In sella dunque, la testa sul manubrio e l’anima al vento.

Alfredo Oriani La bicicletta 1902

All’inizio era…

Dalla draisina, chiamata così in onore del Barone Von Drais che s’inventa nel 1817 una  Laufmachine, letteralmente una “macchina da corsa” – un telaio in legno con seduta regolabile e lo sterzo collegato alla ruota anteriore –, di fatto un modo di macinare chilometri stando seduti, al velocipede o biciclo che vede l’aggiunta dei pedali nel 1861 e la trasformazione del telaio con una ruota anteriore molto alta, un “cavallo di ferro”, considerando la posizione di chi la montava e l’idea di farne una cavalcatura: così nasce la futura bicicletta. Sembra che la prima invenzione si debba alla necessità di trovare un’alternativa all’uso dei cavalli, vittime della carestia del 1816, mentre del secondo sembra che lo stesso d’Annunzio, provetto cavallerizzo, ne abbia cavalcato uno descritto come

un grottesco dinoterio minocenico dal diametro più lungo di una ruota da carro e dietro una rotellina minuscola come la carrucola di un pozzo; in mezzo e in alto, issata da un telaio di ferro, una sella rigida, che dava a chi vi era seduto l’aspetto di un funambolo

Contro il nuovo mezzo si schierano sia il conte Monaldo Leopardi (1831)

Camminavo sol pensoso

per solinghe prode amene

quando un mostro fragoroso

la mia quiete alta turbò!

[..]

Tu progresso maledetto

Sii per sempre dal mio canto:

ché nel muscolo perfetto

hai riposto ogni pensier

sia Matilde Serao, che la definisce “l’atroce macchina” tanta “paura e disgusto” le suscita.

Queste due testimonianze non sono che lo specchio di quel conservatorismo antiprogresso che si traduce nella proibizione dei sindaci di andare in bicicletta nei centri cittadini così come nel divieto dei vescovi ai preti promulgato nelle conferenze episcopali del 1903 e del 1909.

Dagli anni ’80 del XIX secolo, quando la moderna bicicletta compare in Gran Bretagna, se da un lato tarda ad essere inserita come termine nuovo nei dizionari al posto di velocipede – Panzini docet –, non molto tempo dopo comincia a comparire nelle prime composizioni poetiche, che rimandano alla celebrazione, a dire il vero soprattutto nelle opere in prosa, della libertà e autonomia negli spostamenti acquisite grazie alle due ruote, «senza preoccupazioni come per un cavallo, senza servitù come in treno» scrive il cicloturista Oriani, e della possibilità di intraprendere itinerari di un certo impegno – le prime guide turistiche del Bertarelli risalgono a quel periodo –, per lo più appannaggio di ricchi borghesi che, oltre ad avere tempo a disposizione, se ne potevano permettere l’acquisto, facendone magari dono ai ginnasiali al compimento del ciclo di studi – come ricorda Gozzano –, oltre al pagamento di una tassa di circolazione, mentre i più snob tra i nobili romani iniziavano a scorrazzare con il nuovo mezzo nelle loro gite sulla regina viarum, la via Appia.

Molti di loro ne sono talmente entusiasti da esternare la loro gioia quasi fanciullesca nei loro scritti, dove prevale la voglia di libertà, l’idea(le) di una vita sana, all’aria aperta, un invito alla trasgressione fino a intravedere nuove occasioni di incontri amorosi.

Tra questi Olindo Guerrini (alias Lorenzo Stecchetti), che dopo un iniziale rifiuto dovuto per lo più alla frequenza degli incidenti occorsi su strada e puntualmente riportati dalle cronache cittadine, passò al bando opposto, sulle orme del figlio, novello ciclista, appassionandosi a tal punto da «riunire in questo volumetto vari scritti di argomento ciclistico, pubblicati già quasi tutti nel giornale milanese La bicicletta, ora Corriere dello Sport […] Se queste pagine valessero a convertire uno solo alla bicicletta, od almeno a rendergli meno antipatico questo dilettoso esercizio che conferisce forza, allegria e salute a chi lo pratica, sarei soddisfatto e mi riterrei troppo ricompensato per l’operetta minima che offro ai lettori».

Il corpus del Guerrini conta su almeno 5 poesie, tra le quali le più famose In bicicletta (1897)

Giammai, scoccata da una man feroce

dall’arco teso non fuggì saetta

come sul suo sentier corre veloce

la bicicletta

[…]

Io corro, io volo sulla bicicletta

Questo ideal delle cavalcature

[…]

Di nuovo in bicicletta (1897)

[…]

Sovra il ferreo corsier passo contento

come a novella gioventù rinato e

sano e buono e libero mi sento

e Pedalando (1903)

Le campagne di fior son coperte.

L’aria odora di donna e di mughetti

Ed io rimo per te queste parole

In bicicletta respirando il sole.

[…]

I ciclisti che volano

I primi appassionati ciclisti che invocavano la necessità di «un inno che sia [...] la glorificazione del ciclismo tutto quanto», spinsero la Domenica del Corriere a indire per conto del Touring, il 10 giugno 1900, un Concorso letterario, vinto proprio dal Guerrini, secondo alcune malelingue in virtù della sua carica di Vice Console per Bologna dello stesso Touring – agli inizi (1894) Touring Club Ciclistico Italiano –, in polemica con Vittorio Betteloni, e il suo Canto dei ciclisti, il quale, profondamente offeso, in più occasioni fornisce le prove della genericità delle rime del rivale legate non specificamente all’uso della bicicletta bensì al desiderio di fare passeggiate con qualsiasi mezzo, in auto, con carro trainato da cavalli o persino a piedi.

La sua ode invece sarebbe stata innegabilmente ispirata dal mezzo a due ruote, anche nella glorificazione dei benefici sul corpo generati dal suo utilizzo:

«Avanti, avanti! Rapidi,

precipitando a volo,

noi divoriam lo spazio,

radendo appena il suolo»

[…]

Non può corsier contendere

d’agile forza e snella,

non può con noi, di fulgida

macchina curvi in sella,

né de la corsa il nobile

torci supremo onor.)

[…]

«Fansi d’acciaio i muscoli*

ne l’esercizio ardito;

s’espande il sen da l’aria,

che l’urta invigorito;

l’occhio ogni vario ostacolo

addestrasi a fuggir

E noi voliamo, fervidi / a l’opre della pace;

[…]

*il muscolo perfetto di Monaldo, di cui sopra

Nei versi riportati fin qui, come in altri successivi, si percepisce la fisicità della bicicletta attraverso la menzione dei pezzi che la compongono: la sella in Betteloni, il manubrio e i pedali in Guerrini. Addirittura i futuristi, le cui testimonianze in tema ciclistico si riducono a pochissime liriche del primo ventennio del ’900, si concentrano su singoli elementi della bicicletta: La catena di Luciano Folgore (alias Omero Vecchi)

Il matrimonio è un tandem eccellente

Però se l’uomo o l’altra, pedalando

Fa la serpetta o sterza malamente

Tutti e due si bisticciano pensando:

Quosque tandem durerà la pena

Perché mai si rompe la catena?

e La camera di Farfa

La camera

d’aria

della bicicletta

poveretta

un colpo si sparò

e l’amico copertone

dalla disperazione

s’afflosciò

La personificazione della camera d’aria unita a quella del copertone che l’avvolge, seppure ironica, richiama all’umanizzazione del mezzo da parte dei poeti, e invita a soffermarsi sul sentimento di fusione con il mezzo meccanico in una sorta di «prolungamento del corpo umano, a cui obbedisce decuplicandone le potenzialità fisiche. La mobilità e libertà che ne derivano dischiudono al ciclista nuovi orizzonti di percezione del reale (e di tutte le sue implicazioni metafisiche), che prima dell’avvento della bicicletta non erano immaginabili. Di fatto il ciclista, non diversamente da centauri e sirene, non è più del tutto uomo ma costituisce un essere ibrido», così Pedroni, e Barsella che parla di «fusione aereodinamica del corpo e della macchina», ravvisando questo aspetto in più di una lirica. È questa fusione a permettere all’uomo di “volare” sulla bicicletta, eccitato dal brivido della velocità, altra immagine ricorrente nelle liriche dell’epoca, e in molte di quelle più tarde, anche se in un contesto lirico diverso.

Nei versi seguenti, si assiste pure a una sorta di compenetrazione, questa volta delle ruote e dei pedali ai piedi che diventano ali, dando vita a una figura quasi angelica: «La bicicletta provoca infatti il passaggio dalla condizione terrena a quella di creatura sovrannaturale frapponendo con la velocità un diaframma tra il ciclista e il mondo che lo circonda» (Barsella).

Sono soprattutto le donne, seppure “angeliche”, a vivere la bicicletta come strumento di emancipazione – basti pensare che persino la Regina Margherita se ne invaghì – come testimoniato da Guido Gozzano, che usa per la prima volta in ambito poetico il termine tecnico ciclista nella sua Le due strade (1907), sempre che non si sia ispirato alla contemporanea A giovinetta ciclista di Tommaso Cannizaro, dove il poeta fotografa il passaggio veloce, quasi una freccia, e deciso, di una ragazza, tanto reale quanto ultraterrena:

Sul tuo ferreo corsiero

tu come spada ritta

per via lunga e diritta

in corto abito nero

passi, con ciglio altero,

nella tenebra fitta

quasi rapida slitta,

come dardo leggiero.

Erta, passi ed immota

Senz’ombra di fatica

sulla sottile ruota,

sognar fai chi ti vede

di qualche fata antica

da l’aligero piede

e crede

a un miraggio divino

del vento vespertino

I versi di Gozzano, nei quali la bicicletta compare sette volte, tracciando una sorta di ritmo alla sequenza narrativa raccontata dal poemetto, ci mostrano l’incontro tra Graziella, la “signorina” ciclista “ardita, forte, bella”, che compare dall’alto di una collina, e una conoscente di vecchia data, dalla bellezza ormai sfiorita, preoccupata della troppa autonomia della ragazza: “Signora si ricorda quelli anni?” “E così bella vai senza cavalieri in bicicletta?” […], insieme al narratore al quale lascia momentaneamente il mezzo per proseguire un tratto a piedi.

[…] Dalle mie mani, in fretta,

prese la bicicletta. E non mi disse grazie.

Non mi parlò. D’un balzo sali, prese l’avvio;

la macchina il fruscio ebbe d’un piede scalzo,

d’un batter d’ali ignote, come seguita a lato

da un non so che d’alato volgente con le rote.

[…]

Volò come sospesa la bicicletta snella:

“O piccola Graziella, attenta alla discesa!”

“Signora! Arrivederla!” Gridò di lungi, ai venti:

di lungi ebbero i denti un balenío di perla.

Graziella è lungi. Vola vola la bicicletta […]

Gli accenni leggeri a un amore nostalgico-crepuscolare – la bimba vivace di un tempo, ora giovinetta, incarna la «consolazione alla malinconia, all’inesorabile “discendere alla Morte”» (Pedroni) – si trasformano in gioia di vivere e desiderio per l’amata ne La fiera (1918) di Corrado Govoni

Tu pedalavi vaporosa avanti,

ed io a volo dietro il tuo cappello,

come in un delizioso carosello

mosso da Dio sol per noi amanti.

Sull’erba della darsena intrecciammo

le nostre impolverate biciclette

In tutte queste poesie, comprese quelle del Guerrini, e poi Serra, è già presente quello che Maramotti definisce «il corredo linguistico e metaforico proprio delle rime sulla bicicletta: la bicicletta, i ciclisti, o il volare, l’andare, il frusciare delle ruote, la lucentezza del metallo». Ma non solo. In questi stessi poeti si rinnova, a volta con espressioni che sembrano veri e propri calchi, l’accostamento, o forse meglio l’identificazione tra cavallo e mezzo meccanico, l’anticavallo di breriana memoria: dal ferreo corsiero di Guerrini e Cannizaro al destrier fremente di Renato Serra in

Guardando la bicicletta (1903)

sprazza e abbarbaglia del destrier fremente

l’acciaio al raggio degli aprichi soli,

e alle cure troviam dolce nepente

nella lunga ansia dei sonori voli

Renato Serra, attivo ciclista della prima ora come Guerrini, scrive di sé, delle sue corse in bicicletta tra Romagna e Toscana – con la sua rossa Peugeot, vincerà una medaglia d’oro in una gara ciclistica militare –, del suo sentirsi libero e soprattutto autonomo.

Ed è sempre in Romagna dove risuona l’onomatopeico dlin … dlin ... del campanello pascoliano (La bicicletta 1903) e la bicicletta ‘tinnula’ ne La rosa delle siepi (1907) dello stesso Pascoli, che a differenza di Serra e Guerrini non era un assiduo delle due ruote, secondo la testimonianza della sorella. È proprio quel dlin dlin che ricorre alla fine di ognuna delle tre strofe a dare il ritmo alla composizione, che riflette tutti i tratti del simbolismo del poeta, che racconta di una passeggiata in campagna con una bicicletta che rimane «evanescente, senza pedali, senza ruote, senza sellino» allo stesso modo che il ciclista «non pedala, non fatica e sembra non controllarne la corsa» (Pedroni); solo alla fine

La piccola lampada brilla
per mezzo all’oscura città.
Più lenta la piccola squilla
dà un palpito, e va…
dlin… dlin…

Bibliografia

S. Barsella, Bicicletta: il mito e la poesia, in ITALICA (1999) Vol. 76 Number 1, pp. 70-97.

G. Bosi Maramotti, La bicicletta nella letteratura Note in margine, 1998_._

A. Brambilla (cur.), nota introduttiva di Sergio Giuntini, Biciclette di carta. Un’antologia poetica del ciclismo, Arezzo, Limina 2009.

M. Pedroni, Poesia ciclistica delle origini: Betteloni, Cannizaro, Gozzano, Pascoli, Stecchetti, in Versants. Rivista svizzera delle letterature romanze (2001) n. 40, pp. 185–205.

Immagine: Dancing bicycle

Crediti immagine: Zoran Tairovic, CC BY-SA 4.0 https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0, attraverso Wikimedia Commons