Across the Universe dei Beatles, I nostri anni di Tommaso Paradiso, Roses are red degli Aqua, Prima di partire per un lungo viaggio di Vasco Rossi e Irene Grandi, G.U.Y. di Lady Gaga, Does everyone stare dei The Police. Cos’hanno in comune queste canzoni, separate da abissi, ma tutte ascrivibili allo sconfinato filone della musica pop? La durata: nel disco in cui sono comparse la prima volta, durano 3 minuti e 52 secondi. Esattamente quanto E ti vengo a cercare di Franco Battiato, nella sua incisione nell’album Fisiognomica. Eppure, cosa succede in quei 3 minuti e 52 secondi? Quanto radicalmente diversa può essere, già solo pensando alle canzoni che abbiamo elencato alla rinfusa, l’esperienza vissuta all’interno di uno stesso intervallo di tempo? Per chi lo ama, ma forse anche per chi non lo ama, Battiato è il paradigma della diversità di un tempo che sul cronometro resta uguale, ma dentro muta qualità. Si sa che già i greci avevano sentito il bisogno di dare un nome esclusivo (poi ereditato dalla teologia cristiana) a questo concetto: il kairòs, il tempo propizio, opportuno.

Una voce capace di traversare le differenze sociali e culturali

Lo scorso 18 maggio, poco più di un mese fa, la notizia di una morte ha riempito le pagine delle reti sociali, la nostra solita cassa di risonanza e distorsione emotiva, forse ancor più drogata nei giorni in cui si riaffacciavano i primi cenni di normalità post-pandemica. Questi riti collettivi, nella loro declinazione virtuale, diventano ancora più facilmente una fiera delle vanità e degli stereotipi. Eppure, mentre la rotellina del mouse mi scortava lungo l’infinita pagina degli aggiornamenti, mi convincevo che nel saluto a Franco Battiato ci fosse qualcosa di diverso. Per prima cosa, il saluto prendeva, sostanzialmente, la forma di un grazie: forse perché il ritiro a Milo e le notizie sulla malattia avevano di fatto già dato avvio all’elaborazione del lutto, un lutto comunque «molto simile a quello che si accompagna alla scomparsa dolorosa e inaccettabile di un congiunto stretto con cui si è convissuto intimamente per una vita intera», come ha scritto Francesco Vinci in uno dei ricordi più belli pubblicati in quei giorni. Ma, mentre No Time No Space risuonava tra le pareti di casa fin dalla mattina (il mio banale buon viaggio), mi stupivo soprattutto che a raccontare di aver passato la giornata in modo simile c’erano i soggetti più diversi: dall’ex compagno di scuola ingegnere nelle multinazionali al portiere di un mio vecchio condominio, dall’amico del calcetto alla campionessa celebrata di poetry slam. Ho pensato che, per una volta, quel compianto virtuale rifletteva esattamente la realtà: ai concerti di Battiato rimanevi a bocca aperta, indeciso se guardare il palco o la platea, perché attorno a te raffinati cipigli intellettuali si alternavano con naturalezza a personaggi verdoniani diametralmente tatuati che cantavano a squarciagola di minima immoralia o della misantropia celeste in Benedetti Michelangeli. E se piacere a un pubblico vasto non è certo sintomo automatico di grandezza artistica, trovare una voce capace di traversare le differenze sociali e culturali lo è decisamente di più. Nella letteratura italiana, dopo Dante è successo pochissime volte.

I calzari di Empedocle

Franco Battiato «ci ha lasciato i frammenti di un unico grande poema fisico e lustrale», «poggiati sull'orlo del suo vulcano come i calzari di Empedocle», ha scritto meravigliosamente la bizantinista Silvia Ronchey nel suo commiato. La Ronchey sottolinea il collegamento tra l’inclinazione mistica di Battiato e la vasta e raffinata composizione di reminiscenze letterarie, artistiche, musicali, spirituali, linguistiche che ha fondato il suo linguaggio musicale e verbale. Infatti, se nel vortice di tessere prese ovunque nel mosaico dello scibile, che caratterizza la produzione di Battiato soprattutto fino agli anni Novanta («Fanciulli con sguardo da fiere, gli occhi di lince dei Braganza, fissano il Nord. Sognando l'oltremare, come ghirlanda intrecciano una danza. Trago dentro do meu coracao», Segunda-Feira, uno solo fra gli infiniti esempi), si tende a vedere l’ingresso del gusto post-modernista nella tradizione cantautoriale italiana, è anche vero che sarebbe sbagliato ridurre lo stile del maestro catanese a una sorta di epopea del pastiche. Intanto perché la tecnica retorica dell’excursus esotizzante è antichissima e attraversa millenni, dai carmina docta a Manzoni («Dall’Alpi alle piramidi, dal Manzanarre al Reno…»). E poi perché, come dice Ronchey, in Battiato ciò riflette una esigenza espressiva e spirituale: quasi come se il cantautore volesse imitare il punto di vista dei suoi amati dervisci, quando girano veloci su sé stessi e ai loro occhi il reale diventa un unico flusso di colori senza confini.

Aforismi, chiasmi e massime sapienziali

Tra l’altro, il paesaggio linguistico di Battiato, fitto di citazioni e accostamenti tanto inusuali e intricati d’apparire a volte inesplorabili, è capace anche di aprirsi in radure ampie: dal gusto (spesso autoironico) per il giudizio sentenzioso («la musica contemporanea mi butta giù», Up Patriots to arms) e l’immediatezza delle strutture chiastiche («vuoto di senso / senso di vuoto», Il vuoto), alle tante formule aforistiche («La scomparsa misteriosa e unica di Majorana», Mesopotamia), fino alle massime sapienziali che ormai si trovano scritte sui muri, consegnate alla memoria collettiva (serve dirlo? «E il mio maestro m’insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire», Prospettiva Nevskij). Non sempre, poi, Battiato disdegnava lo sviluppo coerente di analogie e similitudini, più in linea con la tradizione canzonettistica («pensieri leggeri si uniscono alle resine dei pini / si fa chiara la mente / come nuvola / Pensieri leggeri / si uniscono alle luci e ai colori / al silenzio lontano / delle nuvole», Tiepido Aprile).

Parodie

Va da sé: il tasso di esotismo e ricercatezza nei testi di Battiato è comunque così forte da esporsi quasi inevitabilmente alle critiche e alla parodia. Del resto, anche non preoccuparsi troppo dell’effetto pacchiano era un modo, come diceva il catanese, di essere fedeli al proprio ruolo: non andare incontro al gusto del pubblico (di quello più blasé, in questo caso) ma seguire senza autocensure la propria curiosità. Purtroppo, se qualcuno ha usato bene l’arguzia (le imitazioni di Bollani o Fiorello, che nel 1993 lanciò in radio Mare Nostrum spacciandosi per Battiato, e ingannando non pochi: «Che ne sanno le aringhe nubili dei riti dei merluzzi baltici»), altri si sono fatti esempio della superficialità che si nasconde – non troppo a fatica, bisogna dire – dietro le vesti dei polemisti di professione (Murgia ha giustificato le sue battute, di cui comunque si è parlato fin troppo, come parte di un format: un sedicente giochino intellettuale, che in ogni caso non è stato elegante esternare solo quando Battiato, notoriamente, non era più in grado di rispondere; anche se quest’ultimo, probabilmente, non avrebbe dato il minimo peso alla cosa).

La pronuncia e la rinuncia

Fra i tratti tipici del suo stile che chiunque additerebbe c’è inoltre il ricorso alle lingue straniere (o al dialetto siciliano, integrale in Stranizza d’amuri): a partire da Centro di gravità permanente («you are a woman in love baby come into my life») gli inserti in altre lingue sono una costante, anche nei titoli (The game is over, No Time No Space, ecc.); e non si limitano alle citazioni, ma sono creazioni (cfr. Stefanelli 2005: 265), segmenti lunghi di testo elaborati dall’autore in altre lingue a scopo evocativo e secondo gusti di sonorità (basti pensare alla già citata No Time No Space: «another race of vibrations, the sea of the simulation»). Mi sembra importante notare un aspetto che a molti faceva storcere il naso: la pronuncia di Battiato (in inglese, ma anche francese e tedesco) non era sempre curata e, anzi, tutt’altro che impeccabile; ma anche questo difetto potrebbe essere letto alla luce della volontà di allargare il più possibile il campo della propria ispirazione, come se l’amore e la curiosità di abbracciare le vastità del sapere valessero la pena di rinunciare al bon ton.

Corde vocali a Baghdad

E se non fosse stato così non avremmo avuto, forse, L’ombra della luce cantata in arabo durante il concerto a Baghdad, con l’orchestra diretta da Giusto Pio, senz’altro uno dei momenti più alti nella carriera di Battiato, che portava questo omaggio a una popolazione stremata dalla Prima Guerra del Golfo: mai come allora, non a caso, i suoi lineamenti erano tesi e commossi durante l’esecuzione. Come capita a molti altri artisti in situazioni simili, Battiato fu criticato per essere andato a suonare da Saddam; in realtà, il concerto era inserito all’interno di una missione umanitaria, e aveva permesso di consegnare molti aiuti, fra cui corde di violino per le orchestre irachene che ne erano rimaste sprovviste.

Un altro volo del divino

In un’intervista, Battiato una volta disse più o meno così: sapere che le nuvole sono un agglomerato di gas condensato non intacca di una virgola il nostro stupore nel guardarle. Effettivamente, lo distingue dagli altri cantautori “storici” una familiarità molto maggiore con la scienza che – vissuta non come un blocco, ma semmai come altro volto del divino, stimolo fortissimo all’esperienza mistica – è tutt’altro che riducibile al gusto per il tecnicismo fine a sé stesso. Ricordate il ritornello di Fenomenologia? Si chiude con la vocalizzazione di due equazioni («x1 = A*sen (ωt) e x2 = A*sen (ωt + γ)») che, rappresentate graficamente sull’asse cartesiano, ricordano la struttura ad elica del DNA, cioè l’argomento di Fetus. Cose possibili solo negli anni gloriosi del grande progressive rock italiano, o forse solo a Battiato. Da questo punto di vista, altri grandi cantautori come Gaber, De André e Guccini hanno invece portato avanti il sussiego un po’ stereotipato dell’umanista rispetto alle matematiche.

Articoli e dislocazioni

L’italiano di questo musicista-filosofo, pur volando in verticale verso mondi lontanissimi, con le loro geometrie esistenziali, non perde la capacità di essere orizzontalmente reale, concreto, sempre attratto dalla sensualità e sensorialità dell’aldiquà, finanche al grottesco (penso alla prima strofa della troppo poco conosciuta Come un sigillo, da Fleurs 3, ispirata al Cantico dei Cantici; all’esplosività del Ballo del potere; o a Testamento, il cui titolo Marco Travaglio – amico stretto di Battiato – ha giustamente invitato a prendere alla lettera, indicando la canzone come lascito spirituale del cantautore: «E mi piaceva tutto della mia vita mortale / Anche l'odore che davano gli asparagi all'urina»). Un aspetto, questo, che impatta anche su particolari linguistici minuti: come ha notato Antonelli 2019: 114, è con I treni di Tozeur (1984) che Battiato e Alice contribuiscono a rilanciare l’uso dell’articolo determinativo nei plurali dei testi di canzone, laddove prima gli chansonnier tendevano a preferire l’astrazione ermetica data dall’uso del solo sostantivo; ma è stata notata (Telve 2008: 149-150) anche la presenza di tratti marcatamente orali e colloquiali, ad esempio la dislocazione a destra («Le sento più vicine, le sacre sinfonie del tempo»).

Il modello dantesco

Capacità di tenere stretti l’alto e il basso, anche a livello di pubblico; sperimentalismo espressivo e ricorso ad altre lingue; apertura all’immaginario scientifico; il divino come scopo ultimo (unico) dell’arte. Il modello di Dante in Battiato agisce sicuramente ben oltre la citazione celeberrima del canto di Ulisse che troviamo in Testamento.

E se l’apice di Dante sono gli ultimi versi del Paradiso, La porta dello spavento supremo (dove, questo dice davvero tutto, Battiato ha fatto cantare un filosofo nichilista, il fedele Sgalambro) per chi scrive rappresenta la vetta del misticismo di Battiato. Dopo una breve pausa, su cui nei concerti spesso l’esecuzione del brano terminava, la canzone incisa su disco invece continua, guidata dall’arpeggio del pianoforte. E Battiato quasi sussurra, in questo finale oltre il finale, come un aldilà della canzone: «Il nulla emanava la pietra grigia, e attorno campi di zafferano. Passavano donne bellissime, in sete, altere».

Verso quella dimensione lanciamo il nostro saluto a un essere speciale che ha avuto cura di noi. Con un augurio rivolto in realtà a noi stessi, usando le parole di Alan Sorrenti cantate in Fleurs 3: «Vorrei essere capace di amare il tuo amore senza di te, in cerca delle tue radici» (Le tue radici).

Riferimenti bibliografici

Antonelli (2019) = Giuseppe Antonelli, Ma cosa vuoi che sia una canzone. Mezzo secolo di italiano cantato, Bologna, Il Mulino (1a ed. 2010).

Rossi (2010) = Fabio Rossi, Canzone popolare e lingua, in Enciclopedia dell’Italiano, disponibile in rete.

Stefanelli (2005) = Stefania Stefanelli, Plurilinguismo in Battiato, in Storia della lingua italiana e storia della musica, a cura di E. Tonani, Firenze, Cesati, pp. 259-270.

Telve (2008) = Stefano Telve, Il modello linguistico orale / parlato nella canzone italiana contemporanea, in Annali Online di Ferrara, Vol. 1, disponibile in rete.

Immagine: Franco Battiato al Festival Gaber, 2010

Crediti immagine: rabendeviaregia, CC BY-SA 2.0 https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0, via Wikimedia Commons