Il 10 ottobre 1952 nelle edicole italiane compare il n. 1 dei “Romanzi di Urania” per Arnoldo Mondadori Editore: Le sabbie di Marte di Arthur C. Clarke, uscito l’anno precedente per la londinese Sidgwick Jackson con il titolo The Sands of Mars. Oltre al romanzo, tradotto da Maria Gallone, il fascicolo ospita anche Oltre l’invisibile di Clifford D. Simak nella traduzione di Giorgio Monicelli, l’intervento “Varietà” e la rubrica “La sfinge moderna” di Cielo D’Alcamo. È un giorno fondamentale per la diffusione della fantascienza in Italia (Iannuzzi 2014: 23-78) e, per quanto non sia un capolavoro, il romanzo di Clarke verrà poi ripubblicato nel 1965 (n. 402, con una traduzione riveduta), nel 1977 (Classici n. 7) e nel 2015 (Collezione n. 150) sempre da Urania, che per festeggiare i 70 anni di attività ha riportato in edicola il romanzo come primo numero della serie speciale “Urania: 70 anni di futuro”. Altre edizioni sono quella del Club degli editori (1968) e di Mondadori (2015).

Lo scrittore di fantascienza su Marte

Le sabbie di Marte racconta il viaggio e il soggiorno su Marte di Martin Gibson, autore di fantascienza, che giunge con l’astronave Ares sul Pianeta rosso, dove è ospite della comunità dei coloni terrestri e scopre che stanno per stravolgere l��ecosistema marziano per renderlo adatto alle loro esigenze. Il tema è quindi la terraformazione di Marte, affrontato in un romanzo ambientato nel XXI secolo, anche se gli unici riferimenti temporali sono «al lontano 1944» (p. 87) e le date di stesura di uno dei primi romanzi di Gibson, Polvere marziana, risalente al 1973 o 1974, ovvero – come viene detto – agli albori dei viaggi interplanetari, tanto che l’astronauta che accompagna lo scrittore commenta sorpreso: «non sapevo fosse tanto tempo fa» (p. 28). Marte, considerato disabitato («questa dei Marziani era la storiella che circolava tra gli abitanti della Terra», p. 23), è inoltre immaginato coerentemente con le ipotesi scientifiche del tempo, con scarsità di acqua, il ghiaccio (non secco) ai poli, una vegetazione di «piante tigliose, coriacee» (p. 50), tra «deserti e oasi» (p. 48), con una sabbia rossa che era «una complessa miscela di ossidi metallici» (p. 58). L’uomo vi ha impiantato almeno due piccole città, Porto Lowell, definita con ironia «città tascabile» (p. 51) e «villaggio-giocattolo super meccanizzato» (p. 61), e la più grande Porto Schiaparelli (entrambe diventano poi Port dal 1965), protette ognuna da una cupola, come raffigurato nella cover originaria di Curt Caesar, omaggiato nella nuova edizione da Franco Brambilla (che sta firmando tutte le edizioni del settantennale).

Lassù****, quassù e laggiù

Il pianeta, infine, è introdotto da un avverbio di luogo: lassù. Appare nella prima battuta del pilota che accompagna Gibson sulla base lunare da cui partirà, è l’incipit del romanzo: «Dunque è la prima volta che sale lassù» (p. 11, upstairs nell’originale). Gli avverbi di luogo hanno una funzione deittica, anche indicativa di una trasformazione culturale. Se infatti il centro deittico iniziale è la Terra, nello spazio esso diventa prima dinamico, Ares in volo, per cui laggiù è la Luna nell’avvicinamento («laggiù, in mezzo a quella terra fredda e baluginante appena» p. 13) e, una volta giunti sul satellite marziano Phobos (anch’esso lassù rispetto all’astronave: «in questo momento lassù ci sta un sacco di gente a costruire un laboratorio gigante» p. 47), laggiù è la Terra, sempre più evocata dal deittico, e Marte e gli altri pianeti diventano di conseguenza quassù («La Terra era sempre “laggiù”; gli altri pianeti erano sempre “quassù”»), il che porta Gibson a una riflessione metalinguistica: «questi avverbi di luogo gli suggerivano un curioso quadro mentale di un gran piano inclinato che portasse giù sino al Sole, con tutti i pianeti disposti lungo il percorso ad altezze diverse» (p. 116). Il legame con il Pianeta rosso che implica quassù ha un correlativo che esprime partecipazione anche esistenziale ed emotiva nell’uso del pronome con cui Gibson parla degli abitanti di Marte. Se infatti inizialmente ne parla in terza persona plurale, nel reportage radiofonico che invia sulla Terra si rivolge ai terrestri con “voi” e parla di sé e dei coloni come “noi”: «Salute, Terra. Qui vi parla Martin Gibson che vi parla da Porto Lowell, Marte. Per noi oggi è un grande giorno» (p. 77). Ciò viene apprezzato dal presidente di Marte che, con un’altra osservazione metalinguistica dice appunto: «In principio scriveva in terza persona plurale: adesso siamo passati al “noi”» (p. 79). Il fatto è che Gibson è rimasto affascinato da quei «volti di uomini e di donne uniti da una causa comune» (p. 75), dal loro «senso di pienezza che pochissimi ormai potevano sentire sulla Terra, dove tutte le frontiere erano da tempo lontanissimo state raggiunte e superate» (p. 75). La Terra è un pianeta lontano, e per i numerosi bambini nati su Marte è «un pianeta sconosciuto e lontanissimo, oggetto di qualche pensiero ma non di desiderio» (p. 60). Manca quindi la nostalgia, è un altrove che non appartiene più ai coloni.Immagine 0Arthur C. Clarke, Le sabbie di Marte (The Sands of Mars), I Romanzi di Urania, Mondadori, 10 ottobre 1952 (illustrazione di copertina di Curt Caesar)

Le edizioni e i tagli

Lippi (2015: 106) ricorda che le traduzioni di Maria Gallone non sono mai state oggetto di critica dei lettori, e che erano tutt’altro che “usa e getta”, ma come (purtroppo) si è verificato molto a lungo anche per Le sabbie di Marte erano stati tagliati dei passaggi del testo originario per necessità di foliazione. Fin dal primo paragrafo, ad esempio, notiamo a livello microscopico che la noncuranza del pilota per il suo passeggero e l’immagine delle lancette dell’orologio che segnano il passare il del tempo, correlativo oggettivo della tensione di Gibson, vengono emendate:Immagine 1

Sempre nel primo capitolo, a livello macroscopico, riscontriamo inoltre che viene tagliato il passaggio in cui Gibson ricorda il primo volo di Robin Blake, il protagonista del suo romanzo Polvere marziana, e di quanto la scrittura di D.H. Lawrence fosse stata il modello per la descrizione delle sensazioni fisiche del personaggio. Il passaggio è significativo perché il rimando a testi e autori letterari è ricorrente nel romanzo, e nella versione Urania sono nominati ad esempio i Racconti di Canterbury di Chaucer, le Mille e una notte, Poe, Verne e Wells, e usati come termini di paragone personaggi (nonché titoli di opere), per cui l’Ares in assenza di gravità, il che comporta un’alterazione della percezione dello spazio, e con i membri dell’equipaggio rasati a zero, ricorda il castello di Dracula (p. 9).

Paciosi erbivori

Si tratta quindi di classici della letteratura, dalla tradizione novellistica europea medievale e araba ai capostipiti della letteratura di genere, e l’insistenza su Wells testimonia l’interesse in particolare per il tema del conflitto con civiltà aliene, questione che torna in questo romanzo, ma con un rovesciamento comico, perché la «civiltà extra-terrestre» (p. 79, ancora non univerbato come extra-terrestrial culture nell’originale) con cui Gibson entra in contatto, dimostrando che esistono i “marziani”, è composta da paciosi erbivori, tra cui un cucciolo che diventa suo fedele amico. L’evento è coerente con un tema rilevante che fin dal primo capitolo viene posto con ironia, strettamente connesso alla citazione di opere letterarie, vere o postulate: il conflitto tra immaginario e realtà in relazione al futuro, in particolare alle tecnologie e alle condizioni umane nei viaggi e nella vita nello spazio. Per quanto nel finale la fantasia e le capacità letterarie di Gibson si riveleranno potenzialmente funzionali alla propaganda rivolta ai terrestri per permettere ai coloni di continuare le loro sperimentazioni, il conflitto tra reale e immaginario comporta delusioni per lo scrittore (ad es. la visione della Terra dallo spazio e delle stelle dal finestrino oscurato, la fisionomia del capitano Norden per nulla da avventuriero…), e con ironia l’autore, nonostante racconti e nomini viaggi, voli, esplorazioni (e su navi) interplanetari o interspaziali, fa dire dal capitano Norden a Gibson che «nello spazio non succede mai nulla» (p. 9), contrariamente alle narrazioni di esplorazioni e battaglie intergalattiche, da space-opera.

Fantascienza e fantascientifico

È in questo contesto che viene affrontato in un discorso metatestuale la narrazione del futuro nelle «vecchie favole del buon tempo passato», come Dalla Terra alla Luna di Verne, che dimostra che «non c’è nulla che sia più morto dei racconti avveniristici di ieri». Tale affermazione di Norden porta Gibson a chiedergli: «Dunque ritieni che la letteratura così detta scientifica non potrà avere mai un valore artistico duraturo?» (p. 27). Bisognerà aspettare l’edizione 1965 (p. 38) per leggere l’aggettivo fantascientifica, mentre nell’originale abbiamo già il sostantivo science-fiction («So you don’t consider that science-fiction can ever have any literary value?»). Una curiosità: nell’edizione Mondadori 2015 e in quella per il settantennale di Urania (2022: p. 53) l’aggettivo è tra virgolette, così come vi riscontriamo altri segni paragrafematici assenti tanto nell’originale inglese quanto nella prima traduzione, ad esempio «uno stato d’animo, per così dire, “sintetico”» nell’ultimo Urania (2022: 11) era «uno stato d’animo sintetico, per così dire» (p. 3) nell’edizione 1952, che però introduce l’inciso con funzione limitativa assente nell’originale. La scelta di questo inserimento potrebbe dipendere da un uso forse non ancora diffuso del tecnicismo chimico, mentre nel caso di fantascientifica la sua notorietà è senz’altro escludibile, visto che il neologismo fanta-scienza (calco di science-fiction) è attribuito a Giorgio Monicelli (Fanfani 2011), nell’editoriale del medesimo fascicolo Urania che presenta il romanzo di Clarke, definito un «classico romanzo di fanta-scienza, per usare un neologismo abbastanza efficace» (p. 2). I lettori di quel 10 ottobre, quindi, sono stati i primi a incontrare il sostantivo italiano che denomina il genere letterario, mentre per l’aggettivo devono ancora attendere.

Quale lingua del futuro nel 1952

Considerato questo, non è oziosa la domanda: quale lingua leggono i primi lettori di Urania? Data la trama del romanzo di Clarke, spiccano ovviamente i termini relativi alle astronavi e ai loro viaggi, ma con pochi forestierismi. Adattati, dal francese abbiamo «ci collegheremo in relè» (p. 85), dall’inglese monitore per monitor (pp. 24, 25), mentre inglesi non adattati sono gli andronimi (ma l’onomastica delle astronavi attinge anche alla mitologia, come già notato nel suo corpus fantascientifico da Santi 2020) e il marchionimo perspex («una maschera di perspex, materiale plastico molto più trasparente del vetro» p. 31). Si tratterebbe in questo caso di una prima attestazione, dato che il Gradit data l’apparizione del termine al 1958. Infine, in tempi “pre-computer”, il «big electronic calculating machine» è la «grande macchina calcolatrice elettronica» (p. 20).

I termini tecnici inglesi sono quindi tradotti, come anche jets > turbogetti (p. 80), parola di fresco conio, attestata in italiano solo a partire dal 1949: ciò offre un effetto particolare, perché sono parole che evocano prospettive di mondi nuovi, scientificamente avanzati, come anche fattoria idroponica (p. 55) o muro di vetrocemento (p. 56), dove idroponico e vetrocemento sono entrambi datati dal Gradit al 1950. Nel primo capitolo notiamo inoltre che space-travel diventa volo interplanetario; ignites jets > razzi dell’accensione (che nell’edizione italiana «cominciano a miagolare», p. 3, mentre nell’originale più prosaicamente start); instrument board > cruscotto; vertical starts > timone di direzione; zero-gravity > gravità nulla. Numerosi i calchi di espressioni polirematiche con l’inversione della sequenza aggettivo-sostantivo (e l’eliminazione del trattino unificante nell’originale): space-station > stazioni spaziali, atomic ships > navi atomiche, radial gravity > gravità radiale, board log > giornale di bordo; space-sickness > nausea spaziale. A forme sintetiche sono a volte sostituiti costrutti più articolati, per cui ad es. «atomic drive unit» diventa «mezzo azionato da forza atomica» (p. 5), mentre per space ship la Gallone propone forse la prima attestazione di astronave (p. 7), datata dal Gradit al 1961. Non è peraltro l’unica, se consideriamo che intercomunicazione è datato 1973 dal Gradit ma qui incontriamo «quadro d’intercomunicazione» (p. 24) e «commutatore delle intercomunicazioni» (p. 25). A questi aggiungiamo l’adattamento astronavigazione (p. 23, da astrogation).

Lessico e quadri mentali

Continuando a osservare le scelte di traduzione, se risulta necessario sciogliere diversi acronimi, come M.O., inesistente in italiano, in ufficiale medico (p. 4), e usare per drugs, le sostanze per controllare le reazioni fisiche degli astronauti in volo, espressioni come sostanze nuove e rimedi (pp. 3, 5), manubrio richiede invece una contestualizzazione sportiva, verosimilmente perché nel 1952 ancora pochi praticano sport in palestra, per cui «the glittering dumb-bell hanning against the stars was not his idea of space-inner» > «quello scintillante attrezzo ginnastico, formato da palle unite da una sbarra, a forma di manubrio, non era il suo concetto di “transatlantico” spaziale» (p. 7). Se quindi la traduzione potrebbe anche essere transculturale, è curioso notare come la tecnologia futuristica immaginata da Clarke per il terzo Millennio abbia quanto meno un effetto comico, oggi, e basti citare gli «allarmi automatici», il «telescopio a specchio» o il «telescopi che ingrandiscono oltre mille volte». Essa risulta infatti decisamente arcaica, spesso perché in debito con quella meccanica, ad es. in relazione alla acquisizione di immagini, per cui è usata una macchina fotografica Leica equipaggiata con «lenti ausiliarie ed esposimetri» (p. 11) con tanto di «una serie di pellicole policrome» (p. 66), con cui Gibson scatta fotografie di piante marziane (ma ricordiamo che nel 1969 le immagini dell’allunaggio giungono a noi grazie ai rullini della Hasselblad 500 EL Data Camera). Si usa poi ovviamente la macchina per scrivere e documenti in formato cartaceo e fotografie stampate occupano i tavoli; a distanza si comunica invece con altoparlanti e megafoni sulla nave, o con il telefono interno, mentre a distanza interplanetaria i messaggi sono da telegrafare, si usano cablogrammi, ma si prefigura una sorta di smaterializzazione digitale quando sono riposti i «fogli nel vassoio del trasportatore automatico» e spariscono «entro le viscere della macchina per emergere cinque secondi dopo entro il collettore radiotelegrafico» (p. 38).

Tecnicismi

Non manca un largo uso di tecnicismi, come emerge dagli esempi citati, ma occorrono pure numerosi termini generici, non specialistici, coerentemente con la caratterizzazione culturale del protagonista e voce narrante del romanzo. Gibson, infatti, come scrittore è noto per essere molto dettagliato nelle descrizioni, ma la sua cultura scientifica non è molto approfondita. Quando su invito di Jimmy Spencer prova a documentarsi leggendo Elementi di astronautica di Richardson, si arena subito di fronte a un passaggio specialistico quale: «Sostituendo il valore della distanza del perielio dall’equazione 15,3, otteniamo…» (p. 12). Incontriamo esempi di linguaggio scientifico anche nelle descrizioni, come le «pompe dell’aria che insufflavano gli alisei artificiali» (p. 28), in espressioni quali «contrazioni termiche dei motori» (p. 3), o nelle battute ironiche del tecnico Bradley: «come saprai, la forza di campo H è inversamente proporzionale alla distanza, appare subito ovvio che dH/dr varia inversamente al quadrato di r» (p. 26). Ciò che caratterizza non solo questi passaggi è appunto il lessico tecnico, per cui sono citati anche oggetti e strumenti di precisione nominati correttamente quali nonio, termostati, giroscopio, pile a secco, eliografo, encefalografo, strutture come l’osservatorio magnetico e l’antenna Yagi, o discipline specifiche come ingegneria nucleare, aerografia e le relative ricerche aerologiche. Per limitarci a pochi esempi di termini ed espressioni scientifici, dall’astronomia è preso parallassi; dalla geofisica ionosfera e dalla geografia polvere meteorica; dalla cinematica orbita parabolica; dalla fisica gravità rotazionale, reazione a risonanza mesonica e reazioni mesoniche; dall’aeronautica «deflettere l’orbita di viaggio»; dall’elettronica diagrammi di circuito, dalla geologia e dalla chimica ossidi metallici, ossido di ferro, magnesio; dalla botanica clorofilla, oxyfera, fotosintesi.

Metalinguaggio

Interessante risulta il lessico della radiotecnica, per cui abbiamo fischi di eterodina, ma anche numerosi composti a base radio-, con i già attestati radiofaro (anche automatico), radio-onde, radiomessaggi, il non ancora univerbato radio segnali, il verbo radiodiffondere, e viene risemantizzato radiogramma, che diventa una comunicazione via radio sul modello ‘telegramma’. Abbiamo inoltre i razzi radiocomandati, ma il tecnicismo aeronautico relativo al motore a combustione è caratterizzato anche da altre proprietà, incontriamo infatti anche, a seconda della forma, della funzione o dell’energia usata, razzi alati e a punta di freccia, razzi di decollo, atomici, riforniti o azionati chimicamente (o sinteticamente chimici), e persino un razzo catapultato (carrier missile nell’originale), che sarebbe «un piccolo razzo automatico radiocomandato e dotato di una velocità terminale altissima» (p. 16). Non è l’unico momento metalinguistico del romanzo, in cui occorrono anche frasi esplicative per espressioni tecniche altrimenti poco comprensibili, come: «la maggior parte del lavoro sbrigato colà riguardava l’astronomia posizionale – cioè il compito noioso ma importantissimo di trovare le latitudini e le longitudini, badare ai segnali orario e collegare le fisse radio alla principale griglia marziana» (p. 65).

L’aura fantascientifica

A fronte di questa frequenza nel ricorso a tecnicismi e della ricercatezza negli effetti di precisione, è però diffuso il finto tecnicismo, o l’accostamento insolito di termini dotti e comuni che connota come avveniristici o fantastici oggetti noti, con effetto straniante, per cui incontriamo i vetri filtranti per oscurare, i girasoli ipertrofici, mentre non ci sono robot ma «automi addetti alla manutenzione» (p. 14), in ambito medico è molto temuta la febbre marziana (martian fever nell’originale) e nell’ambito gastronomico l’uso dell’aggettivo sintetico (frittata sintetica, birra sintetica). A queste espressioni vanno aggiunte le numerose occorrenze di termini generici come aggeggio, congegno, interruttore, materiale, meccanismo. Possono apparire senza alcuna ulteriore definizione, o all’interno di accostamenti con termini scientifico come «materiale refrattario» (p. 48), o con minime indicazioni quali «aggeggio orizzontale» (p. 64), o qualificati da aggettivazioni altrettanto generiche, come in «splendide apparecchiature scientifiche» (p. 187), «speciali dispositivi» (p. 31), «apparecchio prezioso» (p. 114). L’aggettivazione a volte enfatizza le caratteristiche degli oggetti o dei materiali di cui sono composti attraverso superlativi assoluti (plastica resistentissima) o prefissati ad es. con super- (rivelatore supersensibile, lega superleggera) o ultra- (high-speed elevator > ascensore ultrarapido). Rare sono invece le specificazioni relative alla caratteristiche tecniche, per cui vengono aggiunti tecnicismi (apparecchio a reazione, congegni a propulsione atomica) o addirittura spiegazioni che permettono di muovere dal generico allo specialistico, dall’ignoto al definito: «questo congegno è il radiatore effettivo: gli altri sono direttori e riflettori» (p. 23).

Lo scafandro spaziale

Esemplare è l’introduzione graduale della tuta spaziale: è inizialmente chiamata scafandro spaziale, presentata come ingombrante e dotata di un elmetto, poi presentata genericamente come un «meccanismo complesso» (p. 24) senza ulteriori spiegazioni, per divenire uno degli «aggeggi complicati [che] avevano sempre affascinato Gibson», nello specifico «un aggeggio supernuovo da aggiungere alla già numerosa collezione di congegni che lui aveva studiato e dominati», un vestito spaziale privo di «calzoni», in cui «semplicemente bisognava sedervici dentro, come in un sacco», con cui «muoversi in gravità nulla» (p. 30), fino a giungere alla descrizione:

La mancanza di gambali flessibili semplificava moltissimo la forma di quegli abiti, i quali altro non erano che cilindri terminanti in alto in una maschera di perspex, materiale plastico molto più trasparente del vetro, e completati ai lati superiori da due braccia articolate. Lungo i loro fianchi correvano scanalature e rigonfi misteriosi dentro cui si annidavano il condizionamento d’aria, una radio, i regolatori del calore e un sistema di propulsione a basso regime. Nel loro interno chi li indossava poteva godere una notevole libertà di movimenti: si potevano ritirare le braccia per maneggiare i vari controlli e persino per consumare un pasto leggero senza ricorrere a esercizi acrobatici eccessivamente complicati. (p. 31)

Paragoni e metafore

Da notare la commistione di tecnicismi, termini generici (controlli), aggettivazioni che esulano dall’ambito scientifico (misteriosi) e scelte verbali metaforiche (annidarsi), comparazioni funzionali a una migliore comprensione (più trasparente del vetro), e da un punto di vista morfosintattico l’uso transitivo del verbo godere. L’uso di paragoni e metafore è particolarmente funzionale all’appropriazione di concetti e alla visualizzazione di situazioni o oggetti inusuali da parte del lettore. Così, come nella tuta si sta «come in un sacco», gli alloggiamenti dei passeggeri nell’astronave Ares sono «una specie di alveare di camerette» (p. 15), e due membri dell’equipaggio a gravità zero «penzolavano come stalattiti dal “soffitto”» (p. 9), dove le virgolette, già nell’originale, evidenziano l’assurdità di individuare un sopra o un sotto. Tra le metafore, quelle nautiche sono ovviamente le più diffuse, d’altronde parliamo di astro_navi_, le navicelle di trasporto dai satelliti a Marte sono dette traghetti, mentre parlando della condizione della moglie che attende l’astronauta in viaggio si dice che «le mogli dei marinai hanno sistemato questo punto da secoli e secoli» (p. 121). Al lessico navale si attinge poi anche con ironia, usando per velivoli non nuovi carretta e vecchia caravella, mentre si usano metafore antropomorfizzanti per «le voci delle stelle e delle nebulose», ovvero le «radiazioni che avevano iniziato il loro viaggio nell’infinito prima della nascita dell’uomo» che hanno un suono (secondo l’aggettivazione consueta, con la funzione di rendere affascinante e misterioso il tutto, sono «suoni di civiltà lontanissime e ignote che si parlavano tra loro attraverso gli oceani spaziali»), e una volta captato e riprodotto risulta composto «di fischi e di sibili radiofonici, pareva il rumore di mille padelle sfrigolanti al momento di entrare in ebollizione» (p. 37). Sempre riguardo ai suoni, infine, non mancano le onomatopee tra virgolette, che tendono a tradurre fonologicamente il suono scritto da Clarke: “ciac” per la ventosa che si attacca (p. 21, “thwack!” nell’originale), “biip-biip-biip” per il segnale radio (p. 26, “beep-beep-beeps” nell’originale), il “calmo” honk dell’adulto contrapposto allo “squittio acuto” quiicc! del cucciolo marziano (pp. 98, 99, “Squeak” la seconda, la prima identica nell’originale).

Fiducia nella scienza e senso del dominio

Chi il 10 ottobre 1952 compra il primo Urania legge quindi un testo che presenta una commistione di termini nuovi e letterari (come gli avverbi colà e quivi), persino imprecazioni edulcorate (accipicchia, perbacco), ma soprattutto una storia in cui il lessico, l’enfasi aggettivale, le descrizioni dei luoghi e l’esposizione di ipotesi o soluzioni scientifiche a problemi relativi a viaggi, esplorazioni e terraformazione, esprimono la convinzione che l’uomo possa raggiungere spazi remoti, esplorarli, viverci e adattarli alle proprie esigenze, il che implica una grande fiducia nella scienza, nell’uomo e nel futuro. Il romanzo però tace i pericoli di questo sviluppo (i marziani non sono gli alieni invasori di Wells, ma docili animali addomesticabili), e anzi proietta nella terraformazione il concetto di dominio proprio dell’uomo, vale a dire l’uomo occidentale bianco, senza alcun intento di denuncia. Perciò la fiducia che è proiettata ulteriormente nel futuro, al termine del romanzo, può essere vista come ingenuità irresponsabile, se si vuole essere accondiscendenti, o come presunzione irrimediabile, perché se per terraformare Marte è necessario trasformare in un sole minore uno dei suoi satelliti, Phobos, ciò significa alterare per sempre l’ecosistema dell’intero pianeta, che peraltro non è ancora completamente esplorato, quindi conosciuto («tre quarti del pianeta erano tuttora inesplorati» p. 57), e ignorare che ciò possa avere ripercussioni sull’intero (eco)sistema (solare). Ciò non preoccupa minimamente gli scienziati, convinti anzi che, se un giorno Phobos «si fosse esaurito e spento la scienza di epoche remote nel futuro avrebbero saputo trovare una risposta nuova – forse una risposta inconcepibile oggi per questa nostra epoca attuale come per un secolo innanzi sarebbe stata inconcepibile l’incendio artificiale di un mondo» (p. 129). E in questo, fuor di metafora, Le sabbie di Marte offre ancora oggi, al lettore del 2022, da classico della fantascienza quale è, un ottimo strumento per leggere il presente, come esempio di retorica dell’hybris.

Bibliografia

Si ringraziano per l’importante aiuto nel reperimento dei volumi Urania n. 1/1952 e n. 402/1965 la generosa community di Urania-Mania (in particolare il Bibliotecario Gian Osvaldo Orlandi e Marco Rognone) e Daniele Barbieri.

Fanfani M. (2011), Parole d’autore, in Enciclopedia dell’Italiano, a cura di R. Simone, Roma, Istituto della Enciclopedia Treccani

Iannuzzi G. (2014), Fantascienza italiana. Riviste, autori, dibattiti dagli anni Cinquanta agli anni Settanta, Milano-Udine, Mimesis

Lippi G. (2015), Il futuro alla gola. Una storia di “Urania” dagli anni Cinquanta al XXI secolo, Roma, Profondo Rosso

Santi F. (2020), «Egli correva a visifonare a Narilma, che in quel periodo era la citobotanica della città». La lingua della fantascienza italiana, in “Lingua italiana - Treccani.it”, Roma, Istituto della Enciclopedia Treccani, 12 novembre 2020

Sebastiani A. (2021), Roberta Rambelli e il furto del Gilgameš, in “Lingua italiana - Treccani.it”, Roma, Istituto della Enciclopedia Treccani

Immagine di copertina: Franco Brambilla, originale dell’illustrazione per la copertina di Arthur C. Clarke, Le sabbie di Marte, n° 1 della collana per edicole “Urania – 70 anni di futuro” (Mondadori, Gazzetta dello sport, Corriere della sera, 2022). Si ringrazia l’autore per l’amichevole concessione alla riproduzione della sua opera.