Vent’anni fa, nel 1989, moriva Leonardo Sciascia, intellettuale, scrittore, politico europeo di Racalmuto (Agrigento), ove era nato nel 1921 (www.regalpetra.it/home.htm). «Sciascia deve molto, per la sua formazione intellettuale, alla cultura del ’700 francese e sembra voler proporre con la sua attività una moderna interpretazione dell’intellettuale illuminista», sottolinea Nadia Cannata. Andrea Camilleri, nel recente, interessante Un onorevole siciliano. Le interpellanze parlamentari di Leonardo Sciascia (Bompiani, Milano 2009), raccorda le radici della formazione con la linfa generatrice di opere: «Sciascia è stato e continua a essere sempre un politico, sia che scriva romanzi sia che pubblichi articoli destinati a suscitare vivaci polemiche». Illuminista nella tensione etica (per un’interessante lettura di uno Sciascia anti-illuminista, si legga di Massimo Onofri Storia di Sciascia, Laterza, Roma-Bari 2004 http://archiviostorico.corriere.it/), Sciascia mira sempre a «concretezza ed esattezza», «per rendere trasparente una lingua che per secoli ha soggiornato densa e opaca in letteratura» (Vittorio Coletti). Un obiettivo che può costare caro allo scrittore, quando questi, occupandosi esplicitamente di politica contemporanea, i discorsi altrui intende smascherare e le parole altrui spogliare di ogni ipocrisia: c’è il rischio, per amore di illuminare la realtà e la volontà di non deflettere dalla propria posizione, di dire cose che possono dispiacere ai politici del Palazzo, in anni in cui il Palazzo deve fare i conti con una grave crisi della democrazia (ma capita anche a Sciascia di compiere passi falsi, per astrattezza, come quando, nel 1987, se la prende con il giudice Nino Borsellino e i “professionisti dell’Antimafia” – espressione che, però, non fu lui a coniare http://lists.peacelink.it/; ecco allora che solidarietà pelosa gli viene offerta dal potere).

«Né con lo Stato, né con le Brigate rosse»

Succede quando, nel 1977, Sciascia interviene nella polemica sorta tra numerosi intellettuali e politici italiani dopo la defezione dei cittadini sorteggiati come membri della giuria popolare nel processo in Corte d’Assise a Torino contro Renato Curcio e altri capi delle Brigate rosse. Sciascia confessa «che, non fosse stato per il dovere di non aver paura, avrei rifiutato pure, cercando un medico che con compiacenza mi certificasse un’affezione da sindrome depressiva» e viene perciò attaccato duramente dal Partito Comunista Italiano. Sciascia risponderà scrivendo Candido, da lui stesso letto in proiezione autobiografica come rivendicazione della propria indipendenza intellettuale e politica.

Ricorda Adriano Sofri in una premessa al volume di Adelaide Aglietta Diario di una giurata popolare al processo delle Brigate Rosse (Lindau, Torino 1979, 2009): «Leonardo Sciascia, che con più chiarezza si pronunciava e dunque diventava protagonista e bersaglio prediletto della polemica pubblica, fu associato alla formula “né con lo Stato né con le BR” [lanciata dal quotidiano «Lotta Continua», ndR], benché forse più di lui le corrispondessero Alberto Moravia o Eugenio Montale. Più di lui, che precisava con puntiglio: “Né con questo Stato”. “Per questo Stato non farei il giudice popolare. Se fossi estratto a sorte accetterei per coerenza nei confronti di me stesso e dei valori nei quali credo”. Precisazione che non era cavillosa o retorica. Proprio nella ricostruzione di che cos’era questo Stato e come veniva sentito da tanta parte della società italiana – com’era stato sentito dal Pasolini del processo al Palazzo – è la possibile comprensione di una posizione che altrimenti non sarebbe che codardia o pazzia».

L’affaire Moro

Succede di nuovo che Sciascia debba e voglia demistificare, chiarire, reinterpretare durante i giorni del sequestro di Aldo Moro e ancor più dopo che ha dato alle stampe per l’amata editrice Sellerio il pamphlet L’affaire Moro, nell’autunno del 1978, pochi mesi dopo l’uccisione del presidente della Democrazia Cristiana per mano delle Brigate Rosse.

Per Sciascia, uno Stato forte, solido, può permettersi di trattare con i nemici. La vita di Aldo Moro poteva essere salvata, se fatta oggetto di trattativa. Ma questo Stato, dice Sciascia, non è solido e la “fermezza” è una difesa posticcia. La strategia di coloro che non vogliono trattare si affida a una falsificazione farisaica della realtà, che passa attraverso l’uso distorto della lingua. Indissolubili, il politico e lo scrittore volterriano. Si dice, sui giornali, da parte di politici e opinionisti della “fermezza”, che le lettere dalla prigionia di Aldo Moro mostrano la triste e dolorosa degradazione umana del «grande statista» di prima, ora ridotto a balbettante creatura, distrutto dal dolore e dalla paura, che impetra la salvezza presso i compagni di partito – e via via tanti altri personaggi di rilievo –, a costo di cedere alle richieste delle Brigate rosse.

Sciascia, in L’affaire Moro, scardina questa interpretazione cucita sugli abiti sgualciti di Moro, partendo dall’illuminazione della parola statista:

«“Statista” è propriamente l’uomo dello Stato: colui che allo Stato, alla struttura che lo costituisce, alle leggi che lo regolano, devolve intelligente fedeltà, meditazione, studio; e “grande statista”, ovviamente, colui che queste facoltà e attività devolve al massimo grado. E come era possibile ritrovare l’immagine del “grande statista” nei messaggi che Moro mandava dalla “prigione del popolo”? Le Brigate rosse lo avevano distrutto […] Grande e spiccata menzogna, tra le tante in quei giorni rigogliosa. Né Moro né il partito da lui presieduto avevano mai avuto il “senso dello Stato”. […] Moro non era stato, fino al 16 marzo, un “grande statista”. Era stato, e continuò ad esserlo anche nella “prigione del popolo”, un grande politicante: vigile, accorto, calcolatore; apparentemente duttile ma effettualmente irremovibile; paziente ma dalla pazienza che si accompagna alla tenacia; e con una visione delle forze, e cioè delle debolezze, che muovono la vita italiana, tra le più vaste e sicure che uomo politico abbia avuto».

La conclusione di Sciascia è soltanto apparentemente paradossale: quelli che dicono di stimare il Moro incontaminato di “prima”, «hanno inventato un grande statista che non era più un grande statista» e, in questo modo, realizzando il «misconoscimento di un uomo», «hanno commesso, umanamente parlando, un delitto»; dall’altra parte, libero di «rompere i compromessi e le compromissioni, i giochi delle parti, le mafie, gli intrallazzi, i silenzi, le omertà» (come dice alla giornalista Michelle Padovani per spiegare il suo ingresso nella politica nazionale candidandosi nelle file del Partito Radicale, nel 1979, per le politiche e le europee), Sciascia, lo scrittore, il politico può dimostrarsi coerente con sé stesso nel concludere: «Non ho mai avuto nessuna simpatia per il Moro politicante, ma ho sentito un grande affetto per quest’uomo solo, negato, tradito».

Variazioni e giochi retorici

È interessante notare come lo Sciascia saggista, impegnato a disincrostare le parole da semantiche ingannatrici, sia perfettamente coerente con lo Sciascia narratore nell’uso della lingua. Si avverte nella sua scrittura la riduzione del «divario plurisecolare tra codice letterario e codice parlato dell’italiano» (Claudio Salvatore Sgroi), esperito nel suo primo periodo attraverso «la mediazione del dialetto e dell’italiano regionale», mentre «poi, tramite una lingua più neutra e nazionale, nel Giorno della civetta (1961), l’autore giunge, negli anni Settanta, ad elaborare uno stile in cui il tono di informalità colloquiale della narrazione e dei dialoghi si connette ad una serie ricchissima di variazioni e giochi retorici» (Enrico Testa), molto ben analizzati da Vittorio Coletti nella sua Storia dell’italiano letterario (Einaudi, Torino 1993, pp. 375-78). Questa tessitura di fili diversi in una trama di musicalità sonore, sottolineate da un uso rilevato della punteggiatura, determina un’impronta personalissima sul dettato discorsivo, una cantabilità modulata in poliritmia: si alternano elementi olofrastici, stile nominale, frantumazioni interpuntorie con subordinate complesse, strutture preposizionali ampie, eufoniche dittologie nominali e terne. Così, nei brani succitati, si notano le terne («fedeltà, meditazione, studio», «vigile, accorto, calcolatore»), le dittologie («facoltà e attività», «grande e spiccata», «vaste e sicure»), l’armoniosa interrogazione retorica («E come era possibile ritrovare…?»), la frase nominale incisiva («Grande e spiccata menzogna…») ma costruita con studiata enfasi (la coppia di aggettivi anteposta al sostantivo, quasi statuaria; l’ordine delle parole segmentato dalla tmesi e l’aggettivo rigogliosa in clausola forte, a far simmetria con grande), le correctiones («apparentemente duttile, ma effettualmente irremovibile», «paziente ma dalla pazienza…»), i logicismi antinomici («una visione delle forze, e cioè delle debolezze»).

L’arte dello scrittore fa convivere uno stile nemmeno troppo nascostamente elaborato (talvolta, specialmente nelle opere più tarde, finanche manierato) con la pienezza di un atteggiamento netto e cristallino, che fa dire a Sciascia (intervistato da James Dauphiné): «Come Voltaire e Zola, dunque, è un mio dovere parlare, dire ciò di cui sono convinto».

Immagine: Libro aperto con le parole di Sciascia a Racalmuto (AG).

Crediti: Davide Mauro [CC BY 2.0 IT], attraverso Wikimedia Commons.