Qualche mistero

Erano tutti siciliani, i poeti che poi furono raggruppati dalla critica (primo "critico" illustre, Dante Alighieri nel De vulgari Eloquentia) nella cosiddetta Scuola siciliana? No. Riuniti dalla magna curia sveva di Federico II, risiedevano stabilmente questi poeti a Palermo, capitale del regno - primo stato moderno d'Europa? No. I loro componimenti si presentano a noi, lettori moderni, come un mirabile omogeneo blocco formale e concettuale, pur nella disparità dei risultati: ci domandiamo qual è la loro preistoria, ci sono forse pervenute poesie che preannunciano e preparano la fioritura poetica siciliana? No. Abbiamo non dico un manoscritto originale ma un codice che contenga qualche canzone o sonetto in una versione presuntivamente vicina all'originale? No. Bene. Alcuni di questi misteri non ci preoccupano troppo. Altri, per sperare di essere spiegati, avrebbero bisogno della fortuna di qualche ricercatore che trovi, cercando cercando, un codice di cui si ignorava l'esistenza e che getti una luce nuova su quanto è già in nostro possesso. Dunque sappiamo che molti tra i colti rimatori che sono funzionari, dignitari, giudici, notai appartenenti all'organismo amministrativo del regno sono in effetti isolani, come Giacomo da Lentini e Guido delle Colonne; mentre altri, come Pier delle Vigne e Rinaldo d'Aquino, sono continentali. Questo, più che un mistero, è un segnale della capacità di Federico II di porre «il suo sigillo su un movimento letterario preesistente a lui» (come ipotizzava Arrigo Castellani), polarizzando gli intendimenti poetici e ideologici di un gruppo di intellettuali intorno a una coesa e coerente espressione comune di temi e di "luoghi" retorici. I luoghi reali di provenienza dei poeti diventano a questo punto ininfluente scoria biografica. Tra l'altro l'elasticità dei riferimenti geografici è messa in luce dal fatto che la corte federiciana, oltre a essere plurilingue, è anche mobile e itinerante. Lo stesso Federico, per via degli affari politici o guerreschi, non ha, si può dire, fissa dimora; i funzionari-poeti si spostano dal centro alla periferia del regno al seguito dei ministri e dei collaboratori più stretti del re.

Provenza e latino

Dobbiamo invece accontentarci, a tutt'oggi, di presumere che il primo componimento databile pervenutoci possa essere la canzone Giamai non mi conforto di Rinaldo d'Aquino, visto il probabile riferimento alla Crociata del 1227-1228 in essa contenuto. L'astrattezza e l'alta stilizzazione dei contenuti non offre appigli utili a stabilire la data certa di composizione delle liriche. Le quali ci sono state tramandate, in particolare, dai tre grandi canzonieri Laurenziano Rediano 9, Banco Rari 217, Vaticano Latino 3793, tutti compilati verso la fine del Duecento in ambito toscano cittadino. E qui viene il problema. Perché la poesia di cui parliamo, prima testimonianza letteraria dell'italiano, come ha scritto Gianfranco Folena, è di «piena sicilianità linguistica e aulicità stilistica». Ma, a leggere i manoscritti tramandati dai codici, tale «piena sicilianità» traspare soltanto per via indiretta, in quanto la veste linguistica è fortemente toscanizzata dai copisti, i quali a quel tempo, nella loro opera, non erano per nulla presi da preoccupazioni filologiche. Spiegheremo brevemente poi quali spie hanno consentito di ricostruire l'ipotetica forma linguistica siciliana, in base all'analisi dei pochissimi frammenti della lingua originale pervenutici. Sta di fatto che noi leggiamo la quasi totalità di quei componimenti in una versione toscanizzata. Ora ci preme ricordare, con Vittorio Coletti, che la poesia di corte federiciana nasce sulla scia della tradizione della poesia francese, specialmente quella d'oc, provenzale, trobadorica: «Fin dall'inizio c'è dunque un passato che interviene a modificare e arricchire la lingua materna ancora vergine di letteratura». Una tradizione che è anche linguistica, non soltanto concettuale: basti pensare al copioso lessico inserito in certe precise serie suffissali di stampo provenzale (-anza: amanza, amistanza, erranza, mispregianza, tristanza; -enza: canoscenza, cordoglienza, credenza; -mento: cominzamento, confortamento, regimento; -agio: coragio, damnagio, usagio; -ore: amarore, dolzore, verdore; -ura: chiarura, frondura, riccura), spesso proprie anche del siciliano (e poi del toscano) ma che per i nostri poeti hanno forza di autorevole sigillo esterno di qualità. Qualità deve farsi nobiltà letteraria: ecco perché la grande produttività lessicale per via di suffissazione si esplica nella creazione di termini astratti, di cui i volgari italici, poco presenti in usi colti, non hanno finora avuto gran bisogno. E se i suffissi permettono di creare serie di sostantivi dal significato intercambiabile, ben venga, perché doppioni e varianti formali (per esempio: alegranza, allegressa, alegraggio; fallo, fallanza, fallenza, fallagio, fallimento) saranno adibiti a elegante gioco fonico, teso a valorizzare il lento corteo di pochi e importanti concetti e situazioni che stanno a cuore al poeta. All'innalzamento linguistico e stilistico del poetare sopra la parlata materna concorre anche il latino, attraverso la conservazione di certi nessi consonantici (speclu invece di spechu, altru invece di autru), qualche volta in sinergia anche con la norma francese o provenzale (Coletti cita blanca, blasmare, claro).

L'amore al tempo del sonetto

Nobiltà letteraria, naturalmente, viene attinta attraverso i temi prescelti, ereditati dal trobar provenzale: primo, tra tutti, l'amor cortese, che i siciliani, pur accogliendo il repertorio di immagini provenzale, sviluppano in modo originale, approfondendo i risvolti psicologici e forgiando un nuovo costrutto metrico, il sonetto, che si va ad aggiungere alla tradizionale canzone curiale e alla canzonetta. Tanto nuovo, il sonetto, che si distacca dai precedenti generi in quanto è pensato come espressione autonoma di poesia, svincolata dal canto e dall'esecuzione musicale. Ed eccolo, allora, un esempio proverbiale di amor cortese al modo siciliano. Si tratta dei versi 1-16 della canzone Madonna, dir vo voglio del più alto dei poeti federiciani, Giacomo da Lentini. Significativamente, si tratta di una versione (per quanto assai libera) di un componimento del famoso trovatore provenzale Folchetto (Folquet), vescovo di Marsiglia.

Madonna, dir vo voglio

como l'amor m'à priso

inver' lo grande orgoglio

che voi bella mostrate, e no m'aita.

Oi lasso, lo meo core,

che 'n tante pene è miso

che vive quando more

per bene amare, e teneselo a vita.

Dunque mor'e viv'eo?

No; ma lo core meo

more più spesso e forte

che no faria di morte – naturale,

per voi, donna, cui ama

più che se stesso brama

e voi pur lo sdegnate:

amor, vostra 'mistate – vidi male.

Commento al testo

Una premessa: come sarebbe stato questo testo se ci fosse pervenuto nella sua veste originaria? Piuttosto che cimentarsi in un gioco ricostruttivo, preferiamo porgervi alcuni versi della canzone di Stefano Protonotaro da Messina, secondo la copia tradita da G. M. Barbieri (XVI sec.), che ci restituisce una forma assai vicina, probabilmente, a quella originaria: Pir meu cori alligrari / chi multu longiamenti / senza alligranza e joi d'amuri è stato / mi ritornu in cantari / ca forsi levimenti / da dimuranza turniria in usatu / di lu troppu taciri. Balza subito agli occhi il vocalismo diverso rispetto a quello toscano - le cui regole seguiamo ancor oggi: il siciliano conosce cinque vocali toniche: ò (aperta: còri 'cuore'), u (amuri), i (taciri), è (aperta: bèn), a (fari) e tre vocali atone finali: a (la a finale di dimuranza), i (cori), u (troppu). Il prestigio della poesia siciliana determinerà, nella lirica successiva, la fortuna di forme non toscane (ma conservate nei codici) con è e ò in sillaba libera (cioè terminante in vocale), anziché ie e uo, come in core, foco, omo, fero; o con ì e ù in luogo di é e ó, come in nui, vui, priso, miso. Ciò ha determinato, con la seguente toscanizzazione dei codici, la nascita di una serie di rime imperfette (avere : servire, dalla retrostante rima aviri : serviri), che verranno autorizzate e codificate sotto l'etichetta di rima siciliana:per es., tenere con venire (poiché retrostà la rima tiniri : viniri) o noi con lui (da nui : lui). Venendo alla canzone di Giacomo da Lentini, più che la forma como per come, normale nell'italiano antico (due volte nella Commedia dantesca; dal latino quomo[do]), e che potrebbe comunque nascondere un siciliano pretto comu, ci interessa il vo 'vi' da vos latino, questa sì forma senza dubbio centromeridionale. Notiamo poi cui 'che' complemento oggetto in cui ama del verso 13; questo cui, caratteristico dell'italiano antico, si manterrà a lungo, fossilizzato, nella tradizione poetica italiana. Provenzale è invece l'origine di inver 'in contrasto con, contrastando'. Si noti poi il significato diverso, rispetto a oggi, di orgoglio, che, ricalcando il provenzale orgoglh anche nel significato specializzato della lirica d'amore, qui vale 'superbo, ostentato disdegno amoroso', e di sdegnare 'rifiutare'; mentre (a)mistate ricalca nel significato il provenzale amistat 'legame amoroso'. Per quanto riguarda lo stile, si noti la studiata e raffinata ripercussione di parole chiave, legate da particolari relazioni di suono e di senso: vive, vita, viv('eo) costituisce un esempio di poliptoto o adnominatio, istituto retorico consistente nel ripetere a breve distanza la stessa radice etimologica all'interno della stessa parola o in diverse parole che hanno la stessa etimologia; more, amare, mor', core, more, esempio di paronomasia, cioè di ripetizione a breve distanza, in parole di significato diverso, dello stesso gruppo fonico (qui /or/, con un'unica minima variazione in /ar/ di amare). Il senso del verso finale qui riportato può esser così reso: 'brutto il giorno in cui nacque questo legame sentimentale, viste le pene che ha procurato'.

Testi utilizzati

Arrigo Castellani, Grammatica storica della lingua italiana, I (Introduzione), Il Mulino, Bologna, 2000.

Vittorio Coletti, Storia dell’italiano letterario. Dalle origini al Novecento, Einaudi, Torino, 1993.

Gianfranco Folena, Cultura e poesia dei Siciliani, in Storia della letteratura italiana, I (Le origini e il Duecento), a cura di E. Cecchi e N. Sapegno, Garzanti, Milano, 1976.

Leonardo Rossi – Paola Marongiu (a cura di), Breve storia della lingua italiana per parole, Le Monnier, Firenze, 2005.

Il primi 16 versi della canzone di Giacomo da Lentini, sono tratti dalla versione contenuta in Antologia della poesia italiana (diretta da C. Segre e Carlo Ossola), Einaudi, Torino, 1999.

Immagine: Federico II e la sua corte, bassorilievo a Palazzo dei Normanni, Palermo.

Crediti: trolvag [CC BY-SA 3.0] su panoramio.com, attraverso Wikimedia Commons.