, ma ormai svuotata di senso». I lemmi desueti appaiono tra le pagine come reperti, provenienti da un altro mondo e da un’altra storia, così lontani da immaginarli solo in una teca di un museo. Non è un caso che in latino reperticius indichi anche i bambini abbandonati per strada, che si presentavano al mondo senza madre, portando con sé il segreto della loro origine. Che però, interessa a pochi.

 

Calafatare, lue, abavo: parole che meritano una seconda chance

 

«Oggi ci siamo chiesti da quali parole desuete ci piacerebbe sentire la chiamata. Alcune sono ormai schiacciate solo tra le pagine del Tommaseo, altre sono più comuni, ma sono tutti lemmi che non si sono (forse) mai sentiti in una canzone». Grazie all'incontro con il pianista e sassofonista Gaetano Pappalardo e il chitarrista Simone Sigurani, è iniziato un viaggio di selezione, mescolamento, registrazione e produzione che ha dato vita alle canzoni di Barbaglia.

Ma come è possibile evitare il rischio di inserire parole “morte” in una canzone? «In un canto monodico, quello che oggi chiamiamo canzone», spiegano, «sarebbe difficile inanellare un testo su un lessico desueto, perché l’ascoltatore non avrebbe il tempo di dar conto delle voci di quei reperti urlanti, di tutti quei bambini persi in piazza e senza nome. In un simile esperimento il pegno da pagare sarebbe la perdita di emozione e, probabilmente, un effetto pretenzioso e cattedratico. Serve tanta maestria, ma penso che sia comunque possibile inserire una parola rara, esotica, decaduta e specialistica nel testo di una canzone, a patto però che lo si faccia come una spezia: dev’essere un sapore che ci porta lontano, in un’immagine tratteggiata e distante, aperta – come avrebbe detto Eco (l’Orèade o il semiologo, in questo caso non fa molta differenza)».

Ecco che nella loro lista di parole che meritano una seconda chance compare il verbo calafatare (dal latino calefacĕre, ‘riscaldare’) un vocabolo specialistico del lessico nautico che ha intrattenuto una lunga relazione con l’opera di Herman Melville, in particolare con Moby Dick, dove «il Pequod, le lance, il ponte, le murate, il gavitello, venivano continuamente calafatati», cioè erano resi “impermeabili” con l’ausilio di stoppa e catrame.

Oppure lue, termine che nel linguaggio medico è sinonimo di sifilide: l’etimologia, seppur incerta, nel greco «ci riporta al verbo “sciogliere”, con rimando ai tormenti di questa malattia. Ma questa parola, prima della sua applicazione in ambito medico, era uno degli epiteti di Dioniso, Lusios, capace di liberare le membra e la mente dai limiti sociali e psicologici, attraverso l’ebbrezza e l’orgia». Anche la parola cianotipia, vista con le lenti di Scatola Nera, acquista una luce diversa e Carlone e Barbaglia, che per ogni voce antica hanno preparato una personale definizione, lo spiegano così: «non è solo una parola desueta, ma è anche una pratica desueta. Si tratta del primo metodo con cui è stato possibile impressionare una pellicola e fissarla. Il procedimento era stato scoperto in Inghilterra, poco prima che Luis Daguerre riuscisse a fissare le sue prime foto. Si avvaleva di materiali ferrosi che coloravano in blu e bianco le immagini impresse. Anna Atkins fu la prima donna a dare alla stampa un libro illustrato da fotografie (cianografie, per essere precisi). Raccolse un gran numero di alghe dei mari inglesi nel volume Photographs of British Algae. Cyanotype Impressions nel 1943. Le immagini di queste alghe modellate dal bianco e dal ciano sono di una modernità assoluta e di rara bellezza. Se doveste incontrare un vecchio giornalista, provate a chiedergli che cos’è “una ciano”, vi ricorderà come nelle redazioni di tutto il mondo questa tecnica fosse usata per stampare le prime bozze illustrate dell’impaginato». Trovo che poi il termine abavo sia molto vicino al sinonimo di desueto, che riguarda proprio il viaggio dei due musicisti, anche se i ricordi d’infanzia lo caricano di una sfumatura ironica. La parola rimanda all’idea degli avi molto distanti, trisavoli e addirittura quadrisavoli, che, mi confessano, è rimasta impressa nella memoria per l’assonanza con sbavo, a cui successivamente è stata associata «l’orribile immagine di un antenato con la bava alla bocca». Queste parole, per il progetto e il disco Scatola Nera vanno rimesse in campo con cura, perché devono essere leggere nonostante il peso del passato: possono allora integrarsi solo olisticamente, «quando sono loro a voler essere chiamate, completando il gioco linguistico in modo organico, senza fratture: se una parola interrompe il discorso per farsi notare, il gioco è finito».

 

Immagine: Testina di lettura Ortofon OM 5E

 

Crediti immagine: Leomarma99, CC BY 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/4.0>, via Wikimedia Commons

 

 

 


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