Ilide Carmignani non ha bisogno di presentazioni: ha tradotto autori come Jorge Luis Borges, Luis Cernuda, Julio Cortázar, Gabriel García Márquez, Roberto Bolaño e Luis Sepúlveda. Ha vinto premi prestigiosi e da sempre è impegnata a raccontare il mestiere e l’importanza del traduttore.

A Lucho, scomparso nell’aprile del 2020, di cui ha tradotto 25 libri, oltre a un gran numero di racconti, favole, poesie, saggi, articoli e sceneggiature, Ilide Carmignani era legata non solo da un sodalizio letterario ma da un’amicizia durata 28 anni. Con la sua prima opera narrativa, lo splendido romanzo Storia di Luis Sepúlveda e del suo gatto Zorba, ha voluto raccontare a «ragazzi dagli 8 agli 88 anni» la biografia in forma di favola dell’uomo dalle mille vite, poetico omaggio a un compagno di viaggio che se ne è andato troppo presto.

Parliamo del suo incontro con la traduzione. E con il castigliano.

Il primo incontro con la traduzione è avvenuto, come per molti altri, al liceo, con le versioni di latino e greco, ma forse è stato più un disincontro. La traduzione vera l’ho conosciuta a ventitré anni, appena laureata, quando ho affrontato con grande audacia Ocnos, una raccolta di poemi in prosa di Luis Cernuda. Un professore voleva pubblicare un volumetto ma preferiva non occuparsi della traduzione. «Ti affido anche le note che fanno titolo nei concorsi» mi disse per ricompensarmi e mi sembrò il mondo alla rovescia: dovevo dar voce in italiano a un grandissimo poeta e l’unico lavoro degno sembrava quello di inserire qualche glossa a piè di pagina. Comunque passai un’estate bellissima a tradurre quel libro, così bella che in seguito, mentre frequentavo un Ph.D. alla Brown University, chiesi uno S_pecial_ Course a un grande traduttore, oltre che studioso, e cioè Alan Trueblood, e al mio rientro in Italia presentai alcune proposte di traduzione a case editrici di Milano. Da allora non ho più smesso di tradurre.

Potrei dire che ho scelto lo spagnolo perché ha non una ma tante bellissime letterature (peninsulare, messicana, argentina, cilena, peruviana, uruguaiana, colombiana…), perché è una lingua con una grande tradizione culturale (pensiamo al barocco) e al tempo stesso è una lingua vitalissima parlata da cinquecento milioni di persone. Sullo spagnolo non tramonta mai il sole: Europa, Africa, Asia, America; si parla spagnolo perfino in Oceania, sull’Isola di Pasqua. E non solo è una lingua molto diffusa, è anche una lingua ricchissima che attinge ai substrati e ai superstrati più diversi, dall’azteco al mapuche, dal dialetto padovano all’inglese dei gringos. Basterebbero queste ragioni a giustificare la mia preferenza, eppure a volte temo di aver scelto lo spagnolo per un altro motivo, ben più strano. In quarta elementare la maestra mi fece fare una ricerca sulla Spagna e m’innamorai perdutamente dei vestiti delle ballerine di flamenco con le loro gale, gli strascichi, le mantiglie, io che allora ero un maschiaccio coi capelli cortissimi e le magliette da rugby che mi passavano i miei cugini californiani, e a nulla è valso avere, appunto, mezza famiglia negli Stati Uniti, o studiare tedesco a Heidelberg e a Magdeburg; lo spagnolo aveva la metà che mi mancava.

Per anni, lei ha prestato la sua voce a Sepúlveda davanti alle lettrici e ai lettori italiani - non un pubblico qualsiasi, visto che i libri dello scrittore cileno uscivano prima in italiano che in spagnolo. Lucho la definì «non traditrice ma compañera de camino», un grande onore e al tempo stesso un’enorme responsabilità. Come ha vissuto questo ruolo e, più in generale, secondo lei, quanto incide nella qualità della traduzione la conoscenza personale dell’autore?

Il mio ruolo l’ho vissuto proprio così, come un privilegio che comportava anche una grande responsabilità. Sapevo che i lettori non avrebbero letto questa o quell’opera di Lucho, ma la mia lettura di questa o quell’opera di Lucho. E più traducevo più mi preoccupavo, perché con l’esperienza capivo meglio quanto sfugge o può sfuggire a una traduzione. Certo, seguire un autore nel tempo ti permette di raggiungere un’intimità linguistico-letteraria fuori del comune e di offrire una coerenza interna, nel macrotesto, altrimenti impossibile. Inoltre, con Sepúlveda, ho avuto esperienza anche dell’avantesto, traducendo per così dire in progress stesure non definitive, il che è sempre molto interessante e utile perché consente, attraverso le varianti, di osservare in diretta in quale direzione vanno quell’opera in particolare e lo scrittore in generale. Il rapporto personale, infine, mi ha permesso di conoscere aspetti dell’autore che di solito restano nell’ombra, per esempio la lingua istintiva, spontanea, del parlato, e addirittura di attingere un po’ al vissuto. Claudio Magris in un’intervista de Gli autori invisibili, scrive che è questo l’ideale utopico di ogni traduzione: «Per tradurre un colore che cala una sera su un’ansa di un fiume, bisognerebbe in qualche modo sapere cosa è stato quel vissuto, in quella sera».

Dopo così tanta esperienza, in modo particolare con il medesimo autore, si emoziona ancora quando riceve un nuovo testo da tradurre, lo aspetta?

Certo, un testo vuol dire mesi di lavoro, vuol dire passare ore e ore in compagnia di quella voce, di quelle storie. Un testo cambia il colore delle tue giornate. Ricordo perfettamente l’atmosfera particolarissima, un po’ ossessiva, che mi avvolgeva mentre traducevo 2666 di Roberto Bolaño, un romanzo meraviglioso formato da cinque romanzi che ha fatto invecchiare di colpo buona parte della letteratura contemporanea. Durante la Parte dei delitti dovevo spalancare ogni tanto la finestra e respirare a fondo, perché mi si accorciava sempre più il respiro, tutti quei femminicidi mi toglievano l’aria. Quando ho finito il libro, ne ho avuto a lungo nostalgia e a volte, tutt’ora, nei momenti più strani, certe scene mi si spalancano davanti all'improvviso, come se invece di essere io a contenere il romanzo fosse lui a contenere me.

Con il suo romanzo, lei crea un ponte non più tra la lingua dello scrittore e quella dei lettori, ma tra sé stessa, autrice - con il suo stile, le sue scelte linguistiche, la sua cifra, insomma, i suoi ricordi personali, i suoi sentimenti, - e l’incredibile figura di Luis Sepúlveda, che si trasforma in un personaggio del libro. Che cosa ha significato per lei diventare autrice visibile? E, oltre alla sua esperienza diretta, da quali fonti ha attinto per raccontarci questa storia?

Della scrittura mi ha colpito l’infinita libertà e insieme la solitudine. Si parla sempre di solitudine del traduttore e invece a me è sembrata ben più grande quella dello scrittore. Comunque, la Storia di Luis Sepúlveda e del suo gatto Zorba per me in realtà è stata un modo per continuare a dar voce a Lucho e per rendergli omaggio. Forse anche per elaborare un po’ il lutto. Sepúlveda aveva avuto una vita straordinaria, anzi sette vite come i gatti, ma non aveva mai trovato il tempo di scrivere la propria autobiografia, preferiva dar voce a chi non ha voce, agli abitanti emarginati dei suoi mondi emarginati, come diceva lui. E invece la sua vita era un romanzo: guerrigliero in Bolivia, leader studentesco nel Sessantotto cileno, guardia del corpo di Allende, prigioniero politico nelle carceri di Pinochet, alfabetizzatore nei villaggi andini dell’Ecuador, sandinista in Nicaragua, compagno degli shuar in Amazzonia, esule ad Amburgo, attivista sui gommoni di Greenpeace, inviato di guerra in Angola... Così gliel’ho fatta scrivere io la sua autobiografia, con la sua voce, i suoi aneddoti, la sua passione, il suo senso dell’umorismo. Il materiale arriva da tutto quello che ho tradotto, cioè da tutto quello che ha scritto in quasi trent’anni, dalle sue conferenze e presentazioni, e poi dalle nostre chiacchierate a casa mia, a casa sua e in giro per tutta l’Italia. Carmen Yáñez, sua compagna per cinquant’anni, mi ha regalato foto di famiglia, ricordi, una bellissima poesia per aprire il libro e una postfazione affettuosa sul rapporto di Lucho con la natura, perché ha detto che la Storia di Luis Sepúlveda era «un gesto di giustizia poetica».

Parallelamente all’attività di traduttrice letteraria, lei si è sempre spesa per far uscire dall’ombra i traduttori. Per esempio, con AutoreInvisibile, l’incontro annuale che lei cura al Salone del libro di Torino (quest’anno anche con il convegno Dall’italiano al mondo, dedicato ai traduttori stranieri che danno voce alla letteratura italiana all’estero). Nella raccolta di interviste Gli autori invisibili. Incontri sulla traduzione letteraria (BesaMuci, 2020; prefazione di Ernesto Ferrero), lei sottolinea che «l’invisibilità ideale a cui il traduttore tende nel lavoro traboccava fuori dalla pagina, copriva volti e storie, cancellava un grande patrimonio di esperienze, vitale per chiunque abbia a cuore lo scrivere e il leggere». Con questo speciale viaggio nel mondo della traduzione, lei dà la parola a tanti uomini e donne che finalmente escono allo scoperto e si tolgono la maschera, illuminando sé stessi e il proprio mestiere. Crede che oggi, anche grazie al suo impegno, si sia compreso meglio che, senza i traduttori, chi non conosce le lingue, rimane chiuso nel cortile di casa? O la strada da fare è ancora lunga?

Ha ragione: non per merito mio ma negli ultimi vent’anni l’immagine di questo mestiere è un po’ mutata. Il fatto che i traduttori abbiano preso la parola al Salone del libro di Torino e alle Giornate della traduzione letteraria e pian piano altrove ha innescato un cambiamento, anche perché spesso hanno dato prova di saper leggere un testo più a fondo degli altri, come diceva Calvino. La strada da fare, però, è ancora lunga. Dovremmo essere messi in condizione di lavorare meglio, per il bene di tutti: degli scrittori che traduciamo, del dialogo interculturale e della stessa lingua italiana. Basterebbe seguire l’esempio della Francia.

«Le parole sotto le parole, scriveva un maestro della linguistica come Jean Starobinski, riferendosi agli anagrammi di un altro grande, Ferdinand de Saussure. Ogni parola ne copre, ne nasconde e ne contiene un’altra e quando la si usa è come smuovere il terriccio, evocarne e farne apparire altre, come oggetti sepolti nella terra o nella memoria, individuale e collettiva. Ogni espressione ha a che fare con questa miniera nascosta; più di ogni altro la traduzione, che per ogni espressione ne ha ben più di una a scelta, una cava stratificata nella mente dell’autore che si traduce e nelle civiltà che si incrociano in lui. Tradurre significa non tanto comunicare quanto ricreare una vicenda, un destino, facendoli restare se stessi ma insieme diventare altri. Tradurre è una forma di scrittura, non meno creativa di altre cosiddette originali» (Claudio Magris, Traduttore, creatore infinito. Ogni libro ne nasconde un altro, corriere.it, 10 settembre 2020). Ci sono tante immagini, più o meno felici, alle quali si ricorre per descrivere l’operazione e l’attività del tradurre. Ce n’è una che le piace in particolare?

Sì, quella a cui ho fatto ricorso in appendice alla Storia di Luis Sepúlveda: «Una vecchia metafora sostiene che tradurre è come mettere i piedi nelle orme dell’altro, ed è grande lo sforzo per misurare esattamente il passo, perché sia di quella certa lunghezza, ora così pesante ora così leggero sulla sua terra latinoamericana. A volte manca il terreno sotto i piedi: quella prateria è fatta di erbe che non hanno nome in italiano e quell’estate accecante splende durante il nostro inverno. A volte lo smarrimento è più sottile: perché lo scrittore ha preso quel passo, perché si è avviato proprio su quel sentiero fra tutte le strade che poteva battere nella sua lingua, nella sua letteratura? L’inseguimento si fa più complicato, non basta studiare il paesaggio, c’è bisogno di ascolto. Allora, nel silenzio, risuona piano la voce di un assente, che racconta di altri e di sé e, come sempre accade, racconta di sé anche raccontando di altri». E qua torniamo a quello che scriveva Magris sul vissuto.

Per quanto riguarda la scoperta della lingua, qual è la soddisfazione più grande che le ha regalato il suo lavoro?

Siamo fatti di parole. Le nostre e quelle dell’Altro. Le cose acquistano esistenza e senso solo quando vengono nominate. Pensiamo agli intraducibili, a come allargano gli orizzonti della nostra esperienza umana. Passare le proprie giornate immersi in un fiume di parole nostre e altrui, come fa il traduttore, è una gran gioia.

Nel suo romanzo, Lucho dice: «Mi sono sempre piaciute le lingue, ne parlo più o meno bene diverse […] e adoro lo spagnolo. Forse per la mia nascita avventurosa o per la vita errabonda che ho fatto, ho sempre avuto la sensazione di non appartenere a un posto, ma a tanti, e di avere un’unica, amatissima patria: la mia lingua». Mi sembra una visione potente oltreché molto bella. Dovrebbe essere uno spunto di riflessione per tutti.

È vero. Non è un caso che la lingua in cui ciascuno di noi nasce venga definita madre: ci genera e ci definisce; le apparterremo sempre e ovunque. Aver cura della nostra lingua madre significa aver cura della nostra identità, davanti per esempio all’invasione dell’inglese. E qua si torna alla traduzione che è un modo per dialogare con l’Altro senza perdere se stessi, insomma è l’opposto della globalizzazione.

Immagine: Luis Sepúlveda e Ilide Carmignani, fotografia di Daniel Mordzinski, trattata artisticamente da Andrea drBestia Cavallini, che ha seguìto le illustrazioni del romanzo Storia di Luis Sepúlveda e del suo gatto Zorba di Ilide Carmignani, edito dall'editore Salani (che si ringrazia per la concessione amichevole dell’illustrazione come immagine di copertina).

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