Sembra che i cinque romanzi finalisti del Premio Strega 2012 non siano caratterizzati da una scrittura densa di turpiloquio e, più in generale, di quelle voci ed espressioni cui la linguista Nora Galli de’ Paratesi intitolò un suo saggio rimasto famoso, Le brutte parole (sottotitolo: Semantica dell’eufemismo, I ediz. Giappichelli, Torino, 1964; poi Mondadori). Emanuele Trevi, Gianrico Carofiglio, Alessandro Piperno, Marcello Fois, Lorenza Ghinelli si collocano su una linea di medietà, rispetto ai romanzi degli ultimi quindici anni: certo, qualche parola “brutta” qua e là, quando la mimesi, il rovello espressivo, la sottolineatura della ricerca di vicinanza al parlato ci è voluto anche per loro, ma con juicio. E pensare che il romanzo vincitore del 2007, Come Dio comanda, di Niccolò Ammaniti, si apriva con un tambureggiante «Svegliati! Svegliati, cazzo!», rompighiaccio di una banchisa in realtà già papposa e pronta a sciogliersi sotto l’azione dell’autore.

«La provocazione verbale a suo tempo propria del Fascismo»

Chi legge, ormai, una presenza consistente di parole una volta usate con le pinze, ora scaricate a palate sulla pagina, se l’aspetta. Come potrebbe essere diversamente? La lingua della letteratura non è da tempo, né cerca di essere, modello di decoro. È immersa in una società che ha conosciuto negli ultimi decenni una discesa netta lungo la scala della formalità, anche nelle interrelazioni comunicative e nei setting mediatici informativi e d’intrattenimento (tv, rete e web 2.0). I politici non sono più, come un tempo, migliori dei loro elettori, almeno sotto il profilo del controllo del linguaggio, né aspirano a esserlo; anzi, fanno a gara, con ringhi di sorrisi che vorrebbero sembrare rassicuranti, a mostrarsi tali e quali a come pensano che siano molti dei loro elettori: berciano, sbraitano, attaccano l’avversario a suon di sberleffi e parolacce. «La provocazione verbale a suo tempo propria del Fascismo (me ne frego!), sradicata dai discorsi pubblici nel corso della Prima Repubblica, riemerge come per un fenomeno carsico con la Lega di Bossi (e il suo famoso La Lega ce l’ha duro), per poi dilagare di là dagli steccati originari» (Serianni 2008), complice il rutilante mondo delle conversazioni sbragate tra “furbetti” d’ogni risma (dai piani alti delle istituzioni alle stanzette dei “quartierini”), intercettate e devolute alla massima curiosità mediatizzata nel corso degli ultimi anni.

Cento parolacce in cento minuti

All’interno di una sintesi rapida e tagliente, Giuseppe Antonelli (Antonelli 2011) constata: «Che ci piaccia o no, d’altronde, le parolacce fanno ormai parte del modo di esprimersi quotidiano e informale di quasi tutti gli italiani. Secondo uno studio del 2000, in televisione si sentivano 70-100 parolacce al giorno; secondo un altro del 2003, una ogni 21 minuti […]; nel film campione d’incassi Natale sul Nilo (2002) se ne contavano cento in cento minuti» (p. 45). Il «senso del pudore linguistico», scrive Antonelli, si è assai allentato, complice l’allargarsi a bolla indefinita dell’universo del privato attraverso le sempre più disinvolte comunicazioni tramite telefonino: l’essere, nostro malgrado, informati di tutto quello che succede al nostro vicino seduto in metropolitana comporta il privilegio indesiderato di cogliere la tranquilla confidenzialità en plein air dei colloquianti cucinata con grigliate di esclamazioni, imprecazioni, improperi – ogni giorno si celebra per strada e nei corridoi un indiscriminato vaffa-day. Nel 1993, avverte Antonelli, la parola cazzo «risultava al 722° posto tra i vocaboli più ricorrenti nel parlato degli italiani (dopo notare e prima di verde […])». Chi scrive è ragionevolmente sicuro che in vent’anni varie posizioni in classifica siano state scalate.

Nell’antro dello Strega

A proposito di cotanta parola, essa, esso cazzo, risulta attestata nella lingua scritta dagli inizi del Trecento e da sempre è presente nella narrativa e nella letteratura giocosa, burlesca, carnascialesca (ecco Dolcibene in Franco Sacchetti, nelle Rime, CXXIIb, 9: «Ch’io ho il cazzo mio, ch’è tanto vano / che dorme su’ coglioni, e non si desta, / ed è cinq’anni o più che non fu sano»), più ancora come concentrato tematizzante che come ingiuria. Per venire ai tempi moderni, caviamo qualche spicciolo di dato dal Primo tesoro della lingua letteraria italiana del Novecento, curato da Tullio De Mauro (Utet-Fondazione Goffredo e Maria Bellonci), che offre all’interrogazione di critici e studiosi della lingua letteraria italiana contemporanea i 60 testi delle opere vincitrici del premio Strega dall’anno della sua prima edizione (1947, vincitore Ennio Flaiano con Tempo di uccidere) fino all’edizione del 2006 (vinta da Sandro Veronesi con Caos calmo), più altri 40 ritenuti particolarmente significativi nel panorama letterario italiano. Un osservatorio interessante, perché per tradizione il genere di opera che si espone e impone allo Strega ha caratteristiche di medietà stilistica ed espressiva (in senso tecnico e non valutativo). Ebbene, se nella vaschetta di interrogazione della ricerca semplice si digita prima cazzo e poi cazzi, si ottengono in un elenco le occorrenzesuddivise per romanzo. Dal 1947 al 1998 (52 anni), risultano 9 occorrenze, suddivise in sole 6 opere. Dal 1998 al 2006 (9 anni), le occorrenze salgono a 273, concentrate in 9 opere.

Veronesi batte Starnone 106 a 87

Il primato è detenuto da Caos calmo di Sandro Veronesi (2006), con 106 attestazioni; segue Via Gemito di Domenico Starnone (2001), con 87; poi Nel corpo di Napoli di Giuseppe Montesano (1999), con 42; Non ti muovere di Margaret Mazzantini (2002), con 10; La dismissione di Ermanno Rea (2002), con 9. Va notato che la famiglia di corradicali è ben rappresentata in Caos calmo: incazzarsi 7, cazzone 6, cazzata 6, incazzato 1. In quanto a cazzata, il primato è di Nel corpo di Napoli, con 18 attestazioni. Nessuna occorrenza di cazzo dove forse pensavamo che fosse quasi scontato trovarne, vale a dire nei due romanzi “scandalosi” di Pier Paolo Pasolini sul sottoproletariato romano (non vincitori dello Strega), Ragazzi di vita (1955, che ha il quasi affettuoso pisello una volta) e Una vita violenta (1959, che ha pisello due volte e il sicilianismo Minchia 5 volte, ma come soprannome di uno dei componenti della “banda”): a riconferma che l’altezza cronologica ha un significato decisivo per misurare l’apertura al linguaggio crudo nella letteratura italiana degli ultimi cinquanta-sessant’anni. Una crudezza anti-eufemistica che oggi non è più tabù, anzi è ricercata come una delle possibili chiavi di rappresentazione più caratteristiche della società e dell’essere umano contemporanei, sempre che a maneggiarla ci siano scrittrici e scrittori di valore.

Testi citati

Antonelli = Giuseppe Antonelli, Lingua, in Modernità italiana. Cultura, lingua e letteratura dagli anni settanta a oggi, a cura di Andrea Afribo e Emanuele Zinato, Carocci, Roma, 2011.

Serianni = Luca Serianni, Che ne è del politichese?, in «Italianieuropei», 2008, 2, pp.150-154.

I versi di Franco Sacchetti sono recuperati in Valter Boggione e Giovanni Casalegno, Dizionario storico del lessico erotico italiano, Longanesi & C., Milano 1996, p. 215.

Immagine: Alberto Sordi nel film I vitelloni.

Crediti: fotogramma dal film I vitelloni di Federico Fellini (1953).

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