Il matematico Lino Aldani (1926-2009), noto anche con lo pseudonimo di N. L. Janda, è stato un prolifico autore di fantascienza, tra gli italiani più tradotti all’estero, stimato anche come curatore di riviste e saggista (Farinella 1997, Iannuzzi 2014, Iannuzzi 2015: 99-156, Pizzo 2018). La sua opera narrativa è stata raccolta in sei volumi da Perseo libri (Aldani 1989, 2002, 2003, 2004, 2007, Aldani Malaguti 2001), e rivela una dote poco diffusa nella fantascienza, in particolare italiana, ovvero quella dell’ironia, a cui si devono non pochi racconti comici (Lippi 2015: 112), e di una particolare attenzione alla lingua, confermata anche dalle testimonianze di chi ha visto i numerosi interventi dell’autore sui suoi dattiloscritti (Curtoni 2001: 10). Nell’insieme sono fatti che gli consentono ad es. nel romanzo Quando le radici (1977) di mescolare versi e prosa, offrire soluzioni divertenti nell’onomastica come per il personaggio Maiacà, ovvero dal dialetto mai-a-cà (> casa), «sempre in giro a spettegolare», e usare delle espressioni dalla lingua rom, con tanto di glossarietto finale (Aldani Malaguti 2001: 134-135, 200, 245). O di elaborare soluzioni narrative a partire da alterazioni morfologiche, come in “S” come serpente (1986), in cui il carattere & in luogo del fonema s sul foglio battuto a macchina si rivela nel finale la chiave per comprendere il senso del racconto.

Passione politica

I racconti di Aldani sono però animati anche da una forte passione politica che denuncia sia una prospettiva futura negativa, sia spiragli per cambiare il destino dell’uomo. In Nel segno della luna bianca (1985), un fantasy di sinistra scritto con Daniela Piegai, racconta la possibilità di una rivoluzione capace di rovesciare la struttura sociale, in Trentasette centigradi (1963) mette invece in scena un futuro in cui è obbligatorio essere sani, con un welfare state costoso e invasivo, mentre in Scacco doppio (1972) i cittadini devono superare esami per dimostrare la propria utilità, pena la soppressione. Un futuro inquietante emerge anche in Buonanotte, Sofia, del 1963, un testo particolarmente innovativo dal punto di vista tematico, tanto che Gramantieri (2004: 11-12) lo ha definito «il primo racconto cyber italiano». Uscito sul numero 1 della rivista “Futuro”, ha avuto poi diverse edizioni, anche con varianti nel titolo (Buonanotte Sofia senza virgola, o Onirofilm), e oggi è raccolto nel volume Febbre di luna (Aldani 2004: 333-352, da cui citeremo). È ambientato in un futuro distopico, in cui gli esseri umani si riproducono artificialmente, vestono tutti alla stessa maniera e vivono in megalopoli, e come in Brave New World di Huxley il governo provvede a che tutti siano felici, ma non attraverso droghe bensì con l’uso di film interattivi che, con tecnologie specifiche, invadono le menti e permettono di vivere realtà virtuali quanto mai piacevoli in storie d’avventura e d’amore, con tanto di amplessi.

Le parole prima del cyber-

Temi, motivi e immaginario del racconto hanno molti punti in comune con il cyberpunk. Non è però nostro compito ascrivere Aldani ai precursori del movimento, come abbiamo detto nell’intervento dedicato al cyberpunk su “Derive e Frontiere”, piuttosto Buonanotte, Sofia si presta a essere interrogato per capire quale lingua parlasse prima del cyberpunk la riflessione della fantascienza italiana sul rapporto tra uomo e nuove tecnologie invasive della mente, sulla realtà virtuale e sulla disseminazione dei corpi. Un mondo linguisticamente lontano, in cui la parola computer è appena apparsa (1962) e cyberspazio (o ciberspazio) e interfaccia sono ancora termini e concetti ignoti. Un mondo, in altre parole, che usa un altro dizionario. In effetti, in quegli anni Aldani parla di cibernetica (Doppio psicosomatico, 1960), di viaggi nell’iperspazio (Korok, 1960), ma sulle astronavi, per quanto possa trattarsi di una cosmonave extragalattica (Tutti matti sul terzo pianeta, 1962), e magari viaggiando in superpropulsione, lo strumento per elaborare dati è ancora chiamato calcolatrice e l’arma potente è un cannone nucleare (L’incontro, 1960). I testi di Aldani rivelano però anche una notevole ricettività dei tecnicismi scientifici e delle denominazioni di strumenti tecnologici: accanto infatti all’idea che nella Roma del futuro si può spedire corrispondenza usando la «cassetta della pneumoposta» (Aldani 2001: 123), incontriamo nel suo esordio Dove sono i vostri Kumar? (1960) il levacar, ovvero l’automobile fluttuante sperimentata da pochi mesi dalla Ford (tra le autovetture, ci sono anche turbocar ed elicar o elitaxi, elicottero + car/taxi), e poi spettrofotometro e servomeccanismo, attestati dal Gradit nel 1960, appaiono in quello stesso anno in Korok e Doppio psicosomatico, racconto in cui si usa lo stereofono e le casse sono apparecchi stereofonici. Riscontriamo inoltre ad es. gli usi di autogeno sostantivizzato per gruppo autogeno (var. di gruppo elettrogeno, Aldani 2001: 180), il composto aggettivale elettroneurotico (Aldani 2004: 214) e l’aggettivo engrammico da engram (attestato per il Gradit nel 1956, solo quattro anni prima) per bobina engrammica (Aldani 2004: 288).

Onirofilm

Buonanotte, Sofia ha avuto, come abbiamo detto, anche il titolo Onirofilm, che è la parola chiave del racconto: un composto di oniro- (< onirico) e film. È un film interattivo, in cui il protagonista è lo spettatore, come il lettore nella futura “second person fiction” dei librogame (o dei “Choose Your Own Adventure”, Sebastiani 2019), e deve seguire dei percorsi prestabiliti per riuscire nelle imprese, che qui appunto comportano anche una soddisfazione sessuale. Attrice del momento è Sofia Barlow, nome che evoca sia Sofia Loren, attrice all’apice del successo in quegli anni, sia Peter Barlow, l’inventore della lente usata per i telescopi, un moltiplicatore focale che aumenta il fattore di ingrandimento. Non è casuale: l’onomastica qui unisce il sogno erotico degli italiani (è dello stesso 1963 il film Ieri, oggi, domani con il celebre spogliarello davanti a Marcello Mastroianni) e la tecnologia per migliorare la visibilità, anzi per raggiungere quanto di più lontano. L’incipit introduce subito l’oggetto attorno a cui ruota il racconto:

Tute grigie e azzurre scorrevano lungo la strada. Grigio e azzurro, non c’erano altri colori. Non c’erano negozi, non c’erano agenzie, non c’era un bar e nemmeno una vetrina di giocattoli, una profumeria. Di tanto in tanto sulle facciate sporche di fuliggine, incrostate di pattume e musco, si apriva la porta girevole d’uno spaccio. C’era il “sogno”, dentro; l’onirofilm, la felicità alla portata di tutti, di tutte le borse; c’era Sofia Barlow, nuda, per chiunque volesse acquistarla. (Aldani 2004: 333)

Straniante è l’attacco che non presenta personaggi, esseri umani, ma indumenti e dai colori obbligatori, non funzionali a distinzioni di genere, posti in zona tematica nelle due frasi che aprono il racconto. La successione anaforica di negazioni che segue individua poi l’assenza di luoghi differenziati per gli acquisti, di spazi di socialità e di divertimento, anche per i bambini, per i quali il gioco sarebbe anche momento di formazione e di stimolo della creatività. La profumeria per metonimia è la cura di sé estetica, per piacersi e piacere, risultare gradevole anche olfattivamente. Nulla però di esteriore pare ottenere l’attenzione, persino le abitazioni sono in decadenza, e l’unico segno di vita è la porta girevole di uno spaccio, parola sulla cui ambiguità (rivendita, ma anche vendita di sostanze illegali, droghe) si sviluppa la situazione successiva. Le virgolette per sogno accrescono tale ambiguità e introducono con la sapiente pausa interpuntiva (il punto e virgola in luogo degli esplicativi due punti) l’onirofilm, definito attraverso quello che pare uno slogan pubblicitario: «la felicità alla portata di tutti, di tutte le borse». Sono gli anni del boom economico, la Fiat 600 e gli elettrodomestici sono accessibili agli stipendi italiani, così come Sofia Barlow. Il tema è introdotto, anche se ancora non se ne conoscono i dettagli, e il lettore troverà la medesima immagine poche pagine dopo (Aldani 2004: 340), perché l’incipit anticipa una situazione che si rivelerà successivamente.

Italiano standard per un mondo possibile

È un mondo possibile narrativo raccontato con un italiano sostanzialmente standard, frasi per lo più brevi, paratattiche, e caratterizzato da scelte lessicali sempre oculate. Un primo esempio appare subito dopo l’incipit, quando in analessi comincia la narrazione, che si articola su due livelli, uno della realtà quotidiana, nel mondo – diciamo – reale, l’altro della realtà artificiale, nel mondo virtuale. All’inizio siamo nel secondo, come scopriamo poi, e qualcuno di cui ignoriamo il nome è catturato da sette “schiavi” nerboruti, non senza lottare, e portato nel fondo di una caverna, legato nudo a un altare; rimasto solo tra odori selvatici e afrodisiaci a lumi di torcia, è circondato da vergini danzanti al suono di sitar e tabla (strumenti indiani che stavano per riscuotere ampio successo anche nell’Occidente che guardava alla meditazione orientale, e basti ricordare che nel 1965 George Harrison userà il sitar in Norwegian Wood), che in una danza orgiastica lo sfiorano e si denudano finché, al suono di un gong, la musica tace, le vergini escono ed entra in scena in una cappa di leopardo, con un coltello in mano, la sacerdotessa: bellissima, «i suoi occhi neri, fondi e mobilissimi, sembravano frugargli l’anima», lo libera lentamente, bisbigliando eroticamente, con occhi neri e grandi, umidi e vogliosi, finché non lo conduce all’altare e lo attrae a sé dopo aver lasciato cadere la cappa ed essersi distesa languida. Un repertorio voluto di stereotipi e cliché, di archetipi dell’erotismo a buon mercato; una scelta funzionale, ironica, rispetto all’oggetto della narrazione.

La seduzione della sacerdotessa Sofia

Infatti, il brano, come scopriamo nel passaggio successivo, racconta l’onirofilm esperito da Bradley, Supervisore (tecnicismo cinematografico) della produzione, che interrompe la visione e si complimenta con le attrici, Sofia Barlow in primis, ma rimprovera il regista Gustafson perché il lavoro risulta «sballato, disarmonico, privo di equilibrio». È eccessivo, ma non per le stereotipie che mette in scena, bensì per la sua struttura. Il regista, che fraintende, cerca di difendersi, ammette che musica indiana e costumi africani sono incoerenti, ma afferma che «il Consumatore non bada a queste sottigliezze». È lui il destinatario, con un’ironica iniziale maiuscola: il termine spersonalizzante trova in essa un’individuazione da nome proprio, degna di rispetto. «Il Consumatore ha sempre ragione», lo redarguisce con uno slogan Bradley, ma il problema non è la sua considerazione come fruitore critico, bensì che la storia comporta troppi picchi di tensione, ci sono troppe scene madri, mentre dovrebbe esserci una sola scena principale, l’ultima, la seduzione della sacerdotessa (Sofia), a cui giungere dosando le emozioni nel corso della storia per costruire un crescendo. Il commento è una sorta di manuale di storytelling, fondato sul marketing. In effetti, le reazioni del pubblico devono seguire degli schemi, per le quali esistono precise misurazioni. Non sono citate unità di misura, ma si parla di «indice di sensazione sul campione medio», indice assoluto e relativo, e c’è timore perché il Consumatore sovrastimolato arriva alla fine spossato in quanto «la sua ricettività sensoriale è ridotta al minimo». Invece deve sentirsi soddisfatto, appagato.

Dov’è l’artificio

Le due sequenze successive si svolgono nel livello della realtà, la prima nello studio di Bradley, dove Sofia è convocata dal supervisore, la seconda in città, tra la folla e lo spaccio degli onirofilm. Nella prima l’attrice, in crisi secondo il suo interlocutore, vuole capire «che cos’era, prima? Erano davvero tutti infelici?». All’inizio Bradley cerca di risolvere sbrigativamente («Prima era il caos»), poi si vede costretto ad affrontare la questione più seriamente:

se il sistema si è affermato, vuol dire che le condizioni obiettive lo hanno permesso. Io vorrei che tu ti rendessi conto d’un fatto semplicissimo: la tecnologia ha consentito la realizzazione di tutti i nostri desideri, anche di quelli più riposti. La tecnica, il progresso, la perfezione degli strumenti e la conoscenza esatta del nostro cervello, del nostro “io”… tutto ciò è reale, concreto. Quindi, anche i nostri sogni sono realtà; Sofia, non dimenticare che solo in casi assai rari l’onirofilm è uno strumento di comodo o di compensazione. Quasi sempre esso è fine a se stesso, come quando poco fa ho goduto il tuo corpo, le tue parole e il tuo profumo. (Aldani 2004: 337)

Il tema della felicità, della realizzazione dei desideri con l’aiuto della tecnologia, portano a un discorso filosofico (e la suggestione onomastica che evoca il neoidealista Francis Herbert Bradley meriterebbe un approfondimento, che esula però dal nostro intervento), sviluppato a partire da una riflessione metalinguistica, sul significato e la connotazione della parola artificio. L’onirofilm in cui Bradley ha avuto un rapporto sessuale con Sofia lo è senz’altro, ma il Supervisore, pur ammettendolo, sostiene che l’esserne cosciente modifica la situazione, e accusa l’attrice di usare «il vocabolo artificio nel significato spregiativo che aveva due secoli fa. Ma oggi no, oggi un prodotto artificiale non è più un surrogato, Sofia. Una lampada al fluoro, opportunamente dosata, dà una luce migliore di quella solare. Così è per l’onirofilm» (Aldani 2004: 337-338). Il racconto fantascientifico incamera un dialogo filosofico sempre più approfondito, con argomentazioni anche di tipo storico. La Barlow infatti, accettando la premessa (la scelta cosciente di una finzione per la felicità determina una realtà), chiede quando sia cominciata tale situazione: «quand’è che gli uomini hanno cominciato a preferirlo [il sogno] alla realtà?». Bradley risponde ripercorrendo gli sviluppi tecnologici del cinema: dalle «immagini bidimensionali che si muovevano sopra uno schermo bianco» all’aggiunta del sonoro, lo schermo panoramico (da segnalare che nel 1963 siamo nel pieno della rivoluzione del widescreen, in Italia introdotta nel 1953), la fotografia a colori, con i Consumatori che vedevano e ascoltavano nelle sale di proiezione, «ma non sentivano il film» (il corsivo è nell’originale). Anche in questo caso, nodale è la connotazione del verbo, su cui è indirizzata l’attenzione metalinguistica del lettore: sentire significa esperire. Infatti per Bradley il film era un surrogato che richiedeva uno sforzo di fantasia, permetteva una larvata partecipazione, «un artificio per sollecitare il gusto passionale-avventuroso del pubblico», per quanto fosse anche «uno strumento potentissimo di trasformazione psico-sociale», istituendo modelli estetici per uomini e donne, nei comportamenti e nei consumi. È la «propaganda cinematografica». Aldani usa un termine, propaganda, connotato negativamente per chi come lui ha vissuto nel ventennio fascista, attraversando la seconda guerra mondiale. È spietata e infaticabile, assilla e seduce. Non maschera però il vero né esprime il falso, piuttosto propone una realtà frustrante perché irraggiungibile: «già allora – dice Bradley – l’uomo ambiva al sogno, […] ma era ben lungi dall’averlo realizzato».

Esse est percipi****?

Nella ricostruzione storica del supervisore la svolta arriva nel 1956. Se il cinema aveva vissuto un momento di impegno civile, con il film culturale o ideologico, volto a emancipare le masse, in realtà la donna standard e la situazione standard esistevano già, ed è a ciò che guarda la nuova fase, grazie alla scoperta del sistema di ricompensa nel cervello a partire dagli esperimenti di James Olds e Peter Milner avviati nel 1954, non nominati nel racconto (ma l’allusione è evidente): anche in questo caso si rivela in Aldani l’immediata ricezione di studi scientifici d’avanguardia, in quanto parla di «centri di piacere nel cervello» e dello «stimolo elettrico su una certa porzione della corteccia cerebrale [che] procurava una intensa e voluttuosa reazione nel soggetto». Unendo questo ai progressi tecnologici nel cinema nasce «vent’anni dopo» (quindi in un ipotetico 1976) «il primo film tridimensionale a partecipazione parziale dello spettatore»: si abbandona il film intellettualistico per la possibilità di percepire (non ancora sentire pienamente) profumi ed emozioni. Il processo di immedesimazione diventa totale con il passo successivo: l’onirofilm. Ancora una volta la frase per definire la situazione è sentenziale, quasi uno slogan pubblicitario: «non c’è realtà che possa superare il sogno». E l’argomentazione schematica a suo sostegno è una sorta di tricolon: «Quando la partecipazione è totale, ogni concorrenza della natura è ridicola, ogni ribellione inutile».

Il sistema e gli intelligenti

«Questo è il sistema, Sofia». L’opposizione è screditata con espressioni spregiative: le crisi passeggere di Sofia, le chiacchiere melodrammatiche dei naturisti, che peraltro raccolgono fondi non per la causa «ma per il proprio personale tornaconto». Sono strategie retoriche proprie di quella che oggi viene chiamata la “macchina del fango”, anche ad personam, in quanto viene nominato Hermann Wolfried, definito uno dei caporioni (altro termine spregiativo) della lega Anti-Sogno, che avrebbe richiesto di nascosto alla Norfolk Company un onirofilm privato con un’orgia. Anche l’organizzazione, ovviamente, è screditata: serve ad «accalappiare i gonzi, gli ipocondriaci inguaribili e i passatisti», la cui implicatura è che solo chi crede nel sistema è intelligente, sano e capace di vivere il proprio tempo. E se Bradley è accondiscendente con i seguaci («alla base c’è forse un residuo di sentimento religioso») è spietato con chi li guida («ai vertici c’è soltanto cupidigia»).

Monologo in elitaxi

Il dialogo (o forse meglio il monologo) termina qui, Sofia prende l’elitaxi per andare in centro città, ed è contenta di trovare la sua fotografia in copertina su una rivista: una foto costruita ad hoc («le labbra erano socchiuse in un atteggiamento di offerta, il colore, il contrasto tra luce ed ombra, l’espressione ambigua… Ogni particolare appariva sapientemente dosato»). Nel tragitto riflette anche sulla condizione dell’attrice, un tempo costretta a entrare in contatto coi partner in carne ed ossa. Il contatto fisico è infatti stato abolito, è considerato ributtante (significativa l’immagine delle parole alitate in pieno volto, in cui il participio evoca sensazioni sgradevoli). Ora c’è «“Adamo”, il manichino imbottito di congegni elettronici con le due minuscole macchine da presa collegate nelle occhiaie», un prodigio di ricettività, che fissa nella bobina anche le sensazioni, in modo tale da rendere il Consumatore «non più passivo, spettatore, ma protagonista». Il prodotto è anche differenziato, maschile e femminile: l’onirofilm è confezionato appositamente per entrambi, e se qualcuno «spinto da morbosa curiosità» avesse provato quello destinato alle Consumatrici «si sarebbe procurato un atroce mal di capo, con il rischio inoltre di fondere i delicati circuiti dell’apparecchio». Siamo nel 1963, è ancora netta la rigidità sociale nella distinzione dei generi, ma è da notare l’ironia usata: gli aggettivi morbosa e atroce screditano il comportamento e intensificano il dolore implicando che la situazione sia da evitare, la scelta della costruzione verbale si sarebbe procurato e non di avrebbe avvertito implica invece la responsabilità dell’utente, che quindi non subisce una punizione strutturale ma si provoca autonomamente dolore, rischiando inoltre di danneggiare lo strumento, e istillando così il senso di colpa.

L’amplificazione dell’Amplex

Stavolta non è però Bradley che indottrina, ma Sofia che riflette: il sistema e la sua retorica sono accettati e introiettati. La voce narrante interviene nella narrazione e si fa critica solo successivamente, quando la Barlow scende dall’elitaxi e cammina tra la gente: qui viene ripreso l’incipit, viene descritta la situazione e l’attrice cammina tra le persone, definite «un esercito di allucinati, […] che anelava al silenzio del proprio tugurio: una stanza, un amplex e un casco. E bobine, bobine di onirofilm, milioni di sogni d’amore, di potenza e di gloria». Il tugurio rimanda alla medesima decadenza della descrizione iniziale, ed è in contrasto con le modernissime (per il tempo) tecnologie elettroniche e di registrazione e riproduzione video e audio nominate in questo passaggio e altrove. Amplex, tra queste, pare essere una tecnologia inventata, e potrebbe essere un’alterazione del marchionimo Ampex, che evoca la parola amplificazione, ma è anche la parte invariabile della parola latina amplex-us, che si può tradurre con abbraccio, o amplesso, il che diventa particolarmente significativo.

Uno sguardo ai pronipoti

Gli stimoli nel cervello, la partecipazione consapevole al sogno attraverso Adamo e la sua esperienza grazie alle tecnologie che agiscono sulla mente e disseminano il corpo, ma all’interno di un sistema che chi governa vuole mantenere sotto controllo, ricordano quanto avviene nei romanzi cyberpunk come Neuromante di William Gibson (1984, in Italia nel 1986), dove Case, il protagonista, «aveva lavorato in uno stato quasi permanente di esaltazione da adrenalina, un sottoprodotto della giovinezza e dell’efficienza: collegato a un deck cyberspazio fatto su misura che proiettava la sua coscienza disincarnata nell’allucinazione consensuale che era la matrice» (Gibson 1986: 5); dove il cyberspazio è «un’allucinazione vissuta consensualmente ogni giorno da miliardi di operatori legali, in ogni nazione, da bambini a cui vengono insegnati i concetti matematici… Una rappresentazione grafica di dati ricavati dai banchi di ogni computer del sistema umano. Impensabile complessità. Linee di luce allineate nel non-spazio della mente, ammassi e costellazioni di dati» (Gibson 1986: 54). E Timothy Leary, guru della psichedelia degli anni sessanta che si avvicina negli ottanta al cyberpunk, vede questo processo attuato attraverso i computer come un’esperienza psichedelica: «con alcuni effetti speciali di tipo filmico, noi possiamo simulare la coscienza psichedelica, la molteplicità e la simultaneità, il sovraccarico e il miscelamento sensoriale e così via. Ora, per la prima volta, con attrezzature quali la cybertuta adatta allo spazio virtuale, si potrà specchiare l’esperienza più pienamente» (Scelsi 1990: 162).

Allucinazione consensuale

In Aldani il cyberspazio è la dimensione in cui l’onirofilm introduce. È l’allucinazione consensuale. Il lessico non può però essere il medesimo: non c’è computer, ma esistono strumenti per accedere alla realtà virtuale, ovvero la cabina e una poltrona con l’amplex incorporato in cui visionare la bobina dell’onirofilm. Non c’è cybertuta, ma il casco di ricezione, un’interfaccia che gli permette di esperire quanto vive Adamo, a suo modo un avatar. Il corpo scompare, ma riappare altrove, e la _«_proiezione mentale in amplex era accompagnata da un torpore catatonico in cui la memoria dei fatti contingenti veniva meno del tutto». Come nel cyberpunk, anche qui il sistema trova opposizione. Però non ci sono gli affascinanti “cowboy” di Gibson e soci, ma la scalcinata lega Anti-Sogno, la cui propaganda è ascoltata da Sofia mentre passeggia. Un oratore grasso (quindi esteticamente poco avvenente secondo gli standard) cita Aristotele senza nominarlo («un filosofo antico diceva che la virtù è un abito mentale»), e con enfasi e immagini pretenziose afferma, riadattando il mito della caverna di Platone: «da anni siamo schiavi e succubi, prigionieri nel labirinto del sogno, da anni brancoliamo nella tenebra fitta dell’incomunicabilità e dell’isolamento», esortando alla libertà e al ritorno alla natura con lo slogan «la libertà è virtù, e la virtù è abito», su ironica base aristotelica.

Senza contatto fisico

In un mondo che rifiuta il contatto fisico, in cui tutti nascono in vitro, selezionati eugenicamente (così come avveniva in Huxley), gli adepti Anti-Sogno cercano di fermare e sedurre i passanti per tornare al rapporto naturale, ma il ragazzo che ferma Sofia e le offre di passare la notte insieme è goffo, e le propone di farlo come dovere, come «per pagare in quel modo un tributo alla nuova presunta moralità. La virtù è abito. Abito, abitudine al rapporto naturale», pensa poi l’attrice. L’attrice si nega, e l’argomentazione usata incarna l’ideologia dominante, infatti la struttura sintattica concatena quelli che appaiono slogan o cliché, rafforzando i legami tra le frasi con l’anadiplosi: «non puoi [avermi] perché non mi desideri, e non mi desideri perché io sono vera, reale, viva e umana, perché sarei un surrogato, il surrogato di una bobina che puoi acquistare per pochi soldi». Il rovesciamento straniante è definitivo: la realtà è un surrogato del sogno. Il tema ricorre in Aldani, in cui spesso sono preferiti i paradisi artificiali conquistati con le droghe. In particolare, in Doppio psicosomatico (1960) troviamo un precursore naturale dell’onirofilm nell’ipnofène: lo si fuma, e «Amanda non sa rinunziarvi. Le piace troppo il sogno ad occhi aperti, la rêverie sfrenata, l’avventura in cui tu sei protagonista e spettatore nello stesso tempo. […] Tu accendi una sigaretta, in penombra, davanti a una parete bianca e dopo alcune boccate la parete si popola d’immagini, quelle che tu vuoi. Puoi indirizzare il tuo sogno verso gli oggetti più graditi, guidarlo lungo un itinerario prestabilito oppure decidere lì per lì che cosa vuoi che succeda» (Aldani 2004: 279). Con l’onirofilm la situazione di piacere è però eterodiretta secondo standard definiti dal marketing, come abbiamo visto, per un Consumatore ammaestrato. Basta scorrere le didascalie sulle scatole delle confezioni esposte nello spaccio: titoli esotici, erotici o avventurosi (Singapore, Estasi, Tortuga, La battaglia) e trame stereotipiche (es. «L’aviogetto privato di una principessa persiana, magistralmente interpretato da Sofia Barlow, precipita nel Gran Cañon. La principessa e il pilota (Consumatore) trascorrono la notte in una caverna»).

«Nulla può superare il sogno»

Proprio in questa avventura, a prima vista paradossalmente, si trova catapultata l’attrice nella penultima sequenza del racconto. Tornata a casa, la mattina successiva è svegliata dal videotelefono: Bradley le dice di partire per San Francisco per un film. Va all’aeroporto, trova il pilota, Mirko Glicoric, sale sull’aviogetto pieno di riviste con le sue foto, ed è senz’altro l’attrice preferita del pilota, che però non la riconosce quando la incontra, né reagisce alle sue richieste di compagnia, e che, come nel film, è costretto a un atterraggio di fortuna nel Gran Cañon. L’analogia col film insospettisce Sofia, che pensa di essere vittima di un rapimento, e resta allibita quando, in cerca di rifugio per la notte, appare addirittura la caverna, dove però, una volta acceso il fuoco, Mirko vuole appartarsi per vedere Estasi, l’onirofilm che di fatto stanno vivendo e di cui il pilota possiede addirittura la matrice, che rispetto ai film comuni può essere esperito più volte. Sofia si oppone, non riesce a capire come possa preferire il sogno a lei, cerca di attirarlo a sé e alla fine riesce a sedurlo, tanto che l’uomo getta le bobine nel fuoco. Non è però il finale del racconto. Nell’ultima sequenza la Barlow finisce l’onirofilm, quello appena narrato, e chiama Bradley per ringraziarlo, perché è lui che gliel’ha regalato al termine del dialogo/monologo. Lo definisce un regalo di riconoscenza per il suo lavoro, ma in realtà è uno strumento per soggiogarla al sistema («Il sistema è perfetto. Irreversibile»): non deve pensare che qualcuno possa preferirla al sogno. «Quella matrice. Più che un regalo vuole essere un ammonimento. […] Nulla può superare il sogno. E solo in sogno potrai illuderti del contrario». Non c’è via d’uscita. E il paradosso scompare.

Bibliografia

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Il ciclo Derive e frontiere. Scorribande nella lingua e nei linguaggi di fumetto e fantascienza è curato e scritto da Alberto Sebastiani. Qui sotto, l’elenco delle puntate già pubblicate: