28 ottobre 2021

La miniera lessicale del cyberpunk

Derive e frontiere. Scorribande nella lingua e nei linguaggi di fumetto e fantascienza

 

Cyberpunk. Antologia assoluta è il titolo perentorio del volume che la Mondadori ha pubblicato a inizio 2021 (di seguito CAA) e che ospita i testi fondamentali della parabola del cyberpunk americano: Neuromante di William Gibson (1984), Snow Crash di Neal Stephenson (1992), La matrice spezzata di Bruce Sterling (1982), l’antologia Mirrorshades (1986), a cura dello stesso Sterling, con racconti suoi e di Gibson, Tom Maddox, Pat Cadigan, Rudy Rucker, Marc Laidlaw, James Patick Kelly, Greg Bear, Lewis Shiner, John Shirley, Paul Di Filippo. Non è la prima raccolta dedicata al genere letterario apparsa in Italia, dove questi libri erano già stati pubblicati (anche se a volte con notevole ritardo, come per Mirrorshades, uscita per Bompiani solo nel 1994 a cura di Daniele Brolli e Antonio Caronia). Ricordiamo le due antologie di racconti curate da Brolli, Cavalieri elettrici (Theoria 1994) e Cuori elettrici. L’antologia essenziale del cyberpunk (Einaudi 1996), in cui agli autori citati si aggiungono Michael Blumlein, Misha, James P. Blaylock, Tim Ferret, Richard Kadrey, Richard Calder, Michael Swanwick, George Alec Effinger, e i 28 testi raccolti in Cyberpunk (Nord 1994), a cura di Piergiorgio Nicolazzini, con anche Iain M. Banks, Storm Constantine, Tony Daniel, Eileen Gunn, Howard V. Hendrix, Alexander Jablokov, Jonathan Lethem, Paul J. Mc Auley, Ian Mc Donald, Lisa Mason, Walter Jon Williams.

 

Blade Runner e Philip K. Dick tra i padri nobili

 

Basta scorrere i nomi per accorgersi di un elenco oggi eterogeneo, con autori poi proceduti su strade diverse, ma al tempo dotati di una sensibilità comune nel leggere la relazione tra l’uomo, le nuove tecnologie informatiche, le intelligenze artificiali e la rete. La realtà virtuale, nelle loro storie, è cosa concreta, la tecnologia invade le menti e si vive in mondi futuribili spesso distopici, megalopoli (gli sprawl gibsoniani) ipercontrollate e iperconnesse, mentre il collasso ambientale è ben visibile, tra multinazionali spietate e “cowboy” o fuorilegge di vario tipo che cercano un loro spazio lottando o fuggendo, usando droghe sintetiche, “mangiando” codice sotto luci al neon e piogge acide. Viene in mente Blade Runner di Ridley Scott, ovviamente, e infatti il film e Philip K. Dick sono tra i padri nobili, indicati dagli stessi autori in più occasioni, a partire da Sterling nella sua Prefazione a Mirrorshades, dove cita la fantascienza new wave, Ellison, Delany, Spinrad, Moorcock, Aldiss e soprattutto Ballard, ma anche Wells, Heinlein e Anderson, e visionari come Pynchon. A questi Kadrey e McCaffery (1994) aggiungono tra gli altri Burroughs, DeLillo, Chandler, Hammet, Tiptree, la musica di David Bowie, Patti Smith, Sonic Youth, Throbbing Gristle, Sex Pistols, i film di Romero, Cronenberg, Cameron, e visto che ben presto il cyberpunk sarà associato al situazionismo e al postmodernismo, negli studi appaiono anche Debord, Foucault, Baudrillard, Deleuze, Lyotard, Jameson.

 

Gli iniziatori

 

I titoli chiave degli albori sono di Gibson: il racconto Johnny Mnemonic (1981), in Italia Johnny Mnemonico edito in La notte che bruciammo Chrome (Urania n. 1110, 1989), che include anche il testo omonimo del 1982 in cui appare il termine cyberspace, poi sviluppato come concetto in Neuromante. Il termine cyberpunk appare però per la prima volta nel racconto Cyberpunk di Bruce Bethke, uscito nel novembre 1983 su “Amazing Stories”, e poi usato da Gardner Dozois (1984) sul “Washington Post” per indicare gli autori della rivista “Cheap Truth”: appunto Sterling, Gibson, Rucker, Shiner, Shirley. Da lì diventa un’etichetta, un composto di cybernetics e punk, una parola macedonia per individuare un movimento artistico dirompente, quindi con una caratterizzazione anche politica, nell’era della rivoluzione informatica. Un fenomeno che ha attecchito, e con successo anche in Italia (Sterling 2021) tra la fine degli anni ottanta e i novanta (e non va dimenticato che anche Stefano Tamburini con Ranxerox è considerato tra i “padri nobili” del movimento). A testimoniarlo sono le antologie CyberPunk (Stampa Alternativa 1995), curata da Franco Forte, con racconti dello stesso Forte, Giampaolo Proni, Pina D’Aria, Marco Pensante, Stefano Di Marino, Domenico Gallo, Franco Ricciardiello, e Sangue sintetico. Antologia del cyberpunk italiano (Pequod 1999), a cura di Roberto Sturm, con lo stesso Strum tra gli autori e in cui appaiono anche Giuseppe De Rosa, Vittorio Catani, Francesco Grasso, Danilo Santoni, Alberto Henriet, Francesco Scalone, Emiliano Farinella. A questi nomi si possono aggiungere Gianni De Martino, Oscar Marchisio, Nicoletta Vallorani, Alessandro Vietti e gli autori usciti nei primi anni novanta per la casa editrice bolognese Synergon: Vanni De Simone, Lorenzo Miglioli, Giorgio M. Schiavina, Barbara Sommariva e Jumpy Velena. Parte del catalogo dell’editore è ora online nell’Archivio Grafton, dove è consultabile anche “Decoder” (1987-1998), vale a dire la principale rivista italiana del cyberpunk (per la sua storia, cfr. Philopat 2017, Nacci 2016).

 

Restano aperte numerose questioni

 

Sempre in Italia, anche grazie al volume Mondadori, di recente sono apparsi diversi interventi che hanno ripercorso storia, temi e motivi ricorrenti del genere letterario (Mattioli 2021, Pintarelli 2021, De Matteo 2021, Signorelli 2021, Giudici 2021 e 2020), che hanno arricchito una già corposa bibliografia nazionale nata a ridosso delle prime uscite (cfr. ad es. Giovannini 1992, Stasi 1993, McCaffery 1994, Caronia Gallo 1997, Proietti 1998). Eppure una risposta univoca alla domanda “che cosa è (stato) il cyberpunk?” ancora manca, e restano aperte questioni di definizione, di ordine storico ed ermeneutico. In primo luogo, con cyberpunk si tende a individuare un movimento letterario, dagli Usa al Giappone, passando per l’Europa, ma si è articolato in realtà in diversi linguaggi, ha prodotto o ispirato fumetti, film, videogiochi, musica, influenzato la moda e ha avuto un notevole impatto sociale nel definire un immaginario, inoltre è stato anche un fenomeno politico che sul terreno informatico ha denunciato un sistema di controllo mondiale e rivendicato il diritto alla libera comunicazione (Scelsi 1990). In secondo luogo, si discute sia sulla genesi che sulla conclusione del movimento. Infatti, pur nella convenzione diffusa che il 1984 di Neuromante (in Italia nel 1986) sia il punto di partenza, sono stati individuati autori e libri anticipatori della ricerca cyberpunk. In effetti, cyborg, il virtuale, megalopoli, crisi ambientale, computer e reti informatiche erano ormai entrati nella fantascienza. Come scrive Proietti (2005): «Il cyberpunk [...] era nell’aria, pronto a emergere. Se si riprende in mano la SF scritta a partire dalla metà anni 70, l’elenco dei possibili “anticipatori” è sterminato», e ricorda John Varley, ma anche Woman on the Edge of Time di Marge Piercy (1976) e The Female Man di Joanna Russ (1974), il cui cyborg femminista pone al centro il rapporto fra fisicità e tecnologia. In un recente saggio sulla letteratura che ha affrontato la rivoluzione digitale, Pantarotto (2021: 39) riprende poi l’idea che «il vero iniziatore del cyberpunk» sia Shockwave Rider di John Brunner (1975; trad. it. di Roberta Rambelli per Nord come Codice 4GH nel 1979, poi come Rete globale nel 1996), che immagina web e virus informatici.

 

Un morto influente

 

Se l’origine è discussa, la fine non è da meno (Murphy Vint 2010): Shiner lo dichiara morto nel gennaio del 1991 sul “New York Times” in Confessions of an Ex-Cyberpunk, ma Sterling a giugno, in Cyberpunk negli anni Novanta sulla rivista britannica “Interzone”, ribatte prima con una battuta, «il cyberpunk non sarà definitamente morto finché l’ultimo di noi [Rucker, Shiner, Sterling, Shirley e Gibson] non finirà sotto un tumulo», poi chiude con una considerazione seria, da passaggio del testimone: «gli anni Novanta non appartengono ai cyberpunk. Saremo lì a lavorare, ma non siamo il Movimento, non siamo neanche noi, non più. I Novanta apparterranno alla prossima generazione, quella cresciuta negli anni Ottanta» (Sterling 2001: 418, 426). Il problema è che se temi, motivi e problemi erano nell’aria da prima, in un attimo la realtà ha fagocitato l’immaginario e, come dice Forte (1994): «il passo dalle iperboli della letteratura immaginifica alla pura e semplice applicazione della tecnologia è stato più breve di quanto lo stesso William Gibson aveva potuto prevedere». Con questo, se da un lato è innegabile che il cyberpunk ha investito il suo tempo e influenzato le narrazioni dei decenni successivi fino a noi, nei libri ad es. di Cory Doctorow, Alastair Reynolds o del compianto David Foster Wallace, o in serie tv, film, fumetti, manga e anime da Ghost in the Shell (ma come dimenticare Akira?) a Matrix, Strange Days, Black Mirror, Ready Player One, Mr. Robot, Nathan Never, fino a videogiochi come Cyberpunk 2077, dall’altro la vis politica che gli è stata riconosciuta da più parti viene gradualmente meno in letteratura, ma offre orizzonti nuovi ai movimenti politici degli anni novanta, tanto che Evangelisti (2001: 120) arriva a dire: «il cyberpunk si è estinto non per debolezza propria, ma perché […] divenuto superfluo, a fronte del proprio dilagare fuori dal campo narrativo». E basti qui ricordare il libello programmatico di uno dei futuri Luther Blissett e Wu Ming, Bui (1994: 100), che chiamava all’azione i situazionauti, coloro che navigano nelle situazioni, perché divenissero persone in grado di aggredire la realtà per incepparne i processi, transmaniaci, da Transmaniacon (1979), romanzo di Shirley.

 

Corpo e tecnologia

 

In terzo luogo, l’interpretazione, che presenta anche voci critiche, sia coeve sia a posteriori, che denunciano ad es. il misticismo tecnologico del movimento (per una sintesi Blasone 1997: 28-30) o il suo maschilismo, per quanto non siano mancati nomi di primo piano anche femminili che l’abbiano contrastato (Lavigne 2012, Federici 2015: 137-143). Contestualizzato in una prospettiva più ampia, culturale e politica, Franco “Bifo” Berardi, dopo aver pubblicato diversi saggi “in presa diretta” sulla rilevanza politica del movimento, negli anni dieci ha invece osservato un effetto negativo a livello culturale: «per la prima volta nella storia della letteratura di fantascienza, il Cyberpunk cancella il futuro, e immagina una distopia presente, o piuttosto senza tempo» (Berardi 2013: 71). C’è però anche chi lo considera la vera letteratura antiliberista negli anni del trionfo neoliberista (Guglieri 2021), e chi vi legge un passaggio epocale nella relazione tra corpo e tecnologia. Infatti, per Antonio Caronia (2020), che ha vissuto il movimento come critico e traduttore fin dagli esordi, il cyberpunk è stata la terza fase di un percorso in cui la fantascienza ha prima considerato il corpo artificiale dell’androide, doppio dell’umano (la Golden Age), poi quello invaso che si fa artificiale con innesti tecnologici dando vita a cyborg (la New Wave) e infine disseminato, diffuso nella dimensione artificiale, virtuale delle reti di computer, in cui sono riprodotti mondi fisici, mentali e corpi (il cyberpunk, appunto). Come sintetizza Dazieri (1990: 47), «la tecnologia cessa di essere […] un supporto dell’avvenimento narrato. [… Q]ui diventa habitat», e viene affrontata.

 

La riflessione metatestuale degli autori

 

Se da un lato questo excursus voleva mostrare la consistenza, l’articolazione e la complessità di una produzione critica e narrativa, dall’altro non deve essere considerato una questione esclusivamente storico-letteraria. Quel mondo possibile narrativo è infatti divenuto molto prossimo alla nostra quotidianità, tra questioni ambientali, urbanistiche, energetiche, politiche e cibernetiche. E quelle narrazioni e le relative discussioni hanno usato una lingua che dalla (o anche attraverso la) fantascienza è penetrata nel lessico italiano per nominare fenomeni diventati patrimonio mondiale. L’attenzione alla lingua (e allo stile) è peraltro stata centrale fin dagli albori del movimento nella riflessione metatestuale degli autori: Sterling nella già citata Prefazione insiste sull’attenzione ai dettagli e alla costruzione dell’intreccio che caratterizza la narrazione cyberpunk, che predilige una “prosa piena” (come traduceva Caronia in Sterling 1994: 22) che diventa “prosa fitta” nella nuova traduzione di Benedetta Tavani, con «rapide e vertiginose esplosioni di nuove informazioni, sovraccarichi sensoriali che sommergono il lettore nell’equivalente letterario del “muro del suono” dell’hard rock» (CAA: 1993). Esempio lampante dello straniamento che provoca è il celebre incipit di Neuromante: «Il cielo sopra il porto aveva il colore della televisione sintonizzata su un canale morto» (Gibson 1986: 3), diventato ora «Il cielo sopra il porto era del colore di uno schermo televisivo sintonizzato su un canale morto» (CAA: 27). Sulla questione stilistica Sterling è poi ritornato nell’Introduzione scritta per il volume Mondadori: la «“crammed prose” (prosa sovraccarica)» sarebbe una rielaborazione del cut-up burroughsiano in cui l’uso della costruzione asindetica stimola processi cognitivi analogici che richiedono un alto livello di partecipazione del lettore, gli «“eyeball kicks” (sballi ottici)» la presenza di bizzarrie non spiegate, e «“inventory of perception” (inventario della percezione)» la narrazione del mondo attraverso l’esperienza sensoriale del personaggio (CAA: 9-11).

 

Un viaggio alle origini del lessico

 

Più che l’aspetto stilistico, che in alcuni casi – anche in Italia – presenterà anche una commistione grafica e verbale con elementi testuali del linguaggio informatico, sia nelle componenti visuali che del lessico di programmazione, interessa però in questa sede compiere un viaggio alle origini dell’apporto lessicale del cyberpunk alla lingua italiana: neologismi (spesso occasionalismi), prestiti, risemantizzazioni, tecnicismi di ambito prevalentemente informatico, in parte già attestati nella lingua italiana, destinati a penetrare nell’uso non solo dei “militanti” (anche in virtù della crescente accessibilità alla rete, con la conseguente diffusione di usi linguistici o di varietà dell’italiano, Patota Rossi 2018) e la cui vicenda andrebbe ricostruita considerando anche i testi letterari fantascientifici e di (contro)informazione della fine del XX secolo. Ci riferiamo ad es. al prestito cyberpunk, che resta invariato come hacker, o altri che sono adattati, come i celebri interfaccia (< interface), interzona (< interzone), cyberspazio (o ciberspazio < cyberspace), o al verbo connettere.

 

La parola cyberpunk

 

Per i dizionari la parola cyberpunk appare in Italia tra la fine degli anni ottanta e i primi novanta (1989 per il Disc, 1990 per il Gradit, 1992 per il GDLI), ed è presente nell’editoriale del n. 3 del 1989 di “Decoder” (nella forma cyber-punk nell’articolo e univerbato cyberpunk nell’indice), il che significa che iniziava a circolare almeno nei circuiti underground italiani. Ma la sua apparizione va retrodatata almeno al 1988, quando Gianni Riotta, in Siamo i punk dell’informatica (“Corriere della Sera”, 5 dicembre, p. 3), scrive una corrispondenza da New York per parlare degli “hacker”, i «virtuosi del computer», riportando anche dichiarazioni di Stephen Levy, l’autore di Hacker (1984, in Italia 1996), e segnalando i rischi per la sicurezza che queste persone comportano, come Robert Morris jr., che ha da poco colpito con un virus la rete Arpanet. Un eroe per chi nell’articolo dice: «noi siamo “cyberpunk”, i ribelli, i punk dell’età cibernetica». Il vocabolo appare però gradualmente e con diverse grafie sui media mainstream. Su “la Repubblica”, ad es., lo usa per la prima volta, con valore aggettivale, Nino Garrone il 15 giugno 1991 a proposito della presentazione del festival di Santarcangelo di Romagna: «le tecniche cyberpunk del gruppo Shake the Coder». Tale valore si rileva anche con le varianti cyber-punk il mese successivo a firma di Marina Garbesi: «“Glamazonia”, artista cyber-punk di Bologna», forma attestata anche senza trattino unificante, cyber punk, fino al 2019), e ciberpunk («la rivista ciberpunk Boing Boing», nel 1998). Le medesime forme occorrono anche come sostantivo: ciberpunk dall’articolo Ciberpunk, rave party & vecchi ‘mostri’ del 21 dicembre sempre del 1991 (la forma è attestata nel giornale fino al 2004 e lemmatizzata nei dizionari), cyberpunk dal 19 giugno dello stesso anno nell’articolo in cui è citato il «raduno dedicato ai cyberpunk» a Lecce (il termine è però posto tra virgolette, segno della sua novità, da Vittorio Zucconi nell’agosto successivo in una allarmata corrispondenza su «una nuova, terribile setta di fanatici si è formata, quella dei “Cyberpunk”, dei “punk”, vandali e pirati della cibernetica»), cyber-punk dal 16 dicembre 1994 in un intervento di Arbasino, e cyber punk nel titolo del 1998 Ferrara, sesso a triangolo nell’era del cyber punk.

 

Hacker, hackerare, hackeraggio

 

Hacker, destinato a una connotazione negativa lontana dal senso originario (Levy 1996), acquisendo il significato di cracker, cioè colui che naviga nella rete entrando ad es. in banche dati non per diletto o per denunciare problemi o irregolarità, ma per dolo, si affaccia nella lingua italiana negli stessi anni dell’articolo di Riotta, nel 1985 per il Gradit, 1988 per il GDLI, 1989 per il Disc, e su “la Repubblica” tra virgolette nel 1987, anno in cui appare anche sul primo numero di “Decoder”. I derivati verbali e nominali hackerare e hackeraggio, il prestito hacking sono però attestati nelle riviste legate al movimento cyberpunk ben prima delle loro datazioni nei dizionari italiani (a partire dalla fine degli anni novanta): li troviamo nei documenti raccolti in Scelsi 1990 (pp. 140, 23, 75), dove incontriamo anche l’uso del verbo piratare in ambito informatico («piratare la nuova elettronica» Scelsi 1990: 75), per il GDLI databile al 1991, e dell sostantivo interzona (già attestato in Neuromante come “area intermedia”, non controllata: «gli inquilini erano gente che operava nell’interzona in cui l’arte non era del tutto un crimine, e un crimine non del tutto arte» Gibson 1986: 46), es. «interzona sociale» o interzona come «interfaccia cervello-computer» (Scelsi 1990: 15). Il termine non è contemplato nei dizionari italiani (se non in ambito sportivo), per quanto fosse una vera e propria parola d’ordine dei movimenti negli anni novanta, già luogo nel Pasto nudo di Burroughs, nome dal 1982 della rivista “Interzone”, poi tra le altre cose titolo di una collana della Feltrinelli (InterZone) e di una testata fumettistica di Alter Vox.

 

Interfaccia e chip

 

Rilevanti sul piano tematico sono inoltre i termini che esprimono la relazione con le nuove tecnologie: se al tempo interfaccia, il verbo interfacciare e il sostantivo interfacciamento erano già attestati in ambito elettronico e informatico per i dizionari italiani, risulta significativo l’uso della forma intransitiva interfacciarsi, che implica l’interazione uomo-macchina e appare in Neuromante nella traduzione Nord del 1986 di Giampaolo Cossato e Sandra Sandrelli, poi rivista per CAA («Qui non è questione di perforare e iniettare, è più come se noi ci interfacciassimo con l’ice in modo così lento che l’ice non se ne accorge neppure» Gibson 1986: 165). Analogamente, con chip (in due casi al femminile nella traduzione originale) e microchip abbiamo chip sottocutaneao, chip per la sintesi vocale, chip ottico e il chip nella testa in cui Johnny nasconde dati a pagamento (mentre «Larry scelse un chip nero, lucido, che era leggermente più lungo degli altri, e lo inserì con un gesto fluido nella propria testa» Gibson 1986: 58, CAA: 80) e una microchip incorporata (poi al maschile in CAA). Sono termini già apparsi nel lessico italiano, ma ora non sono più solo (nuovi) elementi tecnologici: diventano elementi incorporati dall’uomo, estensioni del corpo. Sono, come scriverà Sterling in La matrice spezzata nel 1985, e tradotto in italiano l’anno successivo, biochip (CAA: 865), termine datato dal Disc 1989, dal GDLI 1999 e nei Neologismi Treccani con esempi del 2004. In Neuromante i chip possono aver diverse funzioni (es. «Cominciare è uno scherzo, poiché una volta che ti piantano dentro il chip di recisione, ti sembrano soldi fatti gratis» Gibson 1986: 144 > «Iniziare è uno scherzo, visto che  una volta che ti piantano dentro il chip di sottrazione ti sembrano soldi facili» CAA: 166), e la parola può addirittura essere produttiva, se Molly può dire a Case: «Ho un display chippato dentro il mio nervo ottico» (Gibson 1986: 32, poi cassata in «Ho un display nel nervo ottico» CAA: 56).

 

Un mondo cyber

 

Cyberspazio e i composti a base cyber- sono poi forse i casi più emblematici della produttività cyberpunk penetrata nel lessico comune ma non riscontrabile nei dizionari. Il primo, destinato nel tempo a diventare nell’uso sinonimo di spazio virtuale, rete, internet, appare già con 22 occorrenze in Neuromante, tradotto appunto nel 1986, appare quindi in una data antecedente a quelle proposte da Disc, Gradit e GDLI, ovvero 1990, 1991, 1994. Inoltre, per i numerosi composti a base cyber- citati nei supplementi 2004 e 2009 del GDLI, le datazioni partono dalla metà degli anni novanta, mentre un’alta produttività è ad es. rilevabile già nei documenti di Scelsi 1990, dove si incontra anche semplicemente cyber come sostantivo («il cyber presuppone un nuovo rapporto organico con la tecnologia» p. 10; «l’interesse proprio del cyber verso quelle entità transnazionali» p. 21) o come aggettivo, elemento di composti (anche inglesi) o di parole polirematiche, anche con traduzione o spiegazione: strumentazioni cyber, visione cyber, universo cyber, tuta cyber «(in italiano esoscheletro)» (p. 18) e cybertuta, cyberpolitics, cybersoggetto, cyber psichedelico «(movimento politico-esistenziale)» (p. 27), cyber-realtà. Si tratta in parte di occasionalismi, come i composti a base video o tecno: video-disk, laser video-dischi programmabili, video text, scrittura tecno-metropolitana, visioni tecno-psicotropiche, tecno-culturale, tecno-surrealista, technopersona, tecnoanarchici, che sono da considerare tra le culture alternative come i cyberpunx (Scelsi 1990: 90), i computerfreaks (Scelsi 1990: 22) e gli zippies (zippie è il «soggetto che spingerà verso la nuova umanità» per la Enciclopaedia Psychedelica di Fraser Clarke, «miscuglio di hippismo e tecnologia» Scelsi 1990: 28-29). Diverso è invece il caso del verbo connettere, parola attestata da secoli, ma connotata in ambito informatico in anni recenti, e che appare legata in Gibson al cyberspazio come oggi alla rete. Esemplare è lo scambio seguente:

 

– Sai come funziona una matrice di personalità ROM?

– Certo, fratello: è un costrutto inalterabile.

– Così, se io la connetto al banco che sto usando, posso dargli una memoria sequenziale in tempo reale?

(Gibson 1986: 80)

 

Nell’edizione 2021 il verbo è stato sostituito da collego (CAA: 102), altro termine già presente nella traduzione del 1986, usato come sinonimo di connetto. Anche costrutto è un termine specialistico, ed è significativo che nell’articolo apparso su “Phoenix” nel 1989 (poi in Scelsi 1990: 49-64) in cui affronta i testi di Gibson, Joel Saucin premetta un glossario, in cui si incontra appunto costrutto («una cartuccia di memoria morta cablata che replica alla perfezione la capacità di un morto […]. Matrice della personalità, il costrutto garantisce l’immortalità del cervello e della personalità umana grazie alle memorie elettroniche»), lo slittamento del circuito micrologico dal calcolatore al corpo umano («è un minuscolo circuito impiantato nel corpo umano, spesso dietro il lobo dell’orecchio»), acronimi come IA, intelligenza artificiale, PSA, percezioni sensoriali apparenti, e parole macedonia come simstim (da simulazione di stimolo, «proiezioni oleografiche che introducono lo spettatore in un universo simulato»; analogamente abbiamo microsoft, cioè micro-software, sempre in Neuromante, e il cerebrostim in Freezone di Shirley su Mirrorshades, Sterling 1994: 202).

 

Altri flussi di parole

 

Sorprende, oggi, la necessità per Saucin di lemmatizzare anche virus («è un programma d’intrusione che permette di infrangere l’ICE [“Intrusione Contromisure Elettroniche”, il sistema di protezione delle banche dati] e di infiltrarsi nelle banche o nelle basi di dati al fine di percorrerle e di modificarle»), ma ritroviamo la necessità anche in Snow Crash, in apertura del romanzo con la definizione biologica, nel corso del testo con il suo inserimento in inciso nella spiegazione informatica («Il termine “snow crash” fa parte del gergo informatico. Indica un incidente all’interno del sistema – un virus –  che va così in profondità da mettere fuori uso la parte del computer che controlla il fascio di elettroni nel monitor, annebbiando completamente lo schermo e trasformando la griglia perfetta dei pixel in una tempesta vorticosa», CAA: 328, la traduzione è invariata rispetto alla prima edizione italiana). Il termine informatico è poi diventato, con la diffusione dei computer, di uso comune, ma al tempo non lo era. Così come non era ancora d’uso parlare di flussi di dati o di informazioni, o usare anglismi come mailbox (Scelsi 1990: 141, a lemma non univerbato e non datato dal GDLI nel supplemento del 2004, attestato su “la Repubblica” nella forma mail-box nel 1990), né usare il verbo a base inglese stockare (Scelsi 1990: 24), mentre erano già attestati cyborg, desktop publishing, pass-word, word processor, workshops (di solito è mantenuta la s del plurale in parole inglesi: computers, hackers...), ma anch’esse erano parole non ancora di larga diffusione.

 

Da Neuromancer a Neuromante

 

Questo è solo un piccolo sondaggio, un carotaggio nel terreno del cyberpunk che rivela però come il dizionario ricco di forestierismi tecnologici e la creatività linguistica del periodo abbiano generato o diffuso il lessico con cui, a partire dagli anni ottanta, si raccontano l’invasione della mente da parte delle nuove tecnologie, la disseminazione del corpo, la realtà virtuale, gli strumenti e le modalità di accesso ad essa, chi vi agisce. Un repertorio che entra in larga parte nell’uso comune, così come i testi come Neuromante diventano dei classici. Alcuni termini che vi appaiono hanno successo proprio anche grazie alla notorietà del romanzo in quegli anni di rivoluzione tecnologica e culturale così rilevante anche per il nostro paese. Ed è significativo che le traduzioni dell’antologia Mondadori abbiano rivisto alcuni passaggi, dimostrando in alcuni casi quanto certi termini siano penetrati. Se prendiamo ad esempio l’incipit già parzialmente citato di Neuromante, l’edizione originale del 1984 in inglese, Neuromancer, recita:

 

The sky above the port was the color of television, tuned to a dead channel.

“It’s not like I’m using,” Case heard someone say, as he shouldered his way through the crowd around the door of the Chat. “It’s like my body’s developed this massive drug deficiency.” It was a Sprawl voice and a Sprawl joke. The Chatsubo was a bar for professional expatriates; you could drink there for a week and never hear two words in Japanese.

 

Leggiamo però nell’edizione 1986:

 

Il cielo sopra il porto aveva il colore della televisione sintonizzata su un canale morto.

– Non è com’ero abituato. – Case lo sentì dire da qualcuno, mentre si faceva largo tra la calca, a gomitate, per infilarsi nella porta dello Chat. – È come se all’improvviso il mio corpo fosse affamato di droga, affamato da morire. – Era la voce d’uno di quei disperati che pullulavano abitualmente in quei quartieri multiformi e caotici chiamati in gergo «Sprawl». Il Chatsubo era un bar per espatriati professionisti: potevate berci per un’intera settimana senza mai sentire due sole parole in giapponese.

 

E infine nella traduzione rivista del 2021:

 

Il cielo sopra il porto era del colore di uno schermo televisivo sintonizzato su un canale morto.

«Non è che mi faccio» disse qualcuno mentre Case si apriva un varco a spintoni tra la calca per infilarsi dentro il Chat. «Solo che all’improvviso il mio corpo ha una drastica carenza di droga.» Era un accento da Sprawl, in una delle espressioni più tipiche dello Sprawl. Il Chatsubo era un bar per espatriati di professione: potevi andarci a bere per una settimana di seguito senza mai sentire due sole parole in giapponese.

 

Scompaiono la spiegazione dello sprawl e le virgolette che accompagnano la parola: lo sprawl, tecnicismo di ambito urbanistico e di interesse sociologico, è entrato nel lessico italiano come parola invariabile, prestito non adattato, così come sprawltown. Su “la Repubblica”, il termine ricorre a partire dalla fine del secolo: si parla di «fenomeno dello sprawl, della diffusione selvaggia dei sobborghi» nel 1999, di urban sprawl nel 2001, di «città “sbracate”, che gli americani chiamano Urban Sprawl» nel 2003, di sprawltown dal 2004 (concetto poi approfondito anche grazie al  lavoro di Richard Ingersoll uscito per Meltemi, appunto Sprawltown), periodo in cui aumenta la frequenza delle occorrenze del termine sul giornale. Dalla metà degli anni zero, infatti, il problema dell’espansione delle città e sulla necessità di una progettazione più attenta entra nel dibattito nazionale, come testimoniano anche gli interventi che sempre più usano il termine sprawl anche sul “Corriere della Sera”. Inoltre, l’edizione del ciclo di romanzi cyberpunk di Gibson (in italiano: Neuromante, Giù nel cyberspazio, Monna Lisa cyberpunk, 1984-1986) è raccolta da Mondadori in un unico volume per la collana Oscar nel 2017 sotto il titolo Trilogia dello sprawl.

 

Aldani, il primo cyber italiano

 

Il cyberpunk ha quindi elaborato un suo lessico per raccontare il mondo delle megalopoli, la realtà virtuale e la sempre più complessa relazione tra corpo e macchina, dimensione che oggi presenta caratteristiche assai prossime a quella in cui viviamo. E il suo lessico è diventato parte del nostro dizionario. Se però è vero che la genesi del cyberpunk può essere spostata a date antecedenti i primi ottanta in virtù dei temi trattati, allora diventa interessante interrogarsi sul lessico usato per affrontare il mondo virtuale, l’invasione tecnologica della mente e la disseminazione di mente e corpo prima dell’avvento del cyberpunk. Esiste infatti un testo funzionale a questo, ed è di uno degli autori storici della fantascienza italiana: Buonanotte, Sofia di Lino Aldani (1926-2009), del 1963, che Gramantieri (2004: 11-12) ha definito «il primo racconto cyber italiano». Ne parleremo nel prossimo intervento su “Derive e frontiere. Scorribande tra lingua e linguaggi di fumetto e fantascienza”.

 

 

Bibliografia

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Il ciclo Derive e frontiere. Scorribande nella lingua e nei linguaggi di fumetto e fantascienza è curato e scritto da Alberto Sebastiani. Qui sotto, l’elenco delle puntate già pubblicate:

1. Erotismo e rivalsa in Parle-moi d’amour di Vanna Vinci

2.Valerio Evangelisti, Eymerich e le parole del Directorium Inquisitorum

3. Zerocalcare e il fantasma dei Natali futuri

4. SF o SF? Science Fiction o Scrittrici Femminili? La questione dei nomi

5. Stop that pigeon! Hate speech e dibattito politico in Tuono Pettinato

6. Vittorio Curtoni e l’inquietante contestazione

7. Pandemia a fumetti. La versione di Leo Ortolani

8. Roberta Rambelli e il furto del Gilgameš

9. Viaggi nella polifonia: la scrittura di Gipi

10. Paola Pallottino e il binomio fantastico “musica e fantascienza”

11. Le parole per dirlo: i Quaderni giapponesi di Igort

12. Parole, immagini e suoni per lo steampunk italiano: Dario Tonani

13. I barbari contagiosi di Manuele Fior

14. Nicoletta Vallorani e la lingua per i corpi mostruosi

15. Turconi e Radice, una Babele in terra sovietica

 

 

Immagine: Screenshot del film Blade Runner (1982), regia di R. Scott

 


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