16 maggio 2023

Cosa fa Bene all’arte?

A proposito di Si può dire solo nulla. Interviste, a cura di L. Buoncristiano e F. Primosig

 

È costante nella letteratura italiana la tendenza a riflettere sulla propria arte: si tratti di autocommenti o di attività critica militante, tolto Ariosto e pochi altri, tutti i nostri grandi autori dimostrano una salda coscienza teorica della propria arte. Carmelo Bene, se è lecito annoverarlo tra i grandi nomi della nostra storia letteraria almeno a partire dal riconoscimento tributatogli con la pubblicazione delle sue Opere tra i Classici Bompiani (1995), non fa eccezione, anzi: il vigoroso atteggiamento autoesegetico dell’autore si è spesso manifestato attraverso le numerose dichiarazioni teoriche sulle proprie opere (teatrali, cinematografiche o letterarie che fossero) che l’autore ha disseminato via via attraverso le interviste concesse nell’arco di una carriera più che quarantennale.

 

Il carisma - Luca Buoncristiano

Un’imponente raccolta di esse è ora disponibile grazie al volume Si può dire solo nulla. Interviste, a cura di Luca Buoncristiano e Federico Primosig (Il Saggiatore, 2022). In genere ciò che un autore dice della propria opera costituisce una risorsa interpretativa imprescindibile, tanto più nel caso di Carmelo Bene, che nella forma tendenzialmente aforismatica e asistematica dei suoi autocommenti offre spunti di rara intelligenza. Il rischio che lo spettatore (ormai solo di registrazioni video) e il lettore corrono è semmai quello di farsi conquistare dalla brillantezza e dal carisma dell’argomentare beniano, indulgendo all’irritante «beneggiare» (denunciato da Emiliano Morreale nell’introduzione a Carmelo Bene, Contro il cinema, a cura di E. M., Roma, Minimum Fax, 2011, p. 16) spesso adottato da appassionati e critici dell’opera beniana e rinunciando a una salutare distanza critica, o anche solamente allo sforzo di contestualizzare le dichiarazioni beniane, disponibili sul Web in dosi sempre più massicce e tali da essere potenzialmente disorientanti.

Su questo punto le due distinte introduzioni firmate dall’uno e dall’altro curatore presentano alcuni spunti interessanti. Buoncristiano parte dal modo in cui è entrato a contatto per la prima volta con Bene:

 

Nel ’94 avevo ancora diciassette anni […]. Era l’epoca dei fuori sincrono di Enrico Ghezzi a Fuori Orario, delle esaltazioni notturne di Gabriele La Porta nella rete accanto e del Maurizio Costanzo Show […]. Nel giugno di quell’anno, tra uno zapping e l’altro, apparve Carmelo Bene. Non ricordo la battuta precisa che disse ma d’istinto infilai una Vhs nel videoregistratore e registrai l’Uno contro tutti divenuto poi storia della televisione: fu come una scossa elettrica, una divina apparizione catodica […]. In quell’insieme di boutade, provocazioni, giochi di parole, parossismi, citazioni poetiche e insulti vari, avvertivo qualcosa di profondo eppure inafferrabile che mi ammaliava e trascinava.

 

Un’esperienza di accesso alla figura di Bene, questa, non dissimile da quella di chi non ha fatto in tempo a vederlo sul palcoscenico. L’unica differenza è che al giorno d’oggi il ruolo dello zapping è ricoperto dai video su Youtube, magari suggeriti tra i correlati di quel vero e proprio “genere” costituito dai talk televisivi, dove «lo scontro (la lite, qualche volta addirittura la rissa) è certamente l’apice del tessuto narrativo» (Walter Siti, Contro l’impegno, Rizzoli, 2021, p. 223).

 

L’egemonia – Primosig

Primosig individua il confronto con la forma-intervista «attraverso la lente della società dello spettacolo e della sua capacità omologante» (p. 44), rintracciando affinità tra i risultati più avanzati della ricerca teatrale di Bene e le strategie comunicative messe in atto da questi nel confronto con gli interlocutori. Come, grazie agli strumenti tecnologici di amplificazione fonica, lo «sfondamento della soglia tra ciò che avviene in scena e la sua percezione disinnesca da un punto di vista materiale la mediazione intrinseca a ogni rappresentazione» (p. 47), così la forma-intervista «costringe il massimo nemico della mediazione a mediare, ma anche in questo caso Carmelo Bene si adopera a rimettere in discussione il mezzo e a realizzare una sorta di disattivazione dell’idea di intervista» (p. 55), non solo attraverso un linguaggio altamente allusivo e innervato dal gusto per il salto analogico, ma anche con la pura e semplice egemonizzazione degli argomenti, in una continua tensione agonistica dove non va dimenticato «l’utilizzo anche semplicemente pubblicitario, che gli consente così di raggiungere un grande pubblico» (p. 55): in ciò, si direbbe, Bene è degno discepolo dell’amato D’Annunzio.

 

Un rigore elastico

Il corpus delle interviste qui raccolto si articola in quattro sezioni che rappresentano la proposta di periodizzazione, da parte dei curatori, della produzione artistica di Bene: 1963-1973. Gli anni di Galera. Le cantine e il cinema; 1973-1982. Il grande teatro. Dal grande attore alla stagione concertistica; 1983-1992. Il teatro senza spettacolo. La phoné. La macchina attoriale e la Biennale; 1994-2001. Le suite impossibili. Il ritorno e il classico. Il libro può essere attraversato fondamentalmente in due modi. Se lo si percorre dall’inizio alla fine con una lettura continuata si ha la sensazione di assistere a una traiettoria artistica caratterizzata da un rigore estremo e al contempo elastico: la riflessione e la battaglia militante di Bene si mantengono fedeli ad alcuni principi affermati sin da subito, cui in progresso di tempo si uniscono (per osmosi elettiva o per più meccanica agglutinazione: è il caso di alcuni tormentoni della filosofia d’Oltralpe) spunti teorici diversi. Tale modalità di lettura consente di storicizzare le posizioni beniane, che senza contesto appaiono come verbo assoluto e nate come per partenogenesi. Per fare solo qualche esempio, rispetto a quanto si legge nelle pubblicazioni più organiche e consuntive, come la Vita di Carmelo Bene scritta con Giancarlo Dotto (Milano, Bompiani, 1998), risulta assai più sfumata e circostanziata l’avversione per Strehler e per l’idea di teatro da questi rappresentata, o ancora l’apprezzamento per Gassman, espresso con numerosi distinguo negli ultimi scritti, in molte interviste viene pronunciato senza riserve e con stima addirittura affettuosa.

 

«Questa è politica: rappresentare sé stessi»

Un secondo modo di leggere il libro può essere di tipo “verticale”, individuando percorsi tematici nella successione delle interviste che possono riguardare i più vari autori o problemi. Qui il libro promette molte sorprese. Uno degli aspetti meno appariscenti – forse perché più negletto dalle dichiarazioni d’autore – è quello della “politicità” dell’arte beniana. In che senso l’opera di Bene è politica? Molte sono le frasi chiarificatrici in tal senso: «Questa è politica: rappresentare sé stessi […]. Politica, per l’uomo non per il cittadino, è realizzare quello che vuole anche se è la propria rovina» (p. 170); «in quanto artista è la mia posizione di essere umano che metto in discussione. Se la tradisco per occuparmi degli altri o per far finta di interessarmi ad altre faccende che non mi riguardano, faccio bassa politica. L’alta politica consiste nel mostrarsi agli altri in tutto il proprio prestigio. Non esiste gesto che non sia politico» (p. 190); «se c’è un teatro veramente politicizzato in senso giusto e quindi ingiusto è il mio» (p. 337).

Se qui siamo ancora alle petizioni di principio (ma ciò è già sufficiente a smentire l’immagine di un Carmelo Bene puramente apolitico), altrove l’attore si sofferma più diffusamente sulla questione. Riflettendo sullo spessore critico del proprio teatro, così dice Bene: «Il recupero della tragedia, criticato dalla costante della parodia. [giornalista: “così facendo si mette in crisi la coscienza critica dello spettatore”]. Di conseguenza dello spettatore. Di conseguenza. Intanto è politica per te stesso, con te stesso, contro te stesso. Ed è già politica. Non è detto che il politico sia qualcosa che deve per forza comunicare» (p. 382); «[il pubblico] ha capito che non c’è niente da capire, che si tratta semplicemente di poesia, di un lusso che non serve e non informa e non insegna. Ma in questo modo diseduco il pubblico dalla maleducazione. Ed ecco che il mio teatro da estetico si fa etico, da teatro dell’uomo a teatro del cittadino, e così alla fin fine diventa teatro politico» (p. 659).

 

L’esempio della Lectura Dantis di Bologna

Un esempio supremo di questa dinamica è sicuramente la celebre Lectura Dantis pronunciata dalla Torre degli Asinelli a Bologna il 31 luglio 1981, vera e propria «riscrittura che riesce efficacemente a dare un’idea compiuta del senso profondo del poema, un’opera profetica che parla dell’eterno e del tempo e che ha un fine pratico: agire sullo stato presente del mondo» (Valeria Flamini, Marco Grimaldi, Bologna 1981: Dante, Carmelo Bene e l’anniversario della strage, «Le Parole e le cose»).

Un’arte insomma che resiste alla domanda di senso univoco (e per ciò stesso consolatorio) e che chiede abbandono alla sensazione proponendosi una comunicazione “altra”, «da un interno a un altro interno» (così, spesso, Bene), senza la mediazione di messaggi didascalicamente confezionati. Un’arte che impone allo spettatore una ricerca tale da far sì che in lui avvenga una trasformazione. Oportet ut scandala eveniant: questo fa Bene all’arte.

 

Immagine: Tratta dalla copertina del libro


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