La Divina Mimesis di Pier Paolo Pasolini (1922-1975) è, forse, il più noto (e ambizioso) progetto in forma di appunti e di frammenti in prosa, tutti risalenti agli anni 1963-1965, rimasto incompiuto. La ri-scrittura pasoliniana riguardò (soltanto) alcuni canti dell’Inferno dantesco: I-IV e VII. Pasolini, in una intervista del 1962, definì tutto questo materiale come un «poema satirico in prosa», facendo riferimento anche a La Mortaccia, che è, dunque, da considerare come un incunabolo della Divina Mimesis. Nella Mortaccia, infatti, una prostituta affronta il viaggio infernale, grazie alla suggestione provata dopo aver letto una versione a fumetti dell’Inferno di Dante.

L’opera uscì postuma nel dicembre del 1975, per i tipi della casa editrice Einaudi. L’incompiutezza fu una ben precisa scelta di Pasolini, che, come ha chiarito, di recente, Filippo La Porta, considerava le sue opere, tutte le sue opere, sempre come un “assaggio”:

«nell’opera di Pasolini tutto si presenta in forma incompiuta e instabile. Non per l’adesione a una ideologia letteraria (meno che mai “avanguardistica”), ma perché tale instabilità coincide per lui con la forma stessa della vita. Appunti, bozze, scalette “cantieri”. Tutto si offre come “saggio” (nel senso di assaggio)»

Nel primo frammento della Divina Mimesis, si legge che, intorno

«... ai quarant’anni, mi accorsi di trovarmi in un momento molto oscuro della mia vita. Qualunque cosa facessi, nella “selva” della realtà del 1963, anno in cui ero giunto […], c’era un senso di oscurità…»

Lo stile semplice e il linguaggio quotidiano, direi umile, dell’incipit di questa Divina Mimesis rinviano all’analogo incipit della Divina Commedia, canto I dell’Inferno, analogamente caratterizzato da uno stile piano e umile, e dall’estrema semplicità del lessico:

Nel mezzo del cammin di nostra vita

mi ritrovai per una selva oscura,

ché la diritta via era smarrita.                            3

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura

esta selva selvaggia e aspra e forte

che nel pensier rinova la paura!              6

Il rapporto con il testo dantesco, in questi primissimi righi dell’opera di Pasolini, è immediato, e si caratterizza:

- per il riuso del vocabolo selva

- per l’impiego dell’aggettivo oscuro

- per il ricorso all’espressione «mi accorsi di trovarmi», che rinvia al «mi ritrovai» dantesco

- per la notazione cronologica «Intorno ai quarant’anni», che rinvia al celeberrimo «Nel mezzo del cammin di nostra vita»

Pasolini e la questione della lingua

In Dante, il tono dimesso, didascalico, da narrazione autobiografica, del primo canto dell’Inferno, trova una spiegazione nell’individuazione del valore della variazione dei toni. È proprio la mescolanza degli stili che conferisce, nel poema, rilievo poetico anche alle parti più direttamente didascaliche dell’opera, resistendo al tempo, e rimanendo versi indimenticabili, fissati per sempre nella memoria del lettore medio italiano (e non solo italiano), nonostante l’usura dei secoli. In Pasolini, invece, la questione intorno al linguaggio e ai toni dello stile, per certi aspetti, è ancor più complessa, rispetto a Dante Alighieri. In quello stesso periodo, infatti, Pier Paolo Pasolini era impegnato, sul versante teorico, con la riflessione intorno al problema linguistico della nascita, in Italia, di una nuova lingua, determinata non più – secondo il suo giudizio – dalla letteratura, ma dalla tecnica, e con il prevalere, in questa nuova lingua, del fine comunicativo su quello espressivo. Questo nuovo italiano «tecnologico», non più «umanistico», sotto la spinta dei centri industriali del Nord Italia, e della borghesia neo-capitalistica, finiva, secondo Pasolini, per determinare un vero e proprio «genocidio culturale», capace di distruggere non solo i dialetti delle classi popolari, ma anche le loro «diversità culturali», le loro ideologie, le loro visioni. Questa nuova lingua «tecnologica», comunque, nata brutta, nel giudizio di Pasolini, perché comunicativa e non espressiva, finiva per diventare l’aspirazione stessa del Pasolini autore della Divina Mimesis.

Pasolini-Virgilio nelle borgate

Nella Divina Mimesis, Pasolini racconta di un viaggio compiuto nelle borgate di Roma, in compagnia del sé stesso degli anni Cinquanta, cioè in compagnia del Pasolini degli anni della poesia civile, della poesia delle ceneri di Gramsci, e della poesia delle belle bandiere. Ebbene, questo Pasolini civile s’incaricava di svolgere il ruolo del Virgilio dantesco, di guida, capace di accompagnarlo nei cerchi e nei gironi dell’Inferno contemporaneo. Dalla «selva oscura», alla «selva della realtà». Le singole visioni di questa ri-scrittura pasoliniana, infatti, corrisponderebbero, per un gioco di rispecchiamento, ai rispettivi cerchi danteschi. Al momento del viaggio, Pier Paolo Pasolini è intellettuale maturo, ancorché deluso; alle prese, cioè, con un bilancio interiore non più rinviabile, da affrontare (e, quindi, da raccontare). Dieci anni dopo, nel 1974, Pasolini avrebbe dichiarato che la sua discesa agli «inferi» fosse da leggere come una denuncia del genocidio in atto, in quell’Italia che viveva il boom, e che stava interpretando la sua rivoluzione industriale (post-bellica), senza, però, porsi tanti interrogativi sui prezzi sociali e culturali che quel progresso comportasse. La questione del genocidio Pasolini, in quegli stessi anni, la stava sviluppando sulle colonne del «Corriere della sera», con articoli corsari, dal tono e dal sapore, appunto, graffianti e polemici. Egli denunciava, da quelle colonne, la degradazione neo-capitalistica dell’Italia degli anni del boom economico, tra nostalgia regressiva, per la perdita della civiltà contadina, e acuta e spietata diagnosi delle contraddizioni dei cambiamenti in atto, così profondi e così repentini. La voce critica di Pasolini, la sua spietata visione corsara, fu, in quegli anni, una delle poche, se non l’unica, che si levò, con spirito profetico (mai cinico). La gran parte degli intellettuali italiani, invece, in quegli stessi anni, pur spettatori dello stesso «genocidio», preferirono il più comodo (e utilitaristico) silenzio indifferente.

La bandiera dell’indifferenza

Si legge, infatti, in un frammento al canto III della Divina Mimesis, sempre in gara con il corrispettivo canto dantesco, che il Pasolini viandante si accorse che tutta:

«... quella gente, lungo le strade del loro mondo di impiegati, di professionisti, di operai, di parassiti politici, di piccoli intellettuali, in realtà correvano come matti dietro a una bandiera. Per le viuzze medievali, o per le grandi strade burocratiche, liberty, o, infine, per i quartieri nuovi, residenziali o popolari, essi non si agitavano trascinati – come pareva – dall’orgasmo del traffico o dei loro doveri: ma correvano dietro a quella bandiera. Si trattava, in realtà, di uno straccio, che sbatteva e si arrotolava ottusamente al vento [...]».

Bibliografia minima

Per le citazioni dantesche, il testo utilizzato è quello dell’edizione critica di Giorgio Petrocchi (1966-1967).

Per il testo della Divina Mimesis, il testo utilizzato è quello dell’edizione Einaudi, Torino 1975.

La Porta, F., Il narratore di se stesso, in «la Repubblica», Robinson, numero speciale del 26.02.2022, n. 273, p. 29.

La Porta, F., Pasolini, Profili di Storia Letteraria, collana diretta da Andrea Battistini, il Mulino, Bologna 2012.

La Porta, F., Pasolini. Uno gnostico innamorato della realtà, Le lettere, Firenze 2002.

La Porta, F., Paolini e Sciascia, Marsilio, Venezia 2021.

Toffolo, D., Intervista a Pasolini, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, Pordenone 2002.

Per una lettura critica diffusa, condotta in modo speculare, tra Pasolini e Dante, mi permetto di rinviare al mio PPP. Pasolini Prima di Pasolini, Edizioni Radici Future_,_ Bari 2022, pp. 87-118.

Immagine: Dante e Virgilio entrano nella foresta

Crediti immagine: The William Blake Archive, Public domain, via Wikimedia Commons