19 aprile 2023

Cibi germanici … in bocca italiana

Le parole del cibo nell'italiano: storie e incontri di lingue e culture

 

Facevano come i golosi che tengono in dispregio l’aragosta all’americana

perché non son sicuri di saperla sgusciare come si deve.

Colette

 

 

A mo’ di premessa

Questo ciclo è dedicato alle parole del cibo che costituiscono prestiti da altre lingue, quindi a parole in viaggio, migranti, talvolta anche con andata e ritorno, frutto di incontri e scambi tra lingue e culture diverse; parole che dimostrano che anche attraverso lo studio lessicale delle tradizioni alimentari si possono conoscere costumi, abitudini e vicende non solo linguistiche di epoche lontane.

Fin dai ricettari di cucina più antichi i nomi, oltre che le ricette stesse, raccontano la convivenza pacifica tra tradizioni locali, ben radicate nel territorio, spesso orgoglio identitario, e tradizioni altre (dal potagio francese alla zuppa catalana al brodo alemanno). Queste due componenti, solo apparentemente antinomiche, convivono nel linguaggio gastronomico e sono costitutive ab ovo, segno di costante mescolanza e di apertura verso l’altro.

Faccio un esempio eclatante prendendo come riferimento le lingue germaniche a cui è dedicata la prima puntata: si è portati sempre a etichettare il periodo degli spostamenti delle popolazioni germaniche come “invasioni barbariche”, mentre sarebbe più opportuno un approccio diverso, nel segno dell’incontro e dello scambio reciproco. Ebbene, in italiano quando invitiamo a bere alzando i calici facendoli eventualmente toccare leggermente tra loro, per buon augurio o per celebrare qualcosa, ricorriamo a una parola di origine germanica, brindisi, mentre in area tedesca per dire brindisi si ricorre a un’espressione latina: Prosit! 

Come e quando arriva il brindisi in Italia? Nel Rinascimento dall’area linguistica tedesca si esportano alcuni modi di dire conviviali legati al bere insieme con lo scambio di espressioni di buon augurio: brindisi presuppone l’espressione introdotta da soldati mercenari svizzeri e tedeschi bring dir ’s ‘lo porto a te’, cioè il bicchiere (quindi alzando il bicchiere verso qualcuno ‘lo bevo alla tua salute’; cfr. Lubello 2020: 97-98).

 

Da molto lontano (i paleogermanismi)

I primi contatti con il mondo germanico risalgono già a molti secoli fa, all’epoca di Roma antica.

Come si presentavano le popolazioni germaniche agli occhi dei Romani? Ne parla Tacito nella Germania (nome che sotto l’imperatore Augusto indicava una provincia romana, ad oriente del fiume Reno), opera in cui si innesta il tema – che sarà il filo conduttore nella letteratura successiva – del contrasto tra mondo latino e mondo germanico. Nella descrizione di Tacito i Germani bevono la birra, un liquore estratto dall’orzo e dal frumento, mangiano cose semplici (frutti selvatici, cacciagione fresca, latte rappreso), abitano una terra inospitale, dal suolo sterile e paludoso, hanno una grande propensione per la guerra e per le razzie e sono feroci negli assalti, gozzovigliano e poi dormono fino a tardi.

Già prima della caduta dell’impero romano parole di origine germanica entrarono nel latino repubblicano e soprattutto in quello imperiale (i cosiddetti paleogermanismi), anche se non tutte hanno poi lasciato traccia nell’italiano (MELCA ‘cibo di latte cagliato con droghe’, attestata in Apicio, oggi in tedesco Milch, in inglese milk).

Germanismo precoce è brodo, un tipo di cibo sconosciuto alla mensa romana e introdotto dal nord Italia come vivanda basilare soprattutto in periodi di freddo. La base germanica *ƀruþa- indicava letteralmente il ‘cibo bollito, cotto’ che diventerà poi il nostro brodo come ‘liquido di cottura di cibi (in particolare della carne)’. Il termine era già penetrato sporadicamente nel latino del IV secolo (brodium è documentato in Gaudenzio di Brescia, morto nel 418), il che escluderebbe che possa trattarsi di un longobardismo o di un franconismo, come è stato ipotizzato da qualcuno (cfr. LEI-Germanismi s.v.).

Se è vero che il brodo medievale ha origini germaniche, ciò potrebbe valere solo dal punto di vista linguistico, come osserva Francesca Cupelloni nel VoSLIG (s.v., in corso): la nuova identità culinaria del piatto – non più soltanto decoctio, ma anche pietanza a sé stante – sembra infatti derivare dall’imitazione di modelli culturali arabi, ravvisabili in denominazioni come brodo saracinesco (brodium sarracenicum nel Liber de coquina), di fatto corrispondente a un brodetto più che a un brodo come dimostrano i sintagmi equivalenti nei ricettari europei.

L’attestazione più antica è quella del trattato duecentesco napoletano del Regimen Sanitatis: «Mangia con brodo semplece la carne del montone» (cfr. TLIO, s.v.).

Una curiosità: brogliaccio (così come anche broglio e imbroglio) proviene dalla stessa base germanica di brodo, ma per via francese, brouiller ‘rimescolare, agitare, intorbidare’ da cui brouillard ‘prima nota’: il brogliaccio (nell’italiano a partire dalla metà dell’Ottocento) è il quaderno che i mercanti tengono come promemoria, ma anche il registro di prima nota delle entrate e delle uscite di un'amministrazione e diventa poi ‘scartafaccio; brutta copia del giornale (di bordo, di macchina, ecc.)’.

Origine germanica (*SUPPA ‘fetta di pane bagnata nel brodo’) ha anche la nostra zuppa: già del latino tardo del VI secolo (SŬPPAM), è attestata in italiano (suppa / zuppa) dall’inizio del ’300, nel fiorentino Santà di Zucchero del 1310: «E lli dee l'uomo dare brodetto di ghallina in suppa e vino bene tenperato» (vedi TLIO, s.v.). Il significato di ‘minestra di pane affettato in brodo di carne, pesce o verdure’ vive nell’espressione proverbiale ancora in uso: se non è zuppa è pan bagnato.

 

Da lontano (le lingue germaniche antiche)

Come ha osservato Massimo Montanari (2010: 3), a proposito dell’identità italiana nelle tradizioni gastronomiche e dell’integrazione di modelli culturali diversi, mediterranei e continentali:

 

il delinearsi di una cultura alimentare ‘italiana’ avvenne a poco a poco, all’interno della più ampia koinè europea che si era formata nei primi secoli medievali grazie all’incontro tra romani e «barbari».

 

Un esempio di quel plurilinguismo che caratterizza il periodo delle varie popolazioni germaniche in Italia (goti, longobardi e franchi) è fornito dalla parola italiana più diffusa al mondo, pizza, per la cui etimologia sono in campo ipotesi diverse (la più accredita è stata quella di Giovanna Princi Braccini che risale a una forma germanica, gotica o longobarda *pizzo); la tesi più recente, di Francesco Sabatini, è particolarmente affascinante perché è proprio nel segno dell’incontro di lingue e culture: una base mediterranea o greca (collegata a pitta), ma in bocca longobarda, nei ducati di Spoleto e Benevento, con passaggio quindi nella pronuncia della dentale ad affricata pitta > pizza (la più antica attestazione si localizza a Napoli nel 966; su tutta la vicenda cfr. D’Achille 2017: 23-32). 

Dal francone *flado ‘focaccia, torta schiacciata’ deriva il fiadone (e il derivato fiadoncello) ‘tipo di dolce’, attestato in italiano fin dal ’200 (cfr. TLIO s.v. fiadone; già nel lat. tardo di Venanzio Fortunato della fine del VI sec.). La prima attestazione è nel duecentesco Fiore: «La buona anguilla nonn- è già peg[g]iore; / Alose o tinche o buoni storioni, / Torte battute o tartere o fiadoni».

 

Da vicino (tedesco moderno)

Al settore della gastronomia appartiene un non piccolo drappello di prestiti più recenti, dal tedesco: si tratta di un ambito problematico perché talvolta l’origine di alcuni piatti e delle denominazioni è contesa a causa di racconti popolari e leggende che la riconducono campanilisticamente a luoghi e tradizioni locali precise (la cotoletta è milanese o viennese? il cappuccino si chiama così per il frate francescano, un Kapuziner, che lo introdusse alla corte di Vienna?).

Tra i molti gastronimi di inequivocabile origine tedesca (cfr. Frosini, Lubello, in stampa) si possono annoverare: crauti ‘foglie di cavolo tagliate e sottili, condite con sale e fatte fermentare’), chifel (o kiffel) ‘specie di cornetto; panino a mezzaluna’, semel o sèmelle ‘specie di panino’, finferli ‘gallinacci’ (dalla voce tedesca Pfifferling ‘fungo con un leggero sapore di pepe’). La vicinanza geografica ha consentito la trasmigrazione di vari prodotti alimentari, tra cui il brezel (dal 1942, ted. Bretzel), tipo di pane, spesso a forma di occhiali, molto diffuso nei paesi di lingua tedesca e ora conosciuto in Italia non solo a Bolzano e nell’Alto Adige.

Simbolo della cucina tedesca è il würstel ‘salsicciotto lungo e sottile tipico dell’area tedescofona, di carne bovina o suina tritata’ (dal 1905), forma diminutiva di Wurst ‘salsiccia’ (Würstel è dei dialetti tedeschi meridionali).

Sempre più conosciuti a livello nazionale sono i trentini canederli ‘grossi gnocchi cotti nel brodo’, un piatto povero, contadino (dal tedesco Knödel ‘grosso gnocco’ già del XIV secolo). Dell’Alto Adige è lo speck, da una base germanica *spiku- che significa letteralmente ‘grasso, lardo’, significato ancora oggi vivo in tedesco.

Il kraffen (o come nell’originale krapfen) ‘frittella di pasta molto lievitata, in forma di palla o più raramente di ciambella, ripiena di solito di marmellata di albicocche e spolverata di zucchero’, è documentato a partire dalla Scienza in cucina di Pellegrino Artusi del 1891, dal tedesco Krapfen così chiamato per la sua forma a uncino (ATed.a. krapho ‘uncino’), forma che si è persa o comunque non si riscontra in Italia, mentre in Germania e in Austria i vari Krapfen hanno spesso la forma di mezzaluna o uncinata.

Lo strudel ‘torta di pasta frolla dalla forma arrotolata, farcita di frutta sminuzzata, uva passa e noci e cotta al forno’ è documentato dal Dizionario del Panzini del 1905, anche se è già presente nel ricettario trentino poco noto di Don Felice Libera del 1780: si tratta del tedesco Strudel ‘gorgo, vortice’ del XV secolo e per la sua forma arrotolata dal XVII nel significato gastronomico, specie nel tedesco del sud e soprattutto di area austriaca.

 

Da molto vicino (lo svizzero)

Di origine svizzera è il müsli sempre più diffuso nella colazione degli italiani (dal 1943 secondo lo Zingarelli 2023) ‘prodotto ottenuto mescolando vari ingredienti, per lo più fiocchi di avena, altri cereali e frutta secca, consumato da solo o con latte o yogurt’. Fu ideato all’inizio del ’900 da un medico-nutrizionista, Maximilian Bircher-Benner (da cui il nome originario Birchermüsli); il nome quindi proviene da una forma della varietà svizzero-tedesca, diminutivo di Mus ‘passato, pappa, purè’.

 

Per chiudere. Dalla tavola del principe al grande schermo

Di diffusione più recente è la sachertorte viennese (o sacher), una torta di cioccolato, preparata con un impasto di cioccolato fuso, cotta al forno e divisa in due strati al centro dei quali si stende uno strato di marmellata che viene poi spalmata anche sulla superficie e sui lati e servita con panna chantilly. Prende il nome dell’albergatore viennese Franz Sacher (1816-1907), cuoco del principe Klemens di Metternich, che inventò la ricetta il 9 luglio del 1832 per una cena speciale. La ricetta non ebbe poi subito seguito finché Sacher, dopo alcuni anni a Budapest e Pressbourg, tornò a Vienna nel 1848 e aprì una propria pasticceria; si deve al figlio Eduard il perfezionamento del dolce nella forma attuale (e venduta anche nell’Hotel Sacher da lui fondato) e oggi conosciuta come specialità di Vienna.

La sachertorte è diventata più nota negli anni ’80 grazie a una scena del film Bianca di Nanni Moretti del 1984 («Cioè, lei praticamente non ha mai assaggiato la Sachertorte?» «No» «Va be’. Continuiamo così. Facciamoci del male!»). La scena divenne in breve tempo paradigmatica del cinema di Moretti tanto che questi, quando con Angelo Barbagallo fondò nel 1987 la propria casa di distribuzione cinematografica, la chiamò Sacher Film e nel 1989 istituì un riconoscimento per il migliore film dell’anno, il Premio Sacher (e nel 1991 battezzò il vecchio Nuovo Cinema di Trastevere con il nome di Nuovo Sacher).

 

 

Riferimenti bibliografici

D’Achille 2017 = Paolo D’A., Che pizza!, Bologna, il Mulino.

Frosini, Lubello 2023 = Giovanna F., S. Lubello, L’italiano del cibo, Roma, Carocci.

LEI / Germanismi = Lessico Etimologico Italiano di †Max Pfister, a cura di E. Morlicchio, Wiesbaden, Reichert, dal 2002-

Lubello 2020 = Sergio L., Germanismi, Milano, RCS MediaGroup.

Montanari 2010 = Massimo M., L’identità italiana in cucina, Roma-Bari, Laterza.

TLIO = Tesoro della Lingua Italiana delle Origini (consultabile al link: http://tlio.ovi. cnr.it/TLIO/).

VoSLIG = Vocabolario storico della lingua italiana della gastronomia (in corso per il progetto AtLiTeG, Atlante della lingua e dei testi della cultura gastronomica italiana dall’età medievale all’Unità).

 

Immagine: Strudel

 

Crediti immagine: che, CC BY-SA 2.5 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.5>, attraverso Wikimedia Commons

 

 


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