Chi fu il più grande cantore dell’Amore, nel “nuovo” e giusto modo? Il Dolce Stil Novo: cioè me medesimo, scrive senza la minima falsa modestia Dante Alighieri. Anzi, un minimo filtro – se filtro è davvero e non, a ben vedere, aggiuntivo mantice insufflatore di vanto – Dante lo frammette, tra la propria persona e la dichiarazione, ché quest’ultima viene da lui posta in bocca al poeta Bonagiunta Orbicciani da Lucca (http://www.classicitaliani.it/Orbicciani.pdf),

nel XXIV canto del Purgatorio (vv. 55-60):

«O frate, issa vegg’io», diss’elli, «il nodo

Che ’l Notaro e Guittone e me ritenne

Di qua dal dolce stil novo ch’i’odo!

Io veggio ben come le vostre penne

Di retro al dittator sen vanno strette,

che de le nostre certo non avvenne;

E bravo Dante… Dopo aver spiegato al buon Bonagiunta – che pure, in vita, aveva avuto la nettezza di criticare certa oscurità del verseggiare guittoniano – come e qualmente lui stesso, Bonagiunta, fosse rimasto ben al di qua di un nodo, un ostacolo che gli impedì di accedere al dolce stil novo, cioè alla fedeltà, tematica e stilistica, a ciò che Amore, spiritualizzato, ditta dentro, Dante si fa soavemente da quegli lodare (‘O fratello, solo ora [che me ne hai contate quattro] vedo veramente il problema che mi impedì di poetare come si deve, nel dolce stil novo…’); ma, così facendo, bontà sua, per lo meno l’Alighieri ci restituisce un’araldica genealogica della lirica italiana. Nonostante l’orgoglio egocentrico di Dante, campeggiano, riconosciute nel loro significato storico, le figure di Guittone d’Arezzo (http://www.classicitaliani.it//Guittone_Egidi.pdf) e, prima di lui, quella di Giacomo da Lentini, il Notaro iniziatore o capofila della scuola siciliana.

Alla corte itinerante dello svevo

Iacopo (Giacomo) da Lentini va ricordato e festeggiato in particolare quest’anno, visto che – si dice – nasce ottocento anni or sono, nel 1210. Di lui poco si sa, perché ci restano scarse tracce della sua biografia e dell’attività di notaio presso la corte federiciana. Sappiamo invece della sua importanza in poesia, poiché egli contribuisce in modo decisivo alla codificazione della canzone aulica, si cimenta con valentìa nella canzonetta e nel discordo e, soprattutto, a quanto pare, è l’inventore del sonetto.

Va detto che la sicilianità della scuola poetica tramandata come siciliana è un’approssimazione per eccesso, anche se Giacomo è siciliano per davvero. Riuniti nella magna curia sveva di Federico II, i poeti cortigiani non risiedono stabilmente a Palermo, capitale del regno. Sappiamo che molti tra i colti rimatori, di mestiere funzionari, dignitari, giudici, notai inseriti negli alti ranghi amministrativi del regno, sono in effetti isolani, come, per esempio, Guido delle Colonne; mentre altri, come Pier delle Vigne e Rinaldo d’Aquino, sono continentali. Questo, più che un mistero, è un segnale della capacità di Federico II di porre «il suo sigillo su un movimento letterario preesistente a lui» (come ipotizzava Arrigo Castellani), polarizzando gli intendimenti poetici e ideologici di un gruppo di intellettuali intorno a una coesa e coerente espressione comune di temi e di “luoghi” retorici. I luoghi reali di provenienza dei poeti diventano a questo punto ininfluente scoria biografica. Tra l’altro, l’elasticità dei riferimenti geografici è messa in luce dal fatto che la corte federiciana, oltre a essere plurilingue, è anche mobile e itinerante.

Il problema della lingua

Il primo componimento databile pervenutoci è la canzone Giamai non mi conforto di Rinaldo d’Aquino (http://it.wikisource.org/), visto il probabile riferimento alla Crociata del 1227-1228 in essa contenuto. L’astrattezza e l’alta stilizzazione dei contenuti non offre appigli utili a stabilire la data certa di composizione delle liriche. Il problema esegetico che si pone ai filologi e ai lettori moderni sta nella lingua in cui le liriche ci sono state tramandate, in particolare, dai tre grandi canzonieri Laurenziano Rediano 9, Banco Rari 217, Vaticano Latino 3793, tutti compilati verso la fine del Duecento in ambito toscano cittadino. La poesia di cui parliamo, prima testimonianza letteraria dell’italiano, come ha scritto Gianfranco Folena, è di «piena sicilianità linguistica e aulicità stilistica», ma, a leggere i manoscritti trasmessi dai codici, tale «piena sicilianiltà» traspare soltanto per via indiretta, in quanto la veste linguistica è fortemente toscanizzata dai copisti. I copisti del tempo se ne impipavano della correttezza filologica così come la intendiamo noi: anzi, pensavano di offrire buon servigio alla lettura dei corregionali normalizzando la dialettalità spiccata del testo siculo. Insomma, noi, ancor oggi, leggiamo la quasi totalità di quei componimenti nella versione toscanizzata dei copisti.

La Provenza e il latino

«Fin dall'inizio c’è […] un passato che interviene a modificare e arricchire la lingua materna ancora vergine di letteratura», scrive Vittorio Coletti. La poesia siciliana si nutre, cioè, di una tradizione concettuale e linguistica che viene d’oltralpe, dalla Provenza cortese trobadorica: basti pensare al copioso lessico inserito in certe tipiche serie suffissali (-anza: amanza, amistanza, erranza, mispregianza, tristanza; -enza: canoscenza, cordoglienza, credenza; -mento: cominzamento, confortamento, regimento; -agio: coragio, damnagio, usagio; -ore: amarore, dolzore, verdore; -ura: chiarura, frondura, riccura), spesso proprie anche del siciliano (e poi del toscano) e che per i poeti siciliani, Giacomo per primo, hanno forza di autorevole sigillo esterno di qualità e nobiltà. La ricerca di nobilitazione si esplica nella creazione di termini astratti, di cui i volgari italici, poco presenti in usi colti, non hanno fino a quell’altezza cronologica avuto gran bisogno. All’innalzamento linguistico e stilistico del poetare sopra la parlata materna concorre anche il latino, attraverso la conservazione di certi nessi consonantici (speclu invece di spechu, altru invece di autru), qualche volta in sinergia anche con la norma francese o provenzale (Coletti cita blanca, blasmare, claro).

Il sonetto canta da solo

Un nuovo costrutto metrico, il sonetto, si va ad aggiungere alla tradizionale canzone curiale e alla canzonetta, segnando uno sviluppo e uno scarto rispetto alla tradizione. Perché il sonetto, innanzi tutto, è pensato come espressione autonoma di poesia, svincolata dal canto e dall’esecuzione musicale. Ecco, dunque, un esempio di amor cortese al modo siciliano. Si tratta dei versi 1-16 della canzone Madonna, dir vo voglio di Giacomo da Lentini. Significativamente, si tratta di una versione (per quanto assai libera) di un componimento del famoso trovatore provenzale Folchetto (Folquet), vescovo di Marsiglia.

1 Madonna, dir vo voglio

2 como l’amor m’ha priso

3 inver’ lo grande orgoglio

4 che voi, bella, mostrate, e no m’aita.

5 Oi lasso, lo meo core,

6 che ’n tante pene è miso

7 che vive quando more

8 per bene amare, e teneselo a vita.

9 Donqua mor’e viv’eo?

10 No; ma lo core meo

11 more più spesso e forte

12 che no faria di morte - naturale

13 per voi, donna, cui ama

14 più che se stesso brama

15 e voi pur lo sdegnate:

16 amor, vostr’amistate - vidi male.

Riesce difficile immaginare come si sarebbe presentato a noi nella sua veste originaria questo componimento. Un’idea per analogia ce la possiamo fare leggendo alcuni versi di una canzone di Stefano Protonotaro da Messina, secondo la copia tradita da G. M. Barbieri (XVI sec.), che ci restituisce una forma assai vicina, probabilmente, a quella originaria: Pir meu cori alligrari / chi multu longiamenti / senza alligranza e joi d'amuri è stato / mi ritornu in cantari / ca forsi levimenti / da dimuranza turniria in usatu / di lu troppu taciri. Balza subito agli occhi il vocalismo diverso rispetto a quello toscano, che impregna di sé tutta la rimica del componimento. Il prestigio della poesia siciliana determinerà, nella lirica successiva, la fortuna di forme non toscane (ma conservate nei codici) con è e ò in sillaba libera (cioè terminante in vocale), anziché ie e uo, come in core, foco, omo, fero; o con ì e ù in luogo di é e ó, come in nui, vui, priso, miso. Ciò ha determinato, con la seguente toscanizzazione dei codici, la nascita di una serie di rime imperfette (avere : servire, dalla retrostante rima aviri : serviri), che verranno autorizzate e codificate sotto l’etichetta di rima siciliana:per es., tenere con venire (poiché retrostà la rima tiniri : viniri) o noi con lui (da nui : lui).

Maledetto il giorno che t’ho incontrato

Tornando alla canzone di Giacomo da Lentini, più che la forma como (v. 2) per come, normale nell’italiano antico (due volte nella Commedia dantesca; dal latino quomo[do]), e che potrebbe comunque nascondere un siciliano pretto comu, è interessante il vo ‘vi’ (v. 1) da vos latino, questa sì forma senza dubbio centromeridionale. Notiamo poi cui ‘che’ complemento oggetto in cui ama del verso 13; questo cui, caratteristico dell’italiano antico, si manterrà a lungo, fossilizzato, nella tradizione poetica italiana. Provenzale è invece l’origine di inver’ (v. 3) ‘in contrasto con, contrastando’. Si noti poi il significato diverso, rispetto a oggi, di orgoglio (v. 3), che, ricalcando il provenzale orgoglh anche nel significato specializzato della lirica d’amore, qui vale ‘superbo e ostentato disdegno amoroso’, e di sdegnare ‘rifiutare’ (v. 15); mentre amistate (v. 16) ricalca nel significato il provenzale amistat ‘legame amoroso’. Per quanto riguarda lo stile, si noti la studiata e raffinata ripercussione di parole chiave, legate da particolari relazioni di suono e di senso, come il poliptoto in vive, vita, viv(’eo) o la paronomasia in more, amare, mor’, core, more (con un’unica minima variazione vocalica in /ar/ di amare). Il senso del verso finale è nella deplorazione delle pene amorose: maledetto il giorno che t’ho incontrato, direbbe oggi, meno “cortesemente” d’allora, Carlo Verdone.

Immagine: Manoscritto Palatino 418, incipit Madonna, dir vo voglio di Giacomo da Lentini.

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