21 giugno 2022

Essere off dal Salone, essere in letteratura

A proposito di QUCHI. Quello che ho ingoiato di Caterina Venturini

 

In occasione dell’ultimo Salone del Libro, in una Torino infuocata, intasata, immobilizzata e frastornante, mi trascino verso una graziosa libreria nel quartiere di Borgo Vittoria. In una sala stracolma de La Piola di Catia, una cinquantina di persone si sventolano con ventagli, pezzi di carta, orli di gonne o giacche o, chi l’ha già acquistato, con il libro di cui si parla: QUCHI. Quello che ho ingoiato (Roma, edizioni E/O, 2022). Siamo a quattro chilometri dal centro storico e a nove da Lingotto, dove ha luogo la fiera della letteratura che, in questi giorni, attrae migliaia di persone. Subito penso: questo libro è un miracolo! La libreria piena, le cosce sudate, Caterina Venturini, l’autrice, che urla perché la sua voce possa superare lo stridore del tram e gli altri fenomeni acustici che ci deliziano dalla strada, mentre dall’altra parte della città si tiene la fiera. Poco dopo penso: questo libro è un paradosso! Appena uscito, fresco fresco di stampa – tempistica perfetta per trovare una collocazione nello straboccante programma di Cuori Selvaggi (questo il tema della XXXIV edizione della kermesse libresca) –bellissimo, innovativo, eppure confinato in una costola del Salone Off.

Insomma, mentre al Salone dialogano, monologano, spettegolano scrittori più o meno grandi, con libri più o meno recenti, con voci più o meno dirompenti, e poi tanti cantanti, politici, ballerini, vignettisti famosi, cabarettisti, blogger, youtuber, influencer, mogli, mariti, personaggi che hanno saputo tramutare in una geniale operazione di marketing i propri problemi ginecologici o che tornano, in grande forma, per discutere di un tema di fondamentale attualità (il proprio romanzo autobiografico pubblicato dieci anni prima), al “Fuori Salone” Caterina Venturini ci parla di Letteratura.

 

La «futura infelicità americana»

D’altra parte, non sarebbe andata diversamente per Carla Longhi, l’amabile, tormentata protagonista di QUCHI. Quello che ho ingoiato. Carla, che non si sente né giovane, né bella, né libera e neanche eroica, e che, per l’ennesima volta, si chiede: cosa posso fare, io, in questo mondo? Qualcosa, in realtà, ha fatto: ha pubblicato alcuni romanzi di cui non si è accorto nessuno, ha raccolto molti rifiuti, ha fallito in molte carriere, e poi ha inseguito la propria «futura infelicità americana». A Los Angeles, come ogni altra volta, Carla ha provato ancora a dimostrare di essere all’altezza di un lavoro, uno qualsiasi. Cura meticolosamente l’annuncio e la camera in affitto, l’acqua minerale gratis nel frigo, i profumini in bagno, persino una scatola di assorbenti interni, lustra il pavimento, lucida lo specchio, acquista i prodotti migliori, dall’anticalcare all’antiruggine, dall’ammoniaca alla cera per il parquet, applica la teoria dei giochi per indovinare il contenuto della recensione ricevuta dagli ospiti e regolarsi di conseguenza. Eppure, ancora una volta, si trova a fallire o temere di fallire (poco le importa della differenza): «Il telefono s’illumina e vibra nel buio della sua stanza. Phyllida wrote you a review. Cosa vuole quella puttana? – si chiede subito Carla, spazzando via anni di studi femministi. Puttana, sì. Anzi dentro di sé, ama dire da un po’ di tempo: quella gran troia».

 

Il cavallo e le mele marce

Con ironia tagliente e un certo sarcasmo, ricorrendo a una serie di interlocutori che invoca a seconda di quel che vuole raccontare, Caterina Venturini conduce il lettore nelle vie, percorse e abbandonate, tra i frammenti di una quotidianità tutto sommato ordinaria, che insieme compongono il dramma di Carla. L’incontro speranzoso con Mara Calamai, la boriosa editor della casa editrice Apice: «“Buongiorno”, dice Mara, stringendo la mano a Carla, senza alzarsi. Del resto il galateo non lo prevede».

Le pagine in cui Carla deride se stessa, ridicolizza il proprio modo di narrare, mentre si ostina a paragonare la propria vita alla fiaba del cavallo, dato in cambio di animali, di valore sempre inferiore, e infine scambiato con un sacco di mele marce: «Man mano che gli animali apparivano e scomparivano, sempre meno persone restavano in piazza, molti se n’erano andati urlando: cos’è questa messinscena? Non ho un minuto in più da perdere con questa Carla Longhi. Qualcuno aveva sussurrato: anche la madre se n’è andata un’ora fa, lamentandosi: mia figlia non si sforza abbastanza. Proprio non ce la fa a raccontare una storia dall’inizio alla fine. Fatemelo dire: mia figlia è una stronza».

D’altra parte, è la stessa madre che una volta la rimprovera così: «Se io scrivessi, vorrei piacere a molti, non a pochi. Tu piaci sempre a pochi, non c’è da essere contente di questo».

In altri casi è Angela (la sua agente e di tanto in tanto voce narrante) a dileggiare la protagonista: «ti posso dire che il sogno a occhi aperti di Carla mentre si fa la doccia è di parlare a folle immense come dal palco di un concerto rock oppure affacciata dalla finestra del papa».

«Carla coincide con il suo naso. Ne è diventata una straordinaria sineddoche», racconta, ma poi, persino la rinoplastica sarà un fallimento, al punto che il chirurgo le offrirà di rioperarla senza costi aggiuntivi. Come è un fallimento l’inglese, questa nuova lingua che impara, ma non indossa, e che la porta a sentire persino il proprio figlio come un estraneo: «l’ultima volta per sapere cosa voleva mangiare mio figlio, l’ho dovuto far parlare con il dispositivo elettronico Alexa, che ha capito il suo accento meglio di me».

Ma andiamo là, nelle prime pagine, dove ogni riflessione inizia: Carla è a una cena, una Professoressa benemerita le parla, mentre parla mangia e sputa, Carla ha finito gli argomenti che sa sciorinare in un inglese fluent e, per celare il proprio livello B1, mantiene il riserbo. D’un tratto, un pezzo già masticato di salatino schizza dalla bocca della benemerita sul labbro inferiore di Carla e resta lì, non per molto, perché pur di non rischiare di dover essere criticata per il proprio ribrezzo, Carla decide di ingoiarlo. Si tratta, in fondo, di un unico gesto semplice, l’ingoio, e non è molto se può servire a non farsi cogliere in fallo. «Fatto, finito. Perché la professoressa non deve vedere lo schifo che ha combinato, potrebbe pensare che è colpa mia».

 

Il linguaggio irriducibile al senso

Nel proprio romanzo, Caterina Venturini racconta di tutto quanto Carla, nella vita, ha dovuto ingoiare. QUCHI, è ricco sotto più profili, perché avvincente, perché sperimentale, perché gioca con la lingua, con la struttura, con i punti di vista e le voci narranti: salta dalla prima persona alla terza, senza avvertimenti, comincia lo scambio incrociato tra protagoniste e coscienze, tra scrittrice, agente e psicanalista, in una continua lotta tra l’essere e il divenire. Il linguaggio è sia lo strumento, finemente levigato, con cui Venturini trascina il lettore, sia il trauma principale della protagonista che dà ogni colpa al bilinguismo, all’ambiguità delle parole, all’incontro mancato – direbbe Lacan – tra l’Uno e l’Altro. Il linguaggio è irriducibile al senso e Venturini osserva di continuo, attraverso la psicologia di Carla, questo doloroso distacco dal reale: Carla è straniera ovunque, dove è arrivata e dove non è tornata; è partita perché il figlio non dovesse essere il porta-parola della propria madre, ma si dispera quando scopre il tradimento che si cela dietro a una cattiva traduzione; Carla sa quanto sia necessario abitare la lingua dell’altro per conquistarlo, ma sa anche che non può fare altro che partire dall’italiano – e dalla scrittura – per ricucire le sue origini, i suoi lembi spezzati. Accade raramente che il significante agguanti il significato, ed è una scoperta che emoziona e rincuora: «Provo un’eccitazione improvvisa che somiglia alla commozione, mi succede ogni volta che le parole coincidono integralmente con i fatti». Per il resto del tempo è una lingua-ombra che ci abita e ci divide.

 

«“Io so perché non parlate. Voi siete ombre” What? chiede qualcuno. “You are shadows”, ripete lei. Io smetto di guardarla. Siamo ombre, tutti quanti. Privati della vostra lingua, di una comunità, dei vostri affetti, delle famiglie d’origine… che altro potevamo essere? Non importano i motivi diversi per cui siamo finiti lì dentro».

 

Libro, bolo ed editoria

Torniamo, per un momento, al miracolo, al paradosso, ai Cuori Selvaggi che di selvaggio non hanno accolto nulla, a Carla che ha tanto ingoiato – dice – e a tutti i personaggi che, invece, brillano esibendosi alla kermesse torinese. E se fosse il contrario? E se è proprio chi ha fatto dell’ingoio un’abitudine che oggi siede sugli spalti, sotto la scritta illuminata On, mentre chi, diversamente, ha ingoiato una sola volta e se n’è vergognata così tanto da dover vomitare il bolo in un libro, brilla – lei sì che brilla – nella tribuna cieca della squadra degli Off? Anche in questi ribaltamenti sussulta la genialità del romanzo di Caterina Venturini che, con talento e un escamotage escheriano, ha saputo restituire, attraverso un prodotto editoriale, il ritratto fedele dell’editoria come ciclo produttivo.

 

«Non sono un’esiliata. Non sono una rifugiata. Non sono una perseguitata. Non sono una cosmopolita. Non sono arrivata qui di notte con i barconi, non sono arrivata qui strisciando alla frontiera e mi sento in colpa anche per questo. Mi sento sempre perennemente in colpa. Mi sento sempre nel torto. Non riesco a mantenere un’unità di tono, anche quando scrivo. È come se ogni poco mi voltassi e vi dicessi: ora però cambiamo strada che questa mi ha stancato. Mi seguite? Vi prego, seguitemi», ci implora Venturini, e noi, senza bisogno di alcuna supplica, la seguiremo.

 

Immagine: Particolare della copertina del libro QUCHI. Quello che ho ingoiato (Roma, edizioni E/O, 2022) di Caterina Venturini 

 


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