Che il tavolo del critico militante rischi perennemente di cedere sotto il peso d’innumerevoli vient-de-paraître di varia natura e valore, è nozione volgare, appena venata di leggenda; ma pochi sanno che i brividi più intensi, le vere sorprese giungono sovente non già dai massimi marchi (ciò accadeva decennî or sono, quando prosperava una cosa chiamata editoria italiana), sì dai medî e minimi, ormai gli unici provvisti di fiuto e audacia d’intrapresa. Va, dunque, segnalata con giubilo una delle ricerche più originali degli ultimi anni, pubblicata dalla meneghina Unicopli per la collana «Early modern. Studi di Storia europea protomoderna», diretta da Federico Barbierato e Giorgio Politi: L’altro cielo di Lombardia. Per una storia alternativa del Rinascimento e del Barocco lombardo.

Docente all’Università dell’Insubria di Como, poeta, narratore e fine medievista, Flavio Santi dimostra persuasivamente, nelle tre sezioni del volume (Al tempo di Ludovico il Moro, 1491-1499; Al tempo dei francesi, 1499-1529; Al tempo degli spagnoli, 1525-1699) come la cosiddetta “letteratura minore” lombarda dei secoli XVI e XVII sia stata finora non solo colpevolmente sottovalutata dalla critica, ma rappresenti de iure il «terreno di coltura» (p. 9) della letteratura maggiore: «Il titolo è una chiara allusione al celebre passaggio manzoniano del capitolo XVII dei Promessi sposi, a “quel cielo di Lombardia” che appare all’alba, carico di speranze, a un Renzo in fuga verso Bergamo, e che da allora è assurto a emblema e blasone dello spirito e della cultura lombardi. E se è vero, come dice Roland Barthes nel memorabile S/Z, che “il testo […] è paragonabile a un cielo, piatto e insieme profondo” su cui il commentatore “come l’augure […] traccia […] delle zone di lettura, al fine di osservarvi le migrazioni dei sensi, l’affiorare dei codici, il passaggio delle citazioni”, la porzione di cielo lombardo qui indagata svelerà squarci nuovi» (ibidem).

Il ruolo di Beatrice d’Este

Tutte le sezioni sono articolate in due capitoli. Nel primo della sezione intitolata Al tempo di Ludovico il Moro si affronta una questione altrettanto capitale che negletta o fraintesa anche da studiosi di calibro: il ruolo di prim’ordine svolto da Beatrice d’Este, nei sei anni della sua vita ufficiale (1491-1497), quanto alle sorti milanesi del volgare e del latino: un rapporto di sostanziale parità, al contrario di quanto si afferma negli studî di letteratura e storia della lingua italiana (sterile la poesia volgare, ripetitiva quella latina): «rivolgersi a Beatrice significava appropriarsi della maniera petrarchesca, con tutti i rimpasti del caso. […] Tutto questo non solo trova puntelli sostanziosi nella produzione contemporanea, ma anche nelle testimonianze postume, centrate fondamentalmente su un unico argomento: l’improvvisa decadenza delle lettere, volgari s’intende, in seguito alla morte di Beatrice» (p. 22). La duchessa di Milano fu insomma determinante per la costruzione di una poetica della committenza e quindi per la legittimazione del volgare. Il secondo capitolo — di gran lunga il più avvincente — è dedicato alla «luminosa riscoperta» (p. 31) di uno scrittore minore di fine Quattrocento: Lancino Curti (1460-1512), prolificissimo autore satirico in cui — avvisa Luca Canali — «c’è sempre qualcosa di malsano, un fondo, un miscuglio di acidità, di invidia, di malanimo preconcetto». Una poesia arditamente sperimentale in un latino ricco di novità sintattico-lessicali e in concorrenza col volgare, in cui Santi avverte le prime avvisaglie del maccheronico, come dimostrano i frequentissimi diminutivi (pennulla, venula, apicula, meretricula, lachrymula, bellula, stellula, sepulchello, denticulo, cavernula, codicillos, barbula, lectulus…); i composti (glandilegus, corpipeta, dulcisoni, corniger, unifoemina, vulvivagam, trinoctiales…); le neoformazioni (danduleo, Bardocucullatum, famipeta, corpipeta…); il lessico della vita materiale (coquo, manicas, berretinum, pullos, fungos, herbas, pannus, sportula, armenta, capreoli…); i termini sessuali e scatologici, francamente maccheronici («Improba, spurca, vorax, ebriosa, ignobilis, aegra / vana, loquax, petulans, turpis, avara vetus: / frustra oculos hominum tentas mentemque movere / ni iniungis quo se mentula commoveat»); latinizzazioni di vocaboli volgari (bucca, guerra, porcus, coxa…; escluderemmo il latino volgare caballus); raddoppiamenti consonantici (Thommam, littus, bissex, vittellianis).

Lo zibaldone di Giasone del Maino

Nel primo capitolo della seconda sezione si procede a un esame minuzioso di un documento mai finora reputato degno d’attenzione: il più ampio schedario/zibaldone umanistico, contenuto nel ms. G I 10 della Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino, opera del giurista letterato di fama internazionale Giasone del Maino (Milano o Pesaro, 1435 – Pavia, 1519), frutto di un lavoro quasi decennale e fondamentale per il ruolo da esso svolto nell’Umanesimo giuridico. Santi ne studia per primo la formazione culturale fornendo «le coordinate per un quadro d’insieme, riferito a certi ambiti del ducato milanese, nel quale le letture di Giasone possono (o devono? qui il limite è molto sfumato) essere inserite: sapere quando, in che modo e in che misura esse precisamente s’inserirono ci è spesso precluso: questi dati per ora si possono determinare per approssimazione, o si possono segnalare in maniera ipotetica, attraverso i riscontri, le conferme e le novità rispetto al materiale relativo già noto» (p. 42). In conclusione, un’appendice con gli elenchi degli autori e delle opere finora identificati nel ms. e quello dei tituli.

Nell’ultima sezione l’Autore si occupa degli scrittori «lombardo-latini» del Cinque- e Seicento: il milanese Aurelio Albuzio, autore dei Christianarum institutionum libri tres (1540), «sorta di catechismo in distici elegiaci rivolto ai giovani, con forte intento pedagogico e didascalico, caratterizzato da un ascendente erasmiano» (p. 98) per il suo anticlericalismo e fondamentalismo religioso; Giovan Battista Schiafenato, nei cui scritti «non si verifica solo la coabitazione di genere elegiaco ed epigrammatico nella medesima macrostruttura, ma, a livello microstrutturale, avviene una fusione tra egloga ed elegia: così le prime due elegie sono, sì, di argomento amoroso ma di ambientazione arcadica, connotate da una propensione alla similitudine e al dettaglio descrittivo, con una spiccata tendenza al catalogo di gusto manieristico» (p. 100). Seguono esaustivi referti su Antonio Cerruti, Giovan Paolo Ubaldini, Luigi Annibale della Croce, Giovanni Toso, Francesco Civelli, Girolamo Visconti, Sigismondo Fogliani, Bernardino Baldini, Carlo Maria Maggi e altri autori semisconosciuti.

Il saggio si conclude col seguente monito: «Dopo un silenzio durato oltre un secolo dal primo quadro complessivo offerto da Federico Barbieri, questo saggio ha ripreso le fila e posto le fondamenta per un dissodamento che ci si augura continui proficuo […]. Si pensi […] alle direttrici intertestuali che potrebbero illuminare zone ancora in ombra di grandi lombardi quali Parini e Manzoni: Parini, il cui rapporto con il latino, classico e non, è in minima parte indagato; Manzoni ancora più sguarnito di studi su quel fronte […]. Tutta la letteratura italiana è profondamente bilingue, anzi trilingue (se, oltre all’italiano e al latino, includiamo il dialetto […]): ignorarlo porterà sempre a una comprensione parziale e falsata della nostra storia e cultura» (p. 148).

Immagine: Leonardo presenta il bozzetto dell'Ultima Cena al Duca di Milano Ludovico il Moro, Francesco Podesti, 1846. Al centro della scena sono, come altrove, il duca con la duchessa Beatrice e il cardinale Ascanio.

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